Una nuova edizione del prezioso racconto di quel giorno terribile, con i saggi di Natalia Ginzburg, Alberto Moravia e Guido Piovene
La casa editrice La nave di Teseo ha ripubblicato 16 ottobre 1943, un testo di Giacomo Debenedetti che uscì per la prima volta nel dicembre 1944 sulla rivista “Mercurio” di Roma. Un testo bruciante, come lo hanno spesso definito i critici che lo hanno accostato a La colonna Infame del Manzoni e alla Peste di Londra del Defoe. Un classico da leggere e rileggere in questa giornata del 16 ottobre 2021. Perché è storia. Perché, ancora meglio, è la storia narrata da chi l’ha vissuta direttamente, da una collettività popolare che ci prende e ci porta per mano in quel ghetto che Natalia Ginzburg definisce come luogo di memoria: «Tutti, quando camminiamo oggi in quel quartiere, ripensiamo a quel 16 ottobre, quando l’odio e la sventura scesero su quelle strade, su quella gente sprovveduta, affaccendata, ignara».
Pioveva in quei giorni e le strade si erano rese viscide e grigie come i palazzi del ghetto. E il 15 ottobre, poco prima che entrasse lo shabbat, davanti alla sinagoga, come ogni venerdì sera aperta perle funzioni, arriva una donna, scarmigliata, a dare la notizia, orribile, di un’imminente retata. Ma nessuno le crede. “Una donna vestita di nero, scarmigliata, sciatta, fradicia di pioggia. Non può esprimersi, l’agitazione le ingorga le parole, le fa una bava sulla bocca”, scrive Debenedetti. La donna dice di aver parlato con la moglie di un carabiniere e di aver saputo che è stato visto, in mano a un tedesco, un elenco di nomi di capifamiglia ebrei, destinati alla deportazione, con le loro famiglie. Ma la ritengono un’esaltata, una mentecatta. “Risalirono alle loro case, si rimisero a sedere intorno alla tavola, a cenare, commentando quella storia senza sugo.”
C’era stato un precedente. Le SS, nella figura del maggiore Kappler, avevano imposto agli ebrei di raccogliere e consegnare loro 50 chili d’oro entro 18 ore dalla richiesta. Era il 26 settembre del 43. Gli ebrei romani riescono nella missione e, grazie anche al contributo di concittadini non ebrei, consegnano dieci casse da cinque chili di oro ognuna. E la questione, per loro, spiega Debenedetti, è chiusa. Sembrava una taglia da pagare in cambio della propria esistenza: e sia! Commenta Natalia Ginzburg, citando le parole di Debenedetti:
«Consegnati infine al maggiore Kappler i cinquanta chili d’oro, gli ebrei di Roma si sentirono tranquilli. Nell’ex Ghetto la quiete ritorna, e ciascuno riprende la sua esistenza d’ogni giorno, il lavoro d’ogni giorno e i commerci, e le pratiche religiose. Hanno avuto la parola di Kappler, e se ne fidano: in cambio dell’oro la sicurezza. “Contrariamente all’opinione diffusa,” scrive Giacomo Debenedetti, “gli ebrei non sono diffidenti. Per meglio dire: sono diffidenti, allo stesso modo che sono astuti, nelle cose piccole, ma creduli e disastrosamente ingenui in quelle grandi.”». La Ginzburg poi procede: «Può sembrare strano, alla luce dei fatti, tanto candore. Eppure chi ha vissuto quei giorni, e chi ha vissuto allora la paura della persecuzione, ricorda bene come al terrore dei nazisti si mescolasse un roseo ottimismo, e l’idea che forse, in definitiva, la realtà fosse più mite, più ragionevole dell’immaginazione. (…) Così, seduti a cena, quegli ebrei dell’ex Ghetto respinsero ogni progetto di fuga, pronunciarono le loro preghiere, celebrarono l’arrivo del sabato».
Il resto è storia: una sparatoria lunghissima nel cuore della notte precedette la retata e quindi la successiva deportazione di oltre mille ebrei romani. Tentativi di fuga, repressioni e soprattutto l’ansia di chi, a quell’evento, non aveva creduto e ora sente i passi sulle scale, le urla nella strada e le porte che vengono buttate giù con la violenza di quegli uomini in divisa, pronti ad eseguire ordini. Già, la divisa. Così la descrive Debenedetti:
Quella divisa attillatadi un’eleganza schizzinosa, astratta e implacabile, che inguaina la persona, il fisico ma anche e soprattutto il morale, con un ermetismo da chiusura lampo. È la parola verboten tradotta in uniforme: proibito l’accesso all’uomo e all’individuale passato che vive in lui, che è la sua storia e la sua più vera “specialità” di creatura di questo mondo; proibito vedere altro che questo suo “presente” rigoroso, automatico, intransigentemente reciso.
Il 16 ottobbre 1943 fu ripubblicato da diverse riviste e poi in forma di libro nel 1961 con l’altro scritto, Otto ebrei, ripresi nell’attuale ripubblicazione, cui si aggiungono i saggi di Natalia Ginzburg, Alberto Moravia e Guido Piovene. Un libro importante, una presenza forte nelle librerie per ripensare non solo a quegli atroci fatti, ma per contrastare il razzismo, la discriminazione e difendere la diversità. Come scrive Ginzburg,
Non è forse questa diversità, assai simile a quella di ogni altro diverso, ciò che gli ebrei, o meglio in generale gli uomini (poiché in ogni uomo può nascondersi un ebreo o un diverso) devono soprattutto coltivare e difendere, non certo con la violenza, né con le armi, ma con ogni facoltà del proprio essere e del proprio pensiero?
È nata a Milano nel 1973. Giornalista, autrice, spesso ghostwriter, lavora per il web e diverse testate cartacee.