Un ragionamento circa la giustizia, la memoria pubblica e la partecipazione. A partire dalla morte di George Floyd per arrivare a quella di Abba, ucciso nel 2008
Qualcuno, sabato scorso, 6 giugno, nel ritrovarsi nel piazzale antistante la Stazione Centrale di Milano, per manifestare la propria scelta a proposito degli ultimi “fatti d’America” ha ricordato che quei “fatti” non sono così lontani da noi, che non siamo, qui, in Italia, a Milano, solo spettatori di un fatto confinato dall’altra parte dell’oceano, ma che quella scena è anche parte della nostra quotidianità qui.
Così in mezzo al più volte ripetuto “Black Lives Matter” qualcuno ha ricordato un episodio di molti anni fa, accaduto qui, a Milano, in via Zuretti. Era il 14 settembre 2008.
Proviamo dunque a ripercorrere quella scena, ma, soprattutto quel film, perché come vedremo non basta fermarsi sul luogo del delitto e dunque scattare un “fermo immagine”, ma è anche interessante guardare e e ricordarsi del dopo, se per davvero vogliamo capire dove siamo noi oggi, e se ci siamo spostati significativamente da quel tempo. Così per provare a smettere di “fare finta”.
Proviamo dunque a ripartire da quel 14 settembre 2008.
Abdoul Guiebre, più noto come Abba, aveva 19 anni quando viene assassinato, il 14 settembre del 2008, a Milano in via Zuretti, zona stazione Centrale. “Sporco negro” gli aveva gridato il figlio del barista che l’aveva sorpreso a rubare due pacchetti di biscotti, prima di ucciderlo sfondandogli la testa con l’asta uncinata con cui stava abbassando la serranda. Fausto e Daniele Cristofoli, padre e figlio, sono stati condannati in via definitiva a 15 anni e 4 mesi a testa per l’omicidio, con sentenza di secondo grado il 16 luglio 2009 (e riconfermata dalla Cassazione, respingendo il ricorso dei difensori dei Cristofoli, il 12 febbraio 2014).
Mi chiedo: è possibile che quello che abbiamo visto sabato 6 giugno 2020 si ripeta, forse in maniera consistente, comunque numericamente rilevante, il prossimo 14 settembre? Ne dubito.
Vorrei spiegare perché.
C’è un vuoto, significativamente, nei giorni successivi alla morte di Abba. Ma quel vuoto si ripete anche dopo. Il tribunale di Milano emise la sentenza del processo di primo grado, condannando Fausto e Daniele Cristofoli, i due baristi, padre e figlio di cinquantuno e trentuno anni, riconosciuti colpevoli per l’assassinio a colpi di spranga di Abba. Ma fuori da quell’aula, lungo la strada, nell’area intorno al Tribunale di Milano quel giorno, non c’era nessuno. C’erano i giornalisti, la televisione, ma la società civile non c’era. Intendo la società civile che siamo abituati a vedere in presenza, scaldarsi e scandalizzarsi per i privilegi della “casta”, per i disservizi pubblici, per la richiesta di una giustizia che funzioni, quella non c’era. E non c’era nemmeno quella che si mobilita contro gli immigrati, che proclama la necessità della castrazione chimica. Un po’ perché non avrebbe saputo cosa dire, un po’ perché Abdul Guiebre era nero e italiano e non solo qualsiasi cosa fosse stata detta, ma anche la propria presenza, sarebbe stata fuori luogo. Meglio perciò stare a casa propria e riservare le proprie energie per momenti più propizi.
Dunque, quel giorno la società civile è altrove, assorbita dai saldi, troppo chiusa in se stessa per andare oltre la propria persona. Si ripeteva il 16 luglio 2009 la scena che era già accaduta all’indomani della morte di Abba: il vuoto tra Abba e chi lo ha ucciso.
C’è in quel vuoto che si ripete – sia il 14 settembre 2008 che il 16 luglio 2009 – un duplice problema: quello di una società civile assente, ma anche quello di una totale confusione su cosa debba essere il ruolo della giustizia e della pena. Perché il problema non è semplicemente una domanda di ordine. Il problema è il fine per cui auspichiamo l’ordine. Dietro a questa richiesta, infatti, stanno almeno due immagini della giustizia.
La prima riguarda la funzione della pena. Una pena giusta nel diritto moderno si fonda sul recupero, un tema e un campo che da tempo è stato lasciato dietro le spalle, nei fatti accantonato. Nel caso del processo ai Cristofoli, questa questione nemmeno si è posta, perché nessuno ha dato la sensazione di un pentimento reale. La seconda ritiene che la durezza di una sentenza, prima ancora che riconoscere un colpevole, indica una scelta tra “garantiti” e “reietti”. E i difensori degli accusati non volevano che i propri difesi perdessero la possibilità di divenire simbolo della rivolta a una giustizia assente o latitante.
Il problema non riguarda solo il funzionamento della giustizia, la velocità dei processi, ma anche che cosa chiediamo alla giustizia. Spesso non chiediamo una sentenza giusta, ma un giudizio sulla nostra persona. Non ciò che abbiamo fatto, ma chi siamo. Anche per questo tra Abba e chi lo ha ucciso c’era il vuoto: perché chi pensa che lì sia stato superato un limite avvisa il ricatto dell’ordine e dunque ritiene che stare dalla parte di Abba significhi difendere un ladro di biscotti e non una vita violata. E chi sta dalla parte dei Cristofoli, semplicemente non ha interesse alla qualità della vita degli altri. Sa solo che i Cristofoli non sono difendibili, ma si possono invocare delle attenuanti e dunque tratta i Cristofoli come il simbolo di un’ingiustizia subìta, come l’esempio della impossibilità di reagire. Ovvero li guarda come vittime della “dittatura degli immigrati” o della “inconsistenza della macchina giudiziaria”. Con ciò la violenza ha fatto un nuovo giro di giostra e si può ricominciare daccapo. Importante è fare passare del tempo. Il processo di secondo grado che nel 2014 ha confermato la sentenza di primo grado, lascia il quadro irrisolto.
Cominciamo di nuovo da Via Zuretti.
Via Zuretti, una volta via della periferia di Milano, ora una realtà che fa parte del quadro intermedio della rete urbana. Non una via di un quartiere degradato e in gran parte abitata da residenti di seconda generazione di quell’emigrazione meridionale che a Milano è arrivata nel secondo dopoguerra. Una via non lontana da Via Gluck, la strada che nella memoria degli italiani, grazie a Adriano Celentano si è identificata come la via degli emigrati e e con il luogo in cui qualcuno va via con amarezza a tentare altrove la fortuna (tutti fratelli di Abba sono in effetti andati via a trovare lavoro in Francia).
Ma una via che da quella notte ha deciso o ha voluto comunicare che niente è successo e che “la vita continua”. Che la ferita profonda di un episodio marcato fortemente di una venatura razzista, tanto più profonda quanto più inconsapevole e non dichiarata, non esiste.
Così il senso comune di chi lì abita, il refrain costantemente ripetuto, è che lì non è avvenuto niente. Una via in cui periodicamente mani anonime hanno continuato a scrivere e riscrivere più volte il nome di Abba e dove ogni volta altre mani ignote hanno cancellato sistematicamente quel nome. Una via dove molti dei suoi abitanti si domandano perché qualcuno si interessi a quello che lì è avvenuto e che è sicuramente meglio mettere la sordina e riprendere la vita di ieri. Poi si è aperto il processo e al di là delle diverse vicende si è arrivati a una sentenza che ha condannato Fausto e Daniele Cristofoli a quindici anni e quattro mesi e a al riconoscimento di un risarcimento alla famiglia Guiebre.
14 settembre 2018. il Comune ha posto una targa di ricordo. Un testo semplice: “Abdoul Guiebre, ragazzo, cittadino del mondo”. Sotto, le date di nascita e di morte troppo vicine fra loro. È appesa vicino ai murales che già ricordano Abba, in Via Zuretti 51, all’incrocio con via Zuccoli, a poca distanza dal bar che è stato dei Cristofoli. Milano è una città piena di lapidi. Più precisamente di “luoghi di marmo” che tengono la memoria. Ce n’è per tutti i gusti. Una pagina web si è incaricata di raccogliere tutte le frasi, le foto e le schede di coloro che sono stati fatti omaggio di una lapide (www.chieracostui.com). Li unisce la condizione di avere subito la violenza.
Scelgo dei nomi simbolicamente significativi: Emilio Alessandrini, magistrato, ucciso da Prima Linea; Sergio Ramelli, studente del Fronte della Gioventù ucciso da militanti di Avanguardia operaia; Claudio Varalli, militante del Movimento Lavoratori per il Socialismo; Luigi Calabresi.
Tra loro non hanno niente in comune e nella loro vita quotidiana non avrebbero condiviso niente: né i luoghi di vacanza, né gli amici. Ma ciascuno di loro ha avuto diritto a un luogo di memoria e a una lapide, che nessuno chiede di rimuovere, né nessuno cancella o danneggia perché il problema è ciò che hanno subito e non chi erano. Ciascuna lapide, in breve, ricorda una violenza avvenuta, non le attenuanti generiche o l’immaginazione.
E tuttavia, quella lapide in sé non salva perché chi si sente offeso da ciò che è avvenuto nel luogo in cui ciascuna di quelle lapidi sorge, ha il problema di chiedere una “memoria pubblica” di un fatto.
Per questo non basta una scritta, ma occorre un atto. Forse accadrà il prossimo 14 settembre, se terremo memoria di Gorge Floyd. Ma ne dubito. Perché per farlo occorre avere il coraggio, la forza e la fermezza di litigare con quelli della “propria parte”. Troppe cose. In tempi di forti effluvi identitari, è difficile, per non dire impossibile, mettere da parte il proprio “Io ferito” e lasciare spazio alla cosa pubblica.