Cultura
Israele-Emirati Arabi Uniti: a chi giova l’accordo

Tutti ruoli delle parti in gioco in un’approfondita analisi di Claudio Vercelli

Non si sono fatti la guerra direttamente ma da sempre condividevano un’ostile separazione. Sputi a distanza, per intendersi. Israele ed Emirati Arabi Uniti, con la mediazione di Washington, stanno invece ora per firmare un accordo di pace che porterà, a breve, all’auspicata normalizzazione dei rapporti diplomatici e politici. Per chi conosce le dinamiche del Medio Oriente non è per nulla una sorpresa poiché già da alcuni anni era in corso un lento ma inesorabile processo di avvicinamento tra i paesi sunniti del Golfo e Gerusalemme.

Rimane il fatto che nel momento in cui verrà definitivamente siglato un trattato che si lascerà alle spalle quello che è stato (così anche quello che non è stato, benché avrebbe potuto essere, nel qual caso a beneficio di tutti), senza scomodare enfatiche espressioni come «svolta epocale», tuttavia si potrà dire che si è voltata una importante pagina in un libro che altrimenti continua ad essere scritto con un inchiostro incolore su pagine oramai incollate tra di loro.             I

Termini enfatici, dettati anche dal calcolo politico interno alle proprie amministrazioni, non difettano. «L’inizio di una nuova era», ha dichiarato il Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu che, in tutta probabilità, si prepara ad un orizzonte di inedite conflittualità politiche interne ad Israele e, forse anche, ad un nuovo passaggio elettorale, a partire dal tardo autunno. Un primo passo verso nuovi accordi con altri paesi arabi, ha evidenziato il Presidente Usa Donald Trump, definendo l’intesa come un «enorme successo». Suo, si intende. È buona cosa lasciare sedimentare gli entusiasmi per poi, a cose maturate, capire fino a quale punto ci si possa spingere nel dire qualcosa piuttosto che altro. Afferma il brogliaccio diplomatico dell’amministrazione Trump, e viene ripetuto dalle prime dichiarazioni congiunte, che «le delegazioni di Israele e degli Emirati Arabi Uniti si incontreranno nelle prossime settimane per firmare accordi bilaterali riguardanti gli investimenti, il turismo, i voli diretti, la sicurezza, le telecomunicazioni, la tecnologia, l’energia, l’assistenza sanitaria, la cultura, l’ambiente, la creazione di ambasciate e altre aree di reciproco vantaggio».

Verosimilmente, se nulla di catastrofico nel mentre interverrà, le cose dovrebbero andare in una direzione destinata ad essere irreversibile.  In cambio della formalizzazione dei rapporti diplomatici, economici e commerciali,  Israele si è impegnata a sospendere il piano di annessione di parte della Cisgiordania, annunciato – tra molti distinguo e critiche anche in casa propria – qualche settimana fa dal Premier israeliano Benjamin Netanyahu. Quest’ultima notizia, invero, è accreditata soprattutto da parte araba, poiché sul versante israeliano non si può dire la medesima cosa. Ciò che probabilmente ne deriverà è invece un’anestetizzazione del processo di omologazione e incorporazione di una parte della Cisgiordania allo Stato d’Israele. Difficile comunque pensare che una volpe come Netanyahu non ci avesse già pensato, al netto delle propagande incrociate. Il premier, nonché leader del Likud, non crede alla necessità storica di incrementare le dimensioni geografiche del suo Paese come precondizione per garantirne un futuro prospero.

Mentre sa che esso sempre più spesso sarà giocato sul versante della capacità di giocare la parte dell’ago della bilancia nei conflitti in corso nel Medio Oriente e nel Mediterraneo: l’escalation tra Grecia e Turchia sul controllo dei giganteschi depositi di gas naturale e metano; il destino dei territori frammentati e feudalizzati della Siria, dell’Iraq e della Libia (aree di influenza, all’interno di società nelle quali la statualità novecentesca è tramontata per sempre); la feroce contrapposizione tra «asse sunnita» del Golfo e componenti sciite. Netanyahu, per parte sua, ha una carta fondamentale da giocarsi: non ha mai creduto, contrariamente ai suoi oppositori interni, che si debba esistere in quanto “amati” bensì poiché temuti. Anche per questo, in tutta plausibilità, potrebbe incassare da sé l’assegno in bianco che gli deriverà da un tale accordo: dopo l’Egitto (1979) di Begin e la Giordania (1994) di Rabin, adesso potrebbero arrivare i «principi», gli «sceriffi», le dinastie – in una parola i maggiorenti – sunniti. Per una controparte apparentemente non così importante, non almeno per lui, ossia quegli insediamenti ebraici invisi non solo a buona parte della politica internazionale ma anche da significativi segmenti dell’elettorato nazionale israeliano. Netanyahu non li odia e neanche li ama. Semplicemente, si chiede quanto possano servirgli. Per preservare se stesso. Non è cinico: è un politico formatosi alla scuola degli Stati Uniti.

Peraltro, l’interesse comune di Israele e degli Emirati è il doppio fronte sia anti-sciita che avverso al radicalismo sunnita, laddove quest’ultimo si manifesti. Entrambi vogliono contenere l’espansionismo degli odiosi ayatollah iraniani e, allo stesso tempo, fermare il virus islamista dei Fratelli musulmani diffuso da Qatar e Turchia in tutto il Medio Oriente, dal Golfo fino a Gaza con Hamas ed anche in Egitto. Senza contare Hezbollah, protagonista ma anche subalterno al declino libanese. Insomma, la scena si è troppo movimentata per non entrare in gioco. Il principe ereditario degli Emirati Arabi Uniti Mohammed Bin Zayad ha non  a caso affermato che «nel corso di una conversazione telefonica con il presidente Trump e il premier Netanyahu è stato raggiunto un accordo per fermare ulteriori annessioni di territorio palestinese. Gli Emirati e Israele hanno convenuto di cooperare e di stabilire una road map per l’istituzione di relazioni bilaterali». Sembra una foglia di fico. In franchezza, risulta difficile pensare che per gli emiratini il destino dei palestinesi stia alla sommità delle loro preoccupazioni. Anche perché la progressiva normalizzazione delle relazioni con il mondo sunnita – ci vorranno comunque molti anni – potrebbe suonare come una campana a morto per Ramallah.

Semmai, per meglio intendere il quadro corrente, bisogna chiedersi quali siano i veri interessi della monarchie del Golfo. Giacché, proprio ciò ci dice che, oltre all’avversione rispetto al pericoloso interventismo di Teheran, entra in gioco la contesa con la Turchia e il Qatar per l’egemonia sul fronte sunnita. Forse il fuoco odierno delle tensioni si alimenta nella Libia divisa tra fazioni, dove la leva residua per gli americani (e gli Emirati) è il generale Haftar (di contro al premier Serraj, sostenuto anche dall’Italia). Ma è solo un frammento di scenario, beninteso. Non di meno, Netanyahu, che conosce benissimo l’area composita dei suoi sostenitori, non ha alcun interesse ad accreditare, secondare e vidimare le posizioni più radicali, quelle che vorrebbero cancellare, con un tratto di penna e un’azione di forza, la controparte palestinese. Non avrebbe nulla da guadagnarci, beninteso. Poiché «Re Bibi» domina la politica israeliana da almeno venticinque anni in quanto capace di dosare l’identitarismo e il sovranismo della destra più radicalizzata con le istanze di mediazione che qualsivoglia azione politica necessariamente implica. Sempre e comunque. A meno che non si cerchi la miccia di una nuova Sarajevo, come nel 1914. Cosa del tutto estranea a Washington al pari di Gerusalemme. Poiché ciò che Donald e Bibi condividono è la consapevolezza che la guerra si farà comunque, ma non come di prassi, usando l’esercito di terra e di aria, bensì l’economia digitale e tutto ciò che si trascina con essa. Si tratta di un differenziale profondo, nonché nettamente marcato, rispetto alla precedente presidenza interventista di George W. Bush (giudicata severamente da Trump, ricambiato in ciò dall’ostilità di buona parte degli ambienti dei cosiddetti «neocons», contrastati a loro volta dall’alt-right populista). Netanyahu, per parte sua, ha capito che la vecchia destra likudista e nazionalista non solo è sfiancata bensì anacronistica. Le reazioni secche di molti likudnikim, a partire dal presidente Reuven Rivlin, rivelano di un tale divorzio da tempo. Da almeno due anni in qua.

Non è questione, quindi, di tessere le lodi del primo ministro israeliano o di descriverlo come un manipolatore. Semmai, è necessario capire per quale ragione la sua leadership esprima una così lunga durata, ovvero su quali binari riesca comunque a rigenerarsi, spesso al pari di un’araba fenice. Il premier israeliano, che da sempre può gettare sul tavolo della discussione la carta di «mister sicurezza», oltre a rassicurare i suoi connazionali, si rivela capace di coalizzare contro il nemico di sempre (ossia, dal 1979, con la rovinosa caduta dello Scià, l’Iran teocratico, quello che parla della politica mondiale come di una sorta di continua Armageddon), un connubio tra risorse economiche del Golfo (meridionale nonché sunnita), interventismo (residuo) statunitense ed eccellenza tecno-securitaria nazionaledi Gerusalemme.

Inutile aggiungere che un Trump, altrimenti affaticato dalla pandemia e dalle difficoltà economiche in casa, si giochi questo risultato, peraltro silenziosamente perseguito da tempo, al netto dello stesso piano di Jared Kushner su un definitivo accordo tra Gerusalemme e Ramallah, per accreditarsi rispetto ad una parte dell’elettorato nelle elezioni presidenziali di novembre. Il codice che il presidente uscente userà, per convincere i suoi potenziali elettori, non sarà quello del nuovo interventismo americano (che aborre, al pari di quanti credono in lui) ma della sua “persuasività” così come dell’arrendevolezza altrui (qualcosa del tipo: «Politics as a business», la melodia che molti dei suoi elettori meglio intendono). Tradotto in parole povere: “noi, americani, garantiamo ai nostri interlocutori le migliori condizioni di accordo; sta poi a loro usarle a proprio beneficio”. Plausibile, quindi, che la firma di un qualche trattato formale tra Gerusalemme e Abu Dhabi possa verificarsi prima della data delle presidenziali americane. Trump ha stracciato la politica di appeasement di Obama (e in parte dell’Unione Europea) con l’Iran. Guarda con belluina determinazione ad Erdogan, Putin e alla Cina di XI Jinping. Anche per questo continua a piacere a certuni. Fuori di Washington, si intende.     

Quanto ai palestinesi, per l’ennesima volta emerge la scarsa rilevanza del loro futuro rispetto ai pur precari equilibri che sono venuti definendosi dal 2000 ad oggi. Il fatto che una parte della loro bulimica e inamovibile leadership abbia reagito denunciando un «tradimento dei nostri fratelli arabi», semmai conferma questo stato di cose. Lo stesso Egitto di al Sisi non nasconde la sua mitigata soddisfazione per la configurazione che si va definendo del quadro regionale. Il Cairo ha bisogno del sostegno di Gerusalemme. Non si tratta di un destino «cinico e baro» ma, più semplicemente, della differenza tra il fare politica e il pensare che basti dichiarare di volerla fare per ottenere un qualche risultato premiante. Claudio Vercelli

 

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


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