Che cosa succederà alla fine della stagione dei testimoni? Un ragionamento su come potrebbe diventare la narrazione dei fatti del passato
Siamo tornati a chiederci quale sarà il futuro della storia dopo la scomparsa dei testimoni. L’opinione accreditata è che quei testi, in gran parte conservati in audio, scritti o audiovideo, siano destinati a costituire un archivio. Sarà poi compito degli storici tornare in campo e dare sistemazione a un materiale molto importante, ma che è destinato a finire perché la scomparsa dei testimoni elimina la possibilità stessa di continuare una pratica. Insomma, alla fine del giro, la “palla” tornerebbe agli storici e la testimonianza rimarrebbe una fonte.
Non credo che andrà così. Né perché le testimonianze diventeranno imprescindibili per ricostruire racconto storico, né perché ci sarà una ripresa del testo narrato scritto, ovvero del testo storico tradizionale. Quando circa 30 anni fa siamo entrati in quella che Annette Wieviorka ha chiamato l’«era del testimone» è avvenuto un passaggio per molti aspetti irreversibile che obbliga nel presente a fare i conti con le conseguenze di quel passaggio. La presenza dei testimoni era la piattaforma in cui avveniva quel passaggio, forse era l’aspetto più eclatante. Ma da tempo il racconto della storia era entrato in crisi. O meglio: quello che non aveva più lo spazio di prima era il racconto top-down, il racconto della storia ex-cathedra.
Dunque, l’irruzione della testimonianza, intesa prima di tutto come una voce che rompeva il quadro consolidato del racconto della storia, arrivava in un contesto di crisi della storiografia e della scrittura storica, non la determinava. Semplicemente la rendeva più evidente. La richiesta del testimone di parlare, di raccontare come si erano svolti i fatti per davvero, rispondeva a una doppia esigenza: rifiutare il racconto ordinato e rimettere in discussione la versione ufficiale dei fatti. L’irruzione del testimone significava: ora io racconto la storia dal mio punto di vista, perché nella narrazione della storia che tutti sanno il mio punto di vista e la mia voce, non ci sono. Si racconta una storia che mi riguarda, ma io non ci sono.
Chiedersi oggi quale sarà il destino della testimonianza dopo la scomparsa dei testimoni, vuol dire semplicemente provare a misurarsi su come racconteremo la storia. Oggi il racconto della storia è soprattutto audiovisuale. Un metodo che si propone, al pari della lezione fontale o della conferenza dello storico, come un testo top down dove non si dà interlocuzione. Non basta aumentare le voci narranti, introdurre nel racconto storico molte e diverse versioni perché automaticamente si produca competenza o la scena acquisti una maggiore e diversa profondità.
Perché quella scena acquisti una maggiore forza, deve maturare un secondo percorso, quello della consapevolezza del racconto della storia come approssimazione per difetto rispetto alla dimensione di come sono andati i fatti. La testimonianza non era più vera del racconto che andava ad integrare, ma era una risorsa aggiuntiva per dare un nuovo ordine al racconto, per renderlo più mosso, per prendere in carico più variabili.
Che cosa succederà dunque all’indomani della scomparsa dell’ultimo testimone o alla fine della stagione dei testimoni?
Intravedo due strade. La prima auspica un ritorno alla storia tradizionale, pur incrementata; la seconda fa tesoro di questa esperienza e ripensa complessivamente l’offerta di racconto della storia facendo contare anche altri percorsi in cui si sommano e si integrano (e in casi anche confliggono) diverse modalità di racconto della storia. Con le piattaforme digitali che consentono di costruire percorsi di lettura, di scavo, di approfondimento.
La prima non mi sembra abbia gambe per camminare. La seconda ha qualche possibilità di successo (diversamente il racconto della storia perderà forza, importanza e centralità per trasformarsi solo in “fiaba banale”). Provo a dare una fisionomia a questa seconda strada: non scomparirà il testo di testimonianza, ma il rischio è che perda molta forza, proprio perché quella sua forza suppliva a un carattere unidirezionale del racconto: da una parte una voce emittente, dall’altra una condizione di auditore. Il che significa che un aspetto essenziale di quella esperienza era fondata prima ancora che sul contenuto su un patto narrativo, dimensione che la didattica a distanza, per certi aspetti banalizza, per altri depotenzia.
Come se ne esce? Provo a fare un parallelo. da una parte utilizzerò un testo, dall’altro porrò un problema di metodo. Il testo prima di tutto. Quando è uscito Noi partigiani di Gad Lerner e Laura Gnocchi è stato detto che si trattava dell’ultima chiamata per quelli che fino a quel momento non avevano parlato. Centinaia di donne e uomini che hanno raccontato, in principio davanti a una telecamera, la «loro» Resistenza, quella stagione che li vide, talvolta poco più che adolescenti, assumere decisioni fondamentali.
Di quelle storie se ne potrebbero scegliere varie. Come quella di Ermenegildo Bugni, 93 anni, che ricorda la «Repubblica di Montefiorino», proclamata dai partigiani, tra il giugno e l’agosto del 1944, sulle montagne tra Modena e Reggio Emilia. O quella di Mirella Alloisio, 95 anni, che spiega come Genova si sia liberata «da sola», imponendo ai tedeschi sconfitti di consegnare le armi ai partigiani il giorno prima che in città entrassero gli anglo-americani; e che fu davanti a un altro figlio di operai dei Cantieri navali di Sestri Ponente, come lei, che il generale tedesco Meinhold dovette firmare l’atto di resa.
Dunque, apparentemente questa «ultima occasione» sembrerebbe consentire solo di sommare altre storie a quelle che già conoscevamo, oppure di tirare fuori alcuni particolari per integrare e “completare” quello che comunque è nelle sue grandi linee è già noto. Non è così…
Basti pensare al concetto di scelta. Cosa passava per la loro testa? Come si sono formati i codici di comportamento, le idee, la visione del mondo, il loro “antifascismo esistenziale”? Molti provenivano da famiglie in cui l’opposizione al regime risaliva agli anni Venti. Altri, all’improvviso, l’8 settembre si trovarono a vivere le “svestizioni” frettolose e poi la disobbedienza all’arruolamento nelle file repubblichine e alla deportazione nei campi di lavoro in Germania.
C’è chi andò in montagna da sedicenne, fuggendo da casa e rinunciando a frequentare l’ultimo anno di scuola, chi scelse l’attività clandestina all’insaputa dei genitori. Ci fu anche chi scelse varie volte, incerto. Qualcuno disse a se stesso: “Vado in montagna”; qualcun altro “Sai che faccio? Vado a Salò!”. Ma ci furono anche quelli che pensarono: “Sapete cosa? Resto a casa, alla finestra. Ci rivediamo il 25 aprile”.
Queste storie non solo aggiungono, e riscrivono, ma anche fanno acquisire nuovi documenti come la lettera di Giorgio Paglia, che Cicci Vandone legge, una delle tante che non sono entrare nelle Lettere dei condannati a morte della Resistenza, ma che ora grazie a questa testimonianza siamo venuti a conoscere. Nuovi documenti che ci obbligano a rileggere quelli già noti, che individuano e indicano altre fonti, aggiungono particolari, nomi, date, atti. E questo ci permette di dire che non finisce la scrittura della storia. Come ci raccontano Storia della Resistenza di Marcello Flores e Mimmo Franzinelli, uscito pochi mesi fa, o Una guerra civile di Claudio Pavone.
C’poi la questione di metodo. Indubbiamente conta la quantità di fonti che si prendono in carico. E conta il fatto che anche la disponibilità a pensare da un utilizzo del prodotto finale in altro modo si può produrre nuova consapevolezza di un discorso più complicato del fatto storico Le cose non parlano da sole. Accanto alle cose stanno gli uomini e gli attori sociali che si candidano e si propongono come “narratori” di storia contemporanea. E stanno coloro che a vario titolo, a scena conclusa, ripercorrono quelle scene, gli spazi, le parole, vanno alla ricerca delle persone, inseguono tracce per trovare le fonti che consentano di proporre versioni diverse della storia. E talvolta la reinventano. Per questo non è sufficiente raccontare come sono andati i fatti. Bisogna scavare sui comportamenti, tornare periodicamente a verificare atti, memorie, racconto.
Un tema che apre una nuova stagione dove la questione della memoria, diventa come si produce ricostruzione storica, sapendo che al centro della riflessione storiografica più che il conflitto tra memoria e storia, sta la questione relativa al «governo della loro coabitazione» e a quali percorsi inauguri quella condizione, quali siano le riposte da proporre in modo da mettere in relazione gli uomini e la storia. Relazione che non riguarda solo la rinascita di una nuova stagione revisionistica, da non confondere o identificare con l’atto di revisione in storiografia ma che implica anche riconsiderare alcuni fondamenti della storiografia e dello scrivere di storia per non cadere nel culto feticistico e fideistico del documento, scritto, orale, visuale. Soprattutto per non cadere nel fascino magnetico delle «false notizie». L’irruzione della testimonianza alla fine degli anni 80, è bene ricordarlo, è avvenuta sull’onda di una crescita del negazionismo. Nel frattempo, le forme della narrazione storica hanno subito trasformazioni, e il negazionismo è cambiato anch’esso. Non lo sconfiggeremo solo accumulando storie, ma intraprendendo un nuovo modo di mettere insieme ciò che già è stato raccolto e di trovarne altro, ma anche andando con curiosità a sperimentare, costruire e proporre altri percorsi di narrazione e altri modi di costruire testi multipli di storia. A cominciare dai manuali scolastici. I viaggi di storia andranno ripensati e costruiti per proporre nuove modalità adatte a fruire i racconti del passato.
Classe 1955, nato e cresciuto a Livorno, studia a Pisa dove inizia la facoltà di Filosofia, ma si innamora di quella di Storia. Ha insegnato al liceo e all’università, da anni lavora alla Fondazione Feltrinelli in quanto Direttore dei contenuti editoriali. Si definisce uno storico sociale delle idee (ci ha assicurato essere una vera specialità, benché nessuno finora abbia capito cosa sia). Scrittore e giornalista, dicono che il suo branzino al sale sia leggendario.