Quanto è valso per la lunghissima stagione della letteratura si pone adesso per le serie televisive: ecco come e perché Israele con le serie tv, è tra i paesi che stanno conquistando l’immaginario del sempre più numeroso popolo sedotto dalle fiction
In principio fu la letteratura ebraica. Si trattava di un esercizio circoscritto, per più ragioni. La prima di esse era la lingua: scrivere in ebraico, oppure in yiddish, non era propriamente il vettore di più facile diffusione tra quanti, invece, non conoscessero le due lingue. C’era un elevato grado di inesorabile autoreferenzialità. Si scriveva spesso anche per se stessi, per i propri pari, così come si fa per quei promemoria che debbono ricordarci cosa siamo (stati). D’altro canto, da sempre la scrittura di impianto letterario, nelle sue infinite potenzialità espressive, ha questa inestirpabile radice identitaria. Raccontare il mondo intorno a noi per raccontarci. Ma anche per non sparire nell’oblio.
Al netto del grandissimo corpus letterario prodotto dall’ebraismo aschkenazita, a cavallo tra l’Ottocento ed il Novecento, che avrebbe poi conosciuto una grande diffusione a livello mondiale (perlopiù a cose fatte, ovvero distrutte, quando il mondo che andava raccontando era già stato superato dall’evoluzione dei tempi così come dall’azione feroce della furia umana), per la scrittura in ebraico in vincolo era spesso legato alla traducibilità. Era difficile avere traduttori di capaci e sagaci, tali poiché in grado di comunicare non solo parole ma, soprattutto, significati condivisibili. In quanto non c’è arte né ingegno se l’una e l’altro non trasmettono qualcosa di immediatamente compartecipabile. Si trattava di mettere a fuoco una lingua al medesimo tempo antica (l’ebraico biblico o classico) e inedita (l’ebraico moderno). In sostanza, un work in progress. Per chi la forgiava, per chi la socializzava, ma anche per chi l’avrebbe dovuta tradurre.
Qualche nota a tergo, molto sommaria, può risultare utile, poiché dal passato ci conduce al presente così come dalla scrittura e stampa su carta ci consegna all’immaginario prodotto dalla visione cinematografica e televisiva. Le «nazioni ebraiche», nel XIX secolo, ossia le società della Diaspora parlavano lingue diverse, perlopiù quelle predominanti nei luoghi di origine, dove la grande maggioranza della popolazione non era composta da ebrei. Quindi, non era l’idioma ebraico a costituire il vettore della reciprocità, il collante di un comune sentire. L’unificazione in un’unica comunità nazionale, come avverrà poi con lo Stato d’Israele, presupponeva la generazione di una lingua comune e, al medesimo tempo, diversa da quelle presenti e trascorse. Come è risaputo, nel proto-sionismo e poi nello stesso movimento sionista, si discusse sulla centralità di un ebraico che andava completamente rielaborato, ossia secolarizzato, in qualche mondo emancipato dal suo prevalente ricorso liturgico. La seconda metà dell’Ottocento, fu attraversata dalla rigenerazione (che è ben altra cosa della “rinascita”) dell’ebraico. L’alfiere più noto di tale processo fu Eliezer Ben Yehuda che pose le basi (e i presupposti culturali) per trasformare l’ebraico in una lingua viva.
È infatti tale un idioma che per il suo uso abituale, ricorsivo, quotidiano, non serve solo a nominare e definire cose, persone e relazioni ma concorre esso stesso a trasformarne i significati e la comune percezione nel corso del tempo. La lingua è viva non solo perché ripete qualcosa di già convenuto ma in quanto dà forma a ciò che sta per verificarsi (ovvero, che si vuole creare). A Ben Yehuda era nettamente chiaro il nesso tra lingua, società e terra. Rigenerare l’ebraico nella Diaspora sarebbe stata un’impresa impossibile, posta la prevalenza degli altri idiomi e, con essi, dell’abitudine da parte degli ebrei a farvi ricorso come lingua madre. Nell’Yishuv, l’insediamento nella Palestina ottomana e poi mandataria, invece, le condizioni era propizie. Poiché così come un popolo può originare una lingua, è però quest’ultima a dare a quell’unione di soggetti diversi che definiamo per l’appunto come popolo, il senso di un’appartenenza condivisa.
La traiettoria intrapresa dalla costruzione dell’ebraico moderno – non a caso – segue, di pari passo, la fondazione e la formazione di una nuova società ebraica. La storia è sufficientemente nota, non richiedendo di essere ripercorsa, non almeno in queste brevi note. Una lingua è materia viva, coscienza in atto, costruzione dinamica. Ha una natura proteiforme: deve essere usata, con crescente facilità, da coloro che si riconoscono in essa, essendo il perimetro di una cittadinanza condivisa, ma deve anche comunicare dei significati a chi, pur non conoscendola, in traduzione riesca a ricavarne un senso che abbia valore per se medesimo. Soprattutto, la lingua è il tessuto di una cultura, fornendo ad essa una serie mutevoli di registri attraverso i quali trasmettere sensazioni, idee, speranze, timori e quant’altro. All’interno di realtà pluralistiche (e quindi anche contraddittorie) e comunque costantemente mutevoli. Si tratta di ragioni e passioni che, quanto meno in tendenza, aderiscono ad un linguaggio universale, quello umano, traducendosi poi nei singoli idiomi.
Sapere parlare (e riuscire a farsi ascoltare) vuole dire essere in grado di raccogliere soprattutto questo bisogno collettivo, che si accompagna alle quotidiane necessità materiali in maniera non meno pressante. Traducendolo e fissandolo quindi in immagini che modellino l’immaginazione comune. La letteratura israeliana, e la sua straordinaria fioritura in traduzione, soprattutto in Italia, dagli anni Ottanta in poi, rappresenta in maniera compiuta un tale processo. Poiché, pensata e scritta in ebraico, ha tuttavia saputo dare forza e sostanza ad aspirazioni universali. Israele da sempre produce immagini, rappresentazioni, storie e parole in misura eccedente alla sua capacità di consumarle da sola. Una comunità nazionale caratterizzata da un singolare particolarismo, tuttavia in perenne mutamento, ha dato corpo, in alcuni decenni, ad una cultura a sua volta vivace poiché ibrida, contaminata da influssi, ebraici e non, che costituiscono da sé uno snodo strategico nei processi di globalizzazione. In altre parole, la forza della parola (lettura, interpretazione, trasmissione, condivisione e mutamento) si incontra con quella della costruzione di immaginari che vanno ben oltre i confini nazionali. Assumendo, in alcuni casi, la natura di paradigmi universalistici. La vera forza dell’ebraismo non riposa in una non meglio precisata «civiltà giudaico-cristiana» (il più delle volte evocata come una sorta di slogan, quasi che si trattasse di una sorta di monolito astorico) bensì nella capacità di costruire dei calchi di significato sui quali le diverse culture, a volte anche molto distanti, possono misurare analogie e differenze tra sé e gli “altri”.
Quanto è valso per la lunghissima stagione della letteratura, che è ancora lontana dall’essersi conclusa ma senz’altro è pervenuta ad una sua prima sintesi (con l’apogeo della generazione composta, tra gli altri, da Abraham Yehoshua, Amos Oz, Yoram Kaniuk, Yaakov Shabtai, Yehoshua Kenaz per arrivare a David Grossman ed andare poi ancora oltre), si pone adesso per le serie televisive. Israele, nel rapporto tra progettazione, investimenti, costi e ritorni di audience, è tra i paesi che stanno conquistando attivamente l’immaginario di una parte del pubblico televisivo e in rete. Non solo di quello occidentale, beninteso. C’è un aspetto dinamico, in ciò, legato all’estrema confidenza che una parte della società israeliana ha con la virtualità, l’“infosfera” e, più in generale con il Web. Poiché, come è abbondantemente risaputo, l’economia dell’informazione e della conoscenza trovano in Gerusalemme un caposaldo al medesimo tempo progettuale e d’implementazione. Anche da ciò, quindi, il successo di serie recenti, perlopiù su piattaforma Netflix, come «Fauda», «Hatufim-Homeland» (due produzioni distinte, di cui la seconda è a ricalco della prima), «Orange is the New Black» (produzione statunitense ma su canovacci ebraici), «Quando gli eroi volano», «Shtisel», «Unorthodox» (anch’essa americana ma completamente immersa dentro una ricostruzione di specifiche dinamiche ebraiche, quelle chassidiche, che riecheggiano, conflittualmente, identità, situazioni, relazioni e interessi in secca contrapposizione), «The Spy» (con un grandioso Sacha Baron Cohen; il copione e la sceneggiatura hanno tuttavia ricevuto non poche critiche rispetto all’attendibilità storica di molti passaggi e contenuti), «Hashoter Hatov-Un bravo poliziotto». Al netto delle singole pellicole cinematografiche, che sono capitolo a sé, posto che fino agli anni Novanta il cinema israeliano fu ben poca cosa rispetto ad altre cinematografie nazionali.
Trovare dei minimi comuni denominatori alle diverse serie è cosa non facile, al netto del fatto che ognuna di esse riproduce stili e modi che sono diventati parte integrante dell’universo delle comunicazioni, e dei suoi stili espressivi, dentro e fuori Israele. Senz’altro un fattore determinante è la raffigurazione del rapporto tra individualità e collettività di appartenenza. La tensione tra l’identità in soggettiva, che spesso ha un carattere dilemmatico e irrisolto, e il continuo problema della riformulazione dei legami di gruppo, diventa quindi una costante dei diversi tracciati narrativi delle serie israeliane. Mentre nel caso di molte produzioni americane il principio cardine è la ricostruzione di un’età, di un’epoca, di un insieme di consuetudini e atteggiamenti (con risultati, anche in queste circostanze, che spesso raggiungono la perfezione stilistica), proiettando lo spettatore in un ambito temporale del tutto asincronico – e quindi sfasato, distonico, a tratti allucinato – rispetto al suo presente, nello specifico israeliano, tra le molte cose, il tema dell’identità torna pesantemente a parlare di sé, imponendosi nei copioni e nelle sceneggiature come se fosse la pasta stessa sulla base della quale costruire i canovacci narrativi al pari dei personaggi. La cifra predominante è spesso l’interrogazione e l’incertezza: non quella amletica, di taglio strettamente intellettuale, bensì “ontologica”, ossia tale da coinvolgere il senso di ciò che si va facendo, la sua legittimità, le relazioni di potere e i conflitti che in ogni scelta si celano.
Non di meno pesa il tema, fondamentale nell’identità nazionale israeliana, della «sicurezza». Non è solo una questione squisitamente militare ma un tracciato che si ricollega alla tradizione ebraica (ricongiungendosi alla questione dell’identità in quanto tale, che diventa, in questo caso, domanda radicale su come si possa divenire ciò che si vorrebbe essere attraverso l’assunzione di certe condotte di comportamento rispetto ad altre). Tutte le serie israeliane rimandano, in qualche modo, non solo alla nozione di tempo cronologico ma anche a quella di spazio: di vita, di insediamento, di legami e così via. Lo spazio fisico e geografico ma anche i luoghi della propria soggettività. Temi, questi come altri, ancora una volta universali, di cui ora l’immaginario televisivo e cinematografico si sono in qualche modo incaricati di concorrere a dare forma, ossia un lessico e una grammatica di senso comune.
Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.