Esistono le persone ma non i legami tra queste: il sionismo si incarica di costruire questi ultimi, di stabilire un’unione tra individui con storie profondamente differenti
Dopo i primi, incerti passi, per passaggi progressivi, quindi, si stava pervenendo ad una formulazione nuova per la soluzione di antichi problemi. La parola può essere allora data a Max Nordau, scrittore, filosofo ma anche organizzatore politico, che, nel 1902 in «Vecchio e nuovo sionismo» definiva quanto andava facendosi strada come: «Il nuovo sionismo che ha preso nome di sionismo politico, differisce dall’antico sionismo religioso e messianico in quanto rifiuta ogni misticismo, in quanto non si identifica più col messianismo e non attende il ritorno in Palestina dal miracolo ma vuole prepararlo con i propri sforzi. Il nuovo sionismo è soltanto in parte prodotto della spinta interiore del giudaismo stesso, dell’entusiasmo che i moderni ebrei colti hanno per la sua storia e per il suo martirologo […]; per un’altra parte è l’effetto di due spinte che son venute dal di fuori: l’idea di nazionalità che domina da mezzo secolo il pensiero e il sentimento dell’Europa che ha determinato la politica mondiale; l’antisemitismo di cui soffrono più o meno gli ebrei di tutti i paesi».
Al netto di tutte le suggestioni, il sionismo politico è da intendersi come una visione compiuta, ossia integrale (poiché ritiene di avere già in sé tutto quel che occorre per raggiungere i suoi obiettivi) e definitiva (in quanto intende dare risposte perentorie e decisive), del destino degli ebrei nell’epoca contemporanea. Quindi, è al contempo una concezione culturale, un’ideologia politica non meno che un movimento di natura sia politica che sociale. Concezione culturale della contemporaneità, della quale coglie le opportunità (l’emancipazione individuale) ma anche i limiti (la persistenza dell’antisemitismo). Non di meno, cosa che spesso si dimentica, rifiuto dell’assimilazionismo. Laddove questo avrebbe invece implicato il divenire cittadini della proprie nazioni e del proprio tempo rifiutando, di fatto, la propria radice ebraica. Alla contraddittorietà di tale condizione, sospesa tra innovazione e barbarie, il sionismo risponde offrendo una via nazionale ai problemi dell’ «essere ebrei» nel mondo moderno. Da questo punto di vista il nazionalismo è solo uno degli aspetti che lo connotano, reputando semmai suo obiettivo principe la costruzione di una società politica ma non di una comunità etnica. Non si pone il problema di “chi sia ebreo” bensì del cosa voglia dire “essere ebrei” nell’età della contemporaneità. La sua natura ideologica, pur essendo anch’essa variegata, è data dal fatto che ha a traguardo la costruzione di una società dove gli ebrei possano vivere esprimendo integralmente la loro soggettività culturale, morale e spirituale. Per ottenere ciò ritiene indispensabile un processo di riforma del modo in cui gli ebrei medesimi si vivano e di come percepiscano la propria presenza al mondo. La religione è intesa come strumento identitario per la costruzione di un «uomo nuovo», la cui essenza deriva essenzialmente dal lavoro come dal libero dispiegamento di relazioni sociali non più fondate sulla subalternità al giogo antisemita.
È movimento politico poiché, nell’estrema varietà delle posizioni che lo connotano, ha come scopi condivisi sia l’influenzare i processi decisionali altrui (per assecondare i propri) che il fondare un nuovo potere, basato su quelli che sono gli attributi classici dello stato nazionale (sovranità, popolo, territorio). Infine, è un movimento sociale perché basa il raggiungimento degli obiettivi sull’adesione, l’identificazione e la partecipazione collettiva ai suoi progetti. Come tale non può non mobilitare gli individui, chiedendo loro di farsi parte consapevole e attiva, superando gli atteggiamenti individualistici. Il fondamento di una nazione è dato dalla comunità sociale che la compone: da questo punto di vista, per il sionismo politico se esiste un popolo ebraico, sparso per il mondo, il cui elemento comune è il richiamo ad una tradizione di natura religiosa, non c’è ancora una società ebraica, da costruire di pari passo con la fondazione di uno Stato. Insomma, esistono le persone ma non i legami tra queste. Il sionismo si incarica di costruire questi ultimi, di stabilire un’unione tra individui con storie profondamente differenti. Quindi, «la costruzione di una nazione ebraica, che forma un corpo politico che vuole la creazione di uno Stato sovrano in Terra d’Israele («Eretz Israel») costituisce l’obiettivo fondamentale di questa dottrina e di questo movimento» (così Ilan Greilsammer). Lo Stato d’Israele ne sarà, infine, il risultato storico: «Il sionismo politico, così come è nato e per come è andato sviluppandosi, non ha mai sostenuto che gli ebrei costituiscano una entità etnicamente omogenea. Semmai parte dalla consapevolezza delle differenze per dare corso ad un processo di edificazione di una comunità nazionale, fondata sulla condivisione di valori comuni e su di una lealtà univoca, verso un unico centro di potere, ossia lo Stato» (Yohanan Manor).
Il sionismo politico, che si dissocia integralmente da quello religioso o filantropico poiché rigetta l’idea di passività che richiamano, è una piena espressione della modernità politica. Non solo perché si situa cronologicamente in questa età bensì perché ne assume i tratti, i caratteri ad essa propri. Come tale si confronta con i problemi della modernità politica, sociale e culturale: la tendenza alla omogeneizzazione delle tradizioni ma anche la loro reinvenzione; il problema dell’identità personale e di quella collettiva; la questione del rapporto tra libertà e giustizia; il legame conflittuale tra politica e religione. Il suo assunto di fondo è in piena consonanza con lo spirito dei contemporanei. La visione della storia alla quale si rifà è attivistica ed interventista. Se in un tempo, ancora recente, le cose accadevano, ora devono essere fatte accadere. Nulla si genera da sé, tutto può essere modificato. «In altre parole la storia si fa»(David Bidussa). Da questo punto di vista, il sionismo è (anche) una rottura nella tradizione ebraica, piuttosto che il suo prosieguo, poiché postula che si possa andare oltre la religione medesima, pur partendo da essa in quanto dato culturale condiviso da persone tra di loro altrimenti molto diverse. A voler datare il momento di una sua compiuta «istituzionalizzazione» ci si deve rifare al Primo Congresso sionista mondiale, tenutosi a Basilea tra il 29 e il 31 agosto del 1897. È questo un punto fermo, e di non ritorno, nel percorso verso uno Stato e una società ebraiche. Precedentemente, come si è già detto, vi erano state più e ripetute esperienze volte alla realizzazione delle condizioni di un ritorno alla terra dei Padri ma esse non si erano tradotte in un movimento collettivo capace di incidere concretamente sullo stato delle cose. Affinché si potesse transitare dal regno delle ipotesi e dei desideri al campo delle effettive possibilità dovevano maturare alcune condizioni che, fino alla prima metà dell’Ottocento, risultavano inesistenti.
All’interno del variegato e frammentato mondo ebraico si doveva pervenire alla tematizzazione di una ipotesi di riunificazione fondata su premesse di ordine politico, seguendo le esperienze che un po’ per tutta l’Europa – e non solo – stavano animando le costituende società nazionali. La crisi della “forma-impero” stava lì a testimoniare dell’inderogabilità, per le collettività che si riconoscevano come soggetti unitari, di una diversa organizzazione dei poteri. In ciò si rifletteva anche l’affermarsi, sia pure solo nella coscienza di piccoli gruppi sostanzialmente elitari, del principio di autodeterrminazione delle nazioni e dei popoli. Il modello dello Stato nazionale, tendenzialmente monoetnico, doveva quindi sostituirsi alle idee, fino ad allora prevalenti, di un ritorno a Sion legato a una propensione prevalentemente, se non unicamente, spirituale o religiosa. In altre parole, l’ebraismo doveva costituirsi come vero e proprio «corpo politico», soggetto collettivo del mutamento in corso, per più aspetti affrancato da quelle accezioni della tradizione che dalle consuetudini e in una concezione quietistica della vita quotidiana traevano fondamento e legittimazione. Per raggiungere tale obiettivo occorreva l’incontro della tradizione politica romantica con la maturazione dell’autocoscienza ebraica. Nulla, da questo punto di vista, era scontato, peraltro. Si poneva, in altri termini, il problema del passaggio dall’ebraismo come condizione data, ascrittiva, immutabile (imposta dalle circostanze o accetta che fosse) ad una concezioneimpegnata e consapevole, intesa come elemento per intervenire all’interno del percorso storico mutando, a proprio favore, i suoi indirizzi di fondo. Il sionismo politico era essenzialmente questo, coniugando un’idea sobriamente laica dell’ebraicità ad una visione interventista del processo storico. Si tratta di creare una nazione, non già di affermarla sul proscenio internazionale. Così David Bidussa: «Il problema non è avere una “memoria” e dunque ritenere che solo riaffermandola si determina quella condizione che dà accesso e legittimità alla richiesta della propria persistenza nella storia. Per i sionisti non è vero che si può ipotecare il futuro a condizione che si abbia un passato. È, invece, vero l’opposto: si può avere un futuro solo se ci si libera dal e del passato». Poiché il sionismo politico non ha nessun “mitico passato” da rivendicare, di contro alla miseria del presente, ma solo una qualche idea di futuro da proporre, non esiste una generica società ebraica da recuperare bensì un insieme frammentato di piccole comunità, ripiegate su di sé, oltre le quali andare, per cercare in qualche modo di giungere all’obiettivo premiante di uno stato, grazie al quale si potrà sperare di costruire qualcosa per i tempi a venire. Da questo punto di vista, il sionismo è depositario del nazionalismo della sua epoca solo per metà, essendo perlopiù un disegno politico statocentrico. Ovvero, poiché si rifà all’idea astratta di nazione, allora corrente; ma di questa non può condividere il corredo di mitologie che i nazionalismi europei hanno sempre coltivato, rifacendosi ad una qualche «età dell’oro» che sa non di non avere mai vissuto. La nazione ebraica è tutta da costruire, in buona sostanza, in quanto nell’esperienza dell’Esilio non trova alcunché di edificante. La forza del sionismo politico sta, quindi, nell’essere nato al crocevia di molte idee e di altrettanti pensieri. E in posti tra di loro differenti, che germina il pensiero. Basti fare mente locale ai luoghi del movimento: Odessa, Vienna, Berlino, Monaco, Parigi, Basilea sono le città dove si genera il pensiero e dove maturano le scelte.
Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.
Articolo lucidissimo e molto chiaro