Cultura
Cosa resta del 25 aprile?

Un ragionamento sulle idee di libertà e liberazione

Recita così un lancio Ansa del 19 di questo mese: «Il 25 aprile saremo in piazza alle otto [del mattino, ndr] a Porta San Paolo. Quest’anno la Liberazione non può essere all’insegna di una sfilata ipocrita. È in corso un genocidio in Palestina, quindi non permetteremo che sia esposto e associato alla Resistenza nessun simbolo sionista». Lo dice, all’Ansa medesima, Maya Issa, la presidente del Movimento degli studenti palestinesi. «La comunità ebraica prenda le distanze dallo Stato israeliano», aggiunge la rappresentante degli studenti palestinesi. Si tratta di affermazioni tassative, che nulla concedono ad un qualche spazio di mediazione. Se mai lo si volesse ancora, tanto per capirci. Il vessillo e gonfalone della Comunità ebraica di Milano (laddove si svolge uno dei più importanti cortei, in Italia), questa volta non ci sarà. Quello della Brigata ebraica, fino a prova contraria, sarà invece ancora presente. Tuttavia, è del tutto plausibile che quest’anno, più ancora che negli anni trascorsi, diverrà oggetto di insulti, dileggi e cos’altro.

Non si tratta di liquidare il tutto come un’esclusiva manifestazione di «antisemitismo». È vero: c’è in ciò anche molto di quanto conosciamo come, per l’appunto, antisemitismo. Ma non basta. Poiché esiste una sorta di buco nero dove ogni ragione residua, ogni razionalità “resistente”, ogni pensiero non allineato, vengono completamente ingoiati e disintegrati. A favore di una feroce interpretazione degli eventi, trascorsi e presenti, dove si cerca sempre e comunque un capro espiatorio. La dannazione d’Israele, nell’oggi (lo Stato) così come nel passato (il «popolo»), riposa in un tale meccanismo. Il quale funziona implacabilmente, come una sorta di falce che taglia quanto non sia allineato con una visione della «liberazione», della «libertà», della stessa emancipazione individuale e collettiva secondo un canone populistico basato sulla contrapposizione dicotomica tra ciò che sarebbe giusto (il puro, il giusto, il buono) e il resto (l’immondo, il contaminato, il depravato). Usare il 25 aprile per giudicare le opinabilissime politiche dei governi d’Israele, risponde a questo infernale meccanismo.

Ne deriva che le comode equivalenze, così come le immediate equazioni (ebrei = israeliani, ossia «colonialisti», rapaci poiché tarati su un’antica indole di bramosia; palestinesi = «proletari», tali in quanto dall’animo genuino, adamitico e così via) abbiano infatti la meglio su tutto il resto. Che è invece la capacità non certo di creare gerarchie di dolore, di sofferenza, di primazia (ancora meno il dichiarare che certuni siano a di sopra delle proprie responsabilità) quanto di tenere insieme i difficili fili del discorso del rapporto storico tra dominanti e dominati, quand’essi siano perennemente mutevoli e, proprio per questo, destinati a non cristallizzarsi in ruoli definitivi. Altrimenti come tali, astorici poiché privi di qualsiasi ancoraggio con la realtà dei fatti. Non a caso Israele è da sempre, ossia dallo stesso 1948 (anno della formalizzazione della sua esistenza come comunità politica indipendente), sotto attacco. Sul piano della sua legittimità storica. In quanto – a prescindere dalla discutibilità delle politiche assunte, di volta in volta, dai suoi governi – il vero rigetto altrui risiede, al suo nucleo, nel rifiuto dell’esistenza di uno Stato degli ebrei. I quali debbono rimanere “tali” proprio perché testimoniano, per il fatto stesso di esistere in quanto diaspora, dell’abusività di ogni tentativo di ricomposizione nazionale. Se un tempo al popolo “eletto” si attribuiva la colpa di essere deicida, oggi alla popolazione d’Israele si assegna la responsabilità di essere genocida. In tutto ciò opera il soverchiante dispositivo (altrimenti per i più troppo complesso e fastidioso da analizzare), della distruzione del pensiero critico.

Siamo arrivati di nuovo al 25 aprile, una data che per l’Italia indica una svolta epocale. Nella storia, quindi rispetto al suo passato, non meno che al pari del difficile presente. Rimandando, in tutto ciò, non tanto ad un qualche obbligo della memoria quanto alla sua possibilità di tradurla costantemente in intervento sia civile che politico. Checché se ne dica, ad oggi, quella data corrisponde ad un passaggio che incide non esclusivamente sul calendario politico ma anche, e soprattutto, rispetto a quello civile. Si tratta quindi di un indice fondamentale di periodizzazione tra il prima (la dittatura, l’obbrobrio fascista, il delirio mussoliniano e poi quello bellico, il razzismo di Stato come anche il declino della vecchia oligarchia liberale) ed un poi (la conquista, attraverso le proprie mani, non solo delle libertà personali e civili ma anche, e soprattutto, dell’indipendenza nazionale, tale poiché basata sull’autonomia politica). Se per gli ebrei del 1848 e dei due decenni successivi – come tali parte attiva del sopravveniente Regno d’Italia – l’emancipazione era in fondo ancora il risultato di una “graziosa” concessione dall’alto, cento anni dopo la lotta corale per la Liberazione collettiva, dettata tanto dalle oggettive necessità (le leggi del 1938, il tallone nazista, il fantasma della deportazione) quanto da un intimo convincimento (quello che legava l’esistenza individuale alla libertà di tutti, non solo dalla paura ma anche dal bisogno di avere paura per continuare a sopravvivere), costituiva semmai un orizzonte completamente diverso. Il sofferto e problematico transito della guerra di Liberazione, infatti, è riuscito ad andare ben oltre a ciò che già c’era, riconoscendo che nelle libertà e nella giustizia sociale di una società riposa anche il riconoscimento delle peculiarità di una specifica minoranza. Nonché viceversa. Non a caso, moltissimi ebrei italiani parteciparono al partigianato. Per l’appunto, non solo per sopravvivenza ma anche per la dignità dell’esistenza. Propria come altrui.

No, nessuna gratuita apologia della stessa minoranza ebraica italiana, quand’anche essa abbia direttamente concorso alla lotta di Liberazione. Non è questo il punto. Mentre invece ci concentriamo, tornando al presente, sullo sfaldamento di un fronte antifascista che, sempre più spesso, ai giorni nostri, si rivela incapace non solo di capire e di capirsi. Condannandosi quindi all’irrilevanza, perduto com’è nelle mene delle fantasie e delle suggestioni astoriche.
L’equazione, in questo caso, parrebbe facilissima: poiché i “progressisti” (la sinistra, i liberali non conservatori, i riformisti e i “rivoluzionari”) stanno con gli oppressi, nel conflitto tra israeliani e palestinesi sono i secondi ad assumere un tale ruolo rispetto all’opinione pubblica. Quindi, i primi, per necessità di cose, sarebbero gli oppressori. Tra Israele e «Palestina», secondo una logica rigidamente dicotomica, si tratta di scegliere a favore dei soccombenti, senza farsi troppe domande. La storia, in fondo, non conta. Ad oggi i prevaricatori sono infatti i «sionisti» mentre i sopraffatti sono gli arabo-palestinesi. Da ciò, pertanto, deriverebbero la necessità, di piegare ogni circostanza ad una tale consapevolezza. La quale ci direbbe essenzialmente una cosa: ossia, che ad esercitare la sopraffazione sarebbero i membri di un gruppo etnico, tale poiché in sé saldamente vincolati. Soprattutto, il quale si giustifica a prescindere, senza troppi fronzoli. Non è questa, a conti fatti – ragionano in molti – la vera natura dell’occulta potenza ebraica?

Posto tutto ciò, nel corso del 25 aprile di quest’anno, se ne può stare certi, i ritualismi delle intolleranze e la ferinità di alcune tracotanze, quindi la ripetizione maniacale di certe invettive e l’ossessione del rigetto della storia, avranno malgrado tutto la meglio su tutto il resto. Inquinando da sé la ricorrenza, nel nome di una «moralità» (quella dei vinti, tali o presunti, poiché posti in condizione subalterna) che si impone su tutto e tutti. Non di meno, dichiarando che essa ha senso esclusivamente se dal passato ci si raffronta acriticamente con le tragedie del presente. Sovrapponendole superficialmente. Tra di esse – soprattutto – quella che si sta consumando a Gaza. Un tale approccio, in sé apparentemente neutro, comunque per molti accettabile, nasconde invece una menzogna totale. Non necessariamente solo quella per cui i «sionisti», ovvero gli «ebrei», sarebbero i carnefici del presente. Bensì il convincimento, che già nel Novecento era abbondantemente diffuso, per cui la liberazione collettiva corrisponderebbe con la soppressione di qualsiasi alterità quand’essa sia vissuta come alterazione. Quest’ultima, dell’inesistente ordine naturale delle cose, della vita, del trascorrere del tempo; quello per cui, in fondo, gli ebrei sono solo una sorta di manifestazione della metamorfosi nel peggio. Per il tempo che così come nell’oggi.

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


1 Commento:

  1. Come sempre acuto e lucido Claudio Vercelli, pur nella complessità della problematica storica e attuale. Mi domando soltanto perché ora? Perché questo evidente ritorno di un antisemitismo sempre meno camuffabile come antisionismo. E quale il senso del suo evidente connotarsi, non più tanto come residuo di nazifascismo razzista, ma di antisemitismo rosso-bruno, proclamato da tutto un mondo più o meno genericamente di sinistra e progressista. Temo che ancora una volta gli ebrei di nuovo siano diventati il canarino nella miniera.


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