Hebraica
Shavuot e il simbolo del pane

Il lievito, l’ingrediente segreto per diventare popolo

Le tracce più antiche di panificazione, in Medio Oriente, risalgono almeno a 30.000 anni fa, molto prima di quelle dei più remoti insediamenti urbani. Il pane è da allora l’alimento centrale di molte diete e in numerose culture ha assunto il valore di simbolo, tanto più sentito e forte quanto più frequentemente viene consumato. Così il pane è diventato sineddoche per indicare ogni alimento.

Nella Torà spezzare il pane è gesto ricorrente che indica ospitalità e condivisione. La preghiera che si recita all’inizio di ogni pasto è un ringraziamento a Dio hamotzì lechem min haaretz, “che ha tratto il pane dalla terra”, a indicare non il merito dell’uomo bensì la sua dipendenza. Si benedice il pane perché è questo l’alimento che non manca mai sulla tavola e costituisce la base, ma in passato spesso la quasi totalità, del pasto. E’ uso diffuso presso famiglie con grado anche molto diverso di osservanza accogliere lo Shabbat con due challot, i tradizionali pani del sabato che simboleggiano le due porzioni di manna – il pane di origine celeste – ricevute dagli ebrei ogni venerdì nel deserto.

La tradizione cristiana, che origina in seno a quella ebraica prima di svilupparsi in autonomia, accoglie dall’ebraismo la centralità simbolica del pane. Gesù, che nasce secondo i Vangeli a Betlemme (Beth lehem, in ebraico “casa del pane”) come il suo antenato Davide, è come il pane simbolo di vita. Nell’immaginario cristiano che si rifa ai Vangeli il grano e il pane sono molto presenti sia nelle azioni (la moltiplicazione dei pani, il pane spezzato durante l’ultima cena) sia nelle parole (la parabola del chicco di grano che muore e dà frutto, quella del seminatore). Il sacramento dell’eucaristia, che viene istituito molto più tardi, per mezzo della transustanziazione del pane (e del vino) annunciata dalle parole del sacerdote permette la comunione dei fedeli.

Ma il pane ha un valore speciale in molte tradizioni, tanto più nel Mediterraneo antico. Nei poemi omerici, vera enciclopedia della cultura greca arcaica, l’espressione “mangiatori di pane” è utilizzata per descrivere gli uomini. Quando nell’Odissea il re di Itaca racconta l’avventura nella spelonca di Polifemo, per indicare che i ciclopi non appartengono all’umanità dice che non sono uomini “mangiatori di pane”. Più tardi, scampato alla violenza davvero inumana di Polifemo, Odisseo nell’Ade incontra Tiresia, da cui scopre che dopo il ritorno in patria e la vendetta ricomincerà a viaggiare per giungere infine in una terra i cui abitanti non conoscono il mare, al punto da confondere il suo remo con un ventilabro, un lungo setaccio con cui si separa il grano dalla pula. Perfino ai confini del mondo dove nessuno sa che cosa sia il mare, cosa davvero incredibile per un greco e tanto più per Odisseo, gli uomini conoscono il grano e quindi il pane. Altrimenti non sarebbero uomini ma creature mostruose, come i citati ciclopi o i mangiatori di fiori di loto.

Demetra, dea greca delle messi e dei raccolti, cioè innanzitutto del grano, viene rappresentata di solito con un fascio di spighe e papaveri in mano. Secondo una leggenda tante volte ripresa nelle arti figurative e nella poesia, la dea reagisce con la disperazione al rapimento della figlia Persefone da parte di Ade, re dei morti. Questo mito evidenzia un nesso tra la vita, di cui il grano e il pane sono simboli, e la morte, luogo in cui Persefone è condotta senza possibilità di scampo, anche se da regina. In una versione del racconto Demetra lenisce il dolore per la scomparsa della figlia dopo aver bevuto un infuso a base di papavero, il fiore dai petali caduci e rossi come il sangue che cresce di solito nei campi di grano. La moltitudine degli steli di grano richiama la moltitudine che popola il regno dell’oltretomba. Lo sa bene Elias Canetti, che in Massa e potere non solo inserisce il grano tra i simboli della massa, ma si sofferma sulla “contrapposizione primordiale tra vivi e morti”, i quali costituiscono due masse in lotta esistenziale che sono in fondo una sola.

Nella tradizione ebraica la festa delle messi e dei cereali, Shavuot, è anche la celebrazione del dono della Torà presso il monte Sinai. Possiamo apprezzare fino in fondo il significato di questa festa se la mettiamo in relazione con quella di Pesach, che la precede di sette settimane, quelle scandite dal conteggio dell’omer. Sembra un discorso paradossale perché la regola fondamentale di Pesach prevede l’eliminazione di ogni cibo lievitato (chametz), mentre Shavuot festeggia il raccolto del grano e degli altri cereali. A Pesach in realtà non viene abolito il consumo di pane ma prescritto quello esclusivo di pane non lievitato, matzà. La differenza non sta nell’astensione dal cereale, ma dal lievito e, per estensione, dalle modalità naturali di lievitazione, in modo da ottenere un impasto più semplice possibile, di sole acqua e farina.

La matzà è, nella Torà, lehem onì, pane del povero: forse dello schiavo che in Egitto non dispone di altro, ma soprattutto di chi rifiuta le sicurezze, le comodità e le ricchezze piccole e grandi dell’Egitto per mettersi in cammino nel deserto. E’ la scelta del deserto, né la più immediata né la più facile tra le scelte possibili, a celarsi nel povero pane non lievitato. L’uscita dal regno della schiavitù, e la matzà, hanno valore non in sé, ma in base alla direzione che nel deserto viene presa, e che per la tradizione porta a Shavuot, seconda parte di un’unica festa di cui Pesach costituisce la prima. A Shavuot si festeggia non il lavoro – sarebbe infatti la celebrazione del potere dell’uomo sulla natura -, ma il grano frutto del lavoro che è tratto dalla terra da Dio, non la permanenza nel deserto ma il dono della Torà. Si potrebbe descrivere poeticamente la vicenda degli ebrei nella solitudine silenziosa del Sinai come il processo che trasforma l’umile pane non lievitato in pane soffice e fragrante, dove il lievito che permette il mutamento è l’assunzione di un corpus di doveri (la Torà), determinante nel fare di un insieme eterogeneo di tribù di ex schiavi un popolo.

A Shavuot è infine tradizione leggere la meghillà di Ruth, che con il raccolto e la trasformazione – la conversione non è forse di quest’ultima l’esempio più evidente? – ha molto a che fare. Ruth non fa parte per nascita del popolo ebraico, ma per scelta; ed è Ruth, bisnonna di re Davide, che farà lievitare la casa d’Israele, la farà cioè aumentare migliorando.

Intorno alla simbologia del pane si sviluppa la vicenda di uno tra i film francesi più significativi degli anni trenta, La moglie del fornaio (1938), tratto da un racconto di Jean Giono e diretto da Marcel Pagnol. Siamo in un aprico borgo della Francia meridionale dove la vita scorre assonnata e semplice, tra panorami che richiamano le tele di Cézanne e la larga parlata provenzale. L’evento inaspettato che mette in crisi la regolarità dell’esistenza è la scomparsa della bella moglie del panettiere Aimable, fuggita con un giovane pastore. Aimable, in assenza della moglie, è talmente abbattuto da non riuscire più a fare il pane e allora ai paesani non resta che mettersi in cerca della bella boulangère, cioè del pane che hanno perduto. Il problema coinvolge tutta la collettività, dai contadini al marchese, dal maestro di scuola al prete. E’ l’impasto più semplice, ci dice Pagnol, il collante in grado di tenere insieme la comunità, sia essa una famiglia oppure un intero paese.

Giorgio Berruto
collaboratore
Cresciuto in mezzo agli olivi nell’entroterra ligure, dopo gli studi in filosofia e editoria a Pavia vive, lavora e insegna a Torino. Ama libri (ma solo quelli belli), musei, montagne

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