Per la prima volta un Premier d’Israele in carica si presenta in un’aula di giustizia. Con un procedimento a suo carico che potrebbe durare anche tre anni…
In deroga alle misure di “distanziamento sociale” che vigono anche in Israele – tutto il mondo, in fondo, è paese – richiedendo che qualsivoglia manifestazione si svolga facendo in modo che le persone non si contattino direttamente (rischiando quindi di infettarsi in misura vicendevole), domenica scorsa opposte tifoserie si sono confrontate con una passione (e una commistione) degne dei migliori momenti delle grandi decisioni: chi con «Malik Bibi», chi contro. Due pubblici per due arene: i sostenitori in prossimità del loro beniamino; gli avversari vicino alla sua residenza. Benjamin Netanyahu, nel medesimo giorno – infatti – compariva in tribunale. Per intenderci la corte distrettuale di Gerusalemme. La prossima udienza è fissata a metà luglio.
Tempi lunghi. Almeno sei mesi di verifiche preliminari; poi almeno un centinaio di testimoni da ascoltare; infine, la valutazione e la discussione. Qualcuno parla di tre anni di tempo (il mandato di Netanyahu, per intenderci, è circoscritto, in base agli accordi intercorsi con l’Alternative Premier Benny Gantz, a diciotto mesi). Ci sarà quindi modo di prepararsi ulteriormente nel gioco della dialettica tra difesa ed accusa. Lui, in tutta plausibilità, invece sarà nel qual caso assente, affidandosi piuttosto ai suoi legali. Una cosa che non dovrebbe sorprendere in alcun modo i lettori italiani, che ben conoscono le logiche della giustizia, dove l’oggetto del confronto non è mai esclusivamente la presunzione di un reato ma chi lo commette, in questo caso nel suo ruolo pubblico. Il presidente del Consiglio dei ministri israeliano, da pochi giorni investito definitivamente di tale ruolo per la quinta volta, aveva fatto in tempo, poche ore prima, ad aprire i lavori del suo dicastero, per poi recarsi nell’aula 317, dove è oggetto di quel giudizio a venire. Per il quale, beninteso, è difficile pensare che intenda farsi rosolare (e quindi logorare) a lungo, anche se non ha altri strumenti a sua diposizione che non siano quelli dell’azione politica. Giocherà, come è di sua abitudine, d’azzardo; quando ciò dovesse occorrere, si intende. Cosa ciò dovesse comportare, a parte il prevedibile appello alla collettività, si incaricherà il tempo di dirlo.
Netanyahu odia oltre ogni cosa l’immagine di un premier sfiancato, prostrato, quindi acquiescente. Anche in ragione di ciò, prima di presentarsi al cospetto della corte dei tre giudici, Rivka Friedman Feldman, Oded Shaham e Moshé Bar-Am (ai quali si aggiunge il pubblico ministero Liat Ben-Ari) – le immagini ci restituiscono un capo politico comiziante, circondato da una parte dei “suoi” ministri, con tanto di mascherina anti-coronavirus ma per nulla disponibile a sedersi sul banco degli imputati. Letteralmente, si è cercato un altro strapuntino. A volere dire che un leader non si processa, se non nelle urne. Lui rispetta le regole, semmai è il ricorso alle regole che non rispetta lui («un golpe contro di me»). Lo ha affermato in qualche modo ai medesimo mezzi di comunicazione, dopo avere accusato un eccesso di mediatizzazione sulla vicenda (ad esempio, il Canale 13, che ha presentato interviste ai testimoni d’accusa). Al quale ritiene di dovere porre rimedio mandando in onda le riprese del processo, opzione che tuttavia non potrà avere luogo. L’epitaffio pronunciato dal longevo capo del Likud è sempre lo stesso, rimandando al «non avverrà nulla poiché non c’è nulla»: nulla da giudicare, ancora meno da condannare.
Rimane il fatto che sia la prima volta che un Premier d’Israele in carica si presenta in un’aula di giustizia (non certo, tuttavia, dinanzi alla magistratura: in genere, al montare delle inchieste, seguivano da subito le dimissioni, a volere dire che se non ci assumeva da subito le responsabilità penali invece si facevano proprie quelle politiche). Al netto del contenuto delle tre linee d’accusa che lo accompagnano da più tempo, circa tre anni (i casi 1000, 2000 e 4000 che contengono le ipotesi di reato, rispettivamente, per doni in cambio di favori; per una trattativa illegale il cui oggetto sarebbe stato l’ottenere un trattamento mediatico favorevole; la negoziazione, con la potente società Bezeq, sul sito «Walla!», di un altro trattamento favorevole, in cambio di politiche pubbliche accondiscendenti con l’azienda medesima) è comunque evidente – rispetto ai giudizi politici di calorosa simpatia oppure di insindacabile antipatia che si accompagnano a seconda della maggiore o minore condiscendenza personale nei suoi riguardi – il fatto che quanto accomuna i suoi sostenitori e oppositori, al medesimo tempo, è l’acquisita e persistente centralità mediata del primo ministro d’Israele.
Lo sa bene lui stesso, confidando che il Paese aderisca, in cuore suo, al principio: “Right or wrong, he’s the Leader of Israel”. La leva su cui Bibi cerca di smuovere la vivace, ma anche rissosa, società israeliana (nove milioni di cittadini, per altrettante opinioni, se non più), è quella di un costante plebiscito sulla sua persona. Sapendo che il conflitto permanente tra esecutivo e giurisdizionale non è una prerogativa della sola Gerusalemme ma di tutti i paesi a sviluppo avanzato. E che lo sarà sempre di più. In Italia, in queste settimane, si sta consumando un’altra stagione di fratture, con il declino della credibilità di una parte della giustizia, per intenderci.
Il suo rimando ad una presunta coalizione e convergenza di interessi, addirittura tra la polizia e la «sinistra» e le procure (adombrata in alcuni discorsi, rivolti soprattutto ai suoi sostenitori) ha quindi un preciso obiettivo, ossia quello di presentarsi come colui che, al netto della “faziosità” altrui, sa come perpetuarsi in quanto garante dell’unità del Paese dinanzi ai molti problemi che lo minacciano: senz’altro il Covid-19, che colpisce l’economia al pari di un colpo di frusta; non di meno, le mene del campo arabo-musulmano, soprattutto di quello sciita (se a Teheran coltivano ambizioni geopolitiche, è tutta da comprendersi quale sarà la configurazione del resto delle società circostanti: oggi, l’isolamento d’Israele è assai meno accentuato che nel passato, ma rimane il fatto che la dottrina dominante – quella d’immagine, per intenderci – impone ad essi di fingere nella condizione di una persistente ostilità che, nei fatti, non potrà più essere mantenuta troppo a lungo).
Netanyahu non propone una linea politica (la qual cosa sarebbe troppo impegnativa, in un momento in cui ovunque la politica è in crisi se non in ritirata); semmai, rimanda al potere di fare a meno di essa, sostituendovi – piuttosto – un confronto, che si fa da subito scontro, tra poteri. Così i suoi attacchi, non solo personali ma anche istituzionali, all’autonomia del procuratore generale Avichai Mandelblit, che lo ha incriminato. Ha capito bene che potrebbe risultargli premiante. Sa infatti che potrà coalizzare una parte degli israeliani a suo favore, al pari di quanto avviene in molte altre democrazie, personalizzando il giudizio sul suo operato e coprendo, in tale modo, eventuali coni d’ombra laddove essi dovessero sussistere. Non a caso, poco prima di mettere piede in aula, ha dichiarato: «entro a testa alta, le accuse rivoltemi sono state inquinate fin dall’inizio e si riveleranno ridicole». Per poi aggiungere: «ciò che viene fatto oggetto di valutazione, in realtà, è il tentativo di frustrare la volontà del popolo. Per più di dieci anni, la sinistra ha fallito alle urne. Negli ultimi anni, ha trovato un nuovo campo di mistificazione: unire polizia e magistratura al fronte “chiunque purché non Bibi” per costruire un processo delirante».
In questo dire, ripetuto nel tempo, al netto di qualsiasi accezione da dare alle singole parole, Netanyahu si rivela essere un leader “populista” integrale, sostituendo alla ramificazione delle intermediazioni (da molti oramai viste come un inutile sovraccarico decisionale), l’immediata opzione su di sé: “mi volete oppure mi rifiutate?”. Re Bibi gioca su tre assi paralleli: la mancanza di credibili alternative alla sua persona (Rabin è scomparso da venticinque anni, trattandosi orami di storia; Sharon da quindici; altri, ad essi, non sono subentrati, tenuto conto che Benny Gantz rischia di fare la medesima fine dei suoi predecessori, in tutta probabilità non avendone peraltro neanche la statura politica); le vecchie culture politiche, al pari di ciò che sta accadendo nel resto delle società a sviluppo avanzato, si stanno prosciugando; il terreno di “scontro consensuale” (ovvero, laddove una robusta minoranza oppositiva si confronterà con una maggioranza invece consensuale, tuttavia condividendo un comune lessico politico) si colloca su opzioni che, anche solo pochi anni fa, sarebbero invece risultate troppo divisive per essere concretamente praticate: in questo caso, se si parla di Israele, sarà l’annessione di una parte della Cisgiordania, laddove sorgono i robusti insediamenti ebraici.
Proprio quest’ultimo tema, altrimenti intollerabile per una parte degli israeliani, potrebbe costituire l’orizzonte sul quale invece spostare l’attenzione collettiva: non solo di quella nazionale bensì internazionale. Sapendo che i veri equilibri si giocano sulle sensibilità della prima e non piuttosto sui veti della seconda. Il campo palestinese è, come non mai, disarticolato. Senz’altro al suo interno ma anche sul versante delle relazioni regionali e geopolitiche. In altre parole, il tempo sembra fecondo per chiedere ai connazionali di pronunciarsi rispetto a un piano inclinato, quello che, da dopo il 1967, implica il dire che cosa si intenda per davvero fare, una volta per sempre, di una parte della Giudea e della Samaria, dopo circa cinquant’anni di stop and go, di atti, fatti ma anche revoche e smentite.
Non esiste ancora una dottrina israeliana univoca sui Territori dell’Autonomia palestinese. E sulla loro tre suddivisioni in altrettante aree di influenza, le famose zone A, B e C. Anche se il debole e poco credibile Abu Mazen ha dichiarato esaurita la fase propulsiva degli accordi di Oslo, ai quali rimaneva debolmente ancorato solo lui (e una diplomazia internazionale di pura circostanza). Netanyahu lo sa bene, così come non può non riconoscere che una tale condizione non sia necessariamente propizia in tutto e per tutto alle sue possibili scelte a venire. Invero, al momento per nulla delineate una volta per sempre. Le cose non sono definite per sempre neanche dal punto di vista della Casa Bianca, che concede ma non cede, se non altro perché deve comunque valutare l’effetto di (vecchi) patti e dei (nuovi) impatti. Alla luce soprattutto delle configurazioni geopolitiche a venire, allo stato attuale delle cose anch’esse per nulla chiare. In virtù di queste ragioni, affinché il lettore non sia costretto a rimanere schiacciato sul solo istante, torneremo a breve sulle stagioni delle leadership e degli stili di conduzione politica dei premierati israeliani, dal 1948 in poi. Trattandosi del risultato non solo delle maggioranze parlamentari che ne hanno sostenuto l’azione, così come della marcata soggettività dei leader succedutisi nel tempo, al pari delle culture politiche di cui erano espressione, ma anche delle sollecitazioni ambientali, del contesto regionale, delle alleanze, delle cose visibili e di quelle meno percepibili. Piuttosto che cogliere il solo aspetto personalistico – che accomuna figure anche molto diverse tra di loro, da David Ben Gurion all’attuale Premier, passando per Golda Meir, Yitzhak Rabin, Ariel Sharon e così via – sarà allora bene capire quale fosse lo spirito dei tempi così come la natura del paese che andavano dirigendo. Poiché sia l’uno che l’altra, in più di settant’anni, sono mutati. E non di poco.
Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.