Solo un quarto dei kibbutzim mantiene ancora rilevanti aspetti della vecchia cultura politica basata su un sostanziale egualitarismo, sulla rotazione delle funzioni, sullo scarso o nullo ricorso alla retribuzione personale. Il 72% ha adottato il sistema privatistico…
C’è chi ha parlato della «morte di una icona». Altri hanno liquidato il fenomeno come un aspetto oramai residuale, a tratti anacronistico, comunque sostanzialmente secondario in una storia, quella d’Israele, che ha da tempo voltato pagina, volgendo oramai il Paese verso mete completamente diverse rispetto al passato. Al netto dei diversi posizionamenti politici, anche a volere essere un po’ meno radicali, non si può tuttavia non rilevare il declino di una musa da molti amata, spesso idealizzata, a volte fraintesa, da certuni conosciuta direttamente ma da tanti altri – in realtà i più – solo immaginata romanticamente. Stiamo parlando del kibbutz, sulla cui storia, come fatto collettivo ma anche e soprattutto come simbolo di un’epoca, abbiamo già avuto modo di scrivere alcune note.
Altre se ne potrebbero aggiungere. Architrave nei processi di insediamento ebraico nella Palestina ottomana e soprattutto mandataria, modello di organizzazione economica, sociale, civile e quindi educativa, strumento di costruzione della cittadinanza politica di una nuova società, dopo la nascita dello Stato d’Israele ha svolto un ruolo rilevante nella formazione delle élite che si sono susseguite fino agli anni Ottanta del secolo scorso. Di fatto, ha spesso fornito i quadri dirigenti per quel socialismo israeliano, dai tratti atipici, che risultava sospeso tra un’organizzazione pubblica di impianto socialdemocratico e quelle spinte verso l’espansione del settore privato, un po’ in tutti gli ambiti della vita comune, che prevalsero dopo la guerra del Kippur, consumatasi nel 1973. Un sistema politico ed economico che da quel momento fu sempre più spesso segnato dalle difficoltà a fare fronte all’evoluzione del quadro sociale ed economico interno ed internazionale presto contrassegnato dai processi di globalizzazione. Tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta la crisi dei kibbutzim era un dato già conclamato. Malgrado i circuiti organizzativi intessuti tra di essi, l’impatto delle trasformazioni risultava a quel punto tale da renderne ingestibili gli effetti con il solo ricorso a risorse proprie.
In realtà, l’attività dei kibbutzim è stata da sempre inserita all’interno di un processo economico corporato, ovvero intessuto e alimentato dalle continue relazioni di scambio con l’Histadrut, la potente centrale sindacale (e produttiva) nazionale, le molteplici diramazioni amministrative del laburismo al potere, componenti significative di Tsahal – le Forze di difesa israeliane – e una parte della stessa imprenditoria privata. La crisi di questo blocco di potere, decretata dalle trasformazioni indotte dagli anni Settanta – in un’età di transizione, in atto non solo in Israele ma nel mercato internazionale – avrebbe causato ben presto il ridimensionamento e poi il progressivo declino delle stesse comunità cooperative.
Ma procediamo con ordine. Se il cambio di maggioranza politica nel Paese, con l’ascesa al governo della destra nel 1977, fu un turning point, l’erosione era tuttavia iniziata comunque da tempo. Gli ideali rigorosamente egualitari, basati sul principio «da ciascuno secondo le sue capacità, ad ognuno secondo le sue necessità», insieme ai progetti di ingegneria sociale (ad esempio, l’educazione condivisa, tra famiglia e comunità, dei bambini più piccoli così come un precoce avviamento alla condivisione collettiva di ruoli e responsabilità; la rotazione delle mansioni e l’assenza di retribuzioni salariali personali; la valorizzazione dei momenti di vita comunitaria, a partire dai pasti consumati in mense e refettori; l’allocazione delle risorse interne in base alle scelte esercitate da assemblee di gruppo, insieme alla riduzione dei ruoli di intermediazione e di rappresentanza) erano già stati ridimensionati negli anni Cinquanta. All’atto concreto, non solo per la difficile praticabilità dei medesimi, ma anche per la crescente differenziazione della società israeliana circostante, la sua tumultuosa evoluzione sociale e demografica, l’alternarsi sempre più pronunciato tra economia pubblica e privata, con la crescita soprattutto di quest’ultima.
In altre parole, il modello pioneristico, di cui il kibbutz costituiva forse il simbolo più robusto, se non era del tutto tramontato sempre più spesso doveva misurarsi con le incalzanti trasformazioni ambientali. Ad attenuarne l’impatto, altrimenti insopportabile per gli oltre duecento kibbutzim, anche durante gli anni della grande trasformazione neoliberale, tra il 1973 e il 1992, fu soprattutto il credito bancario. Un fatto per nulla sorprendente se si tiene in considerazione un aspetto rilevante, ossia che in quegli anni lo Stato era ancora – e rimase tale anche successivamente – tra i maggiori azionisti (nonché proprietario, appalesato, diretto, così come intermediato oppure occulto) del sistema del credito nazionale. Alla Knesset, il Parlamento, il settore rurale ed agrario in quell’arco di tempo rimaneva robustamente rappresentato da molti eletti, che tenevano sotto pressione le banche affinché erogassero finanziamenti, mutui, crediti e sovvenzioni ai kibbutzim.
Una politica di sostegno senza sbocchi, tuttavia, non poteva non rivelare di avere le gambe corte. Già un primo consolidamento del debito degli insediamenti pioneristici (attraverso la sua copertura da parte degli istituti di credito, che se ne facevano garanti della solvibilità) era stato peraltro effettuato a metà degli anni Venti, quando l’obiettivo della nascita dello Stato era ancora lontano. Di fatto, poi, di decennio in decennio si procedette ancora su questa strada, che comportava una crescente dipendenza del cooperativismo egualitario dal sistema bancario. La motivazione addotta per mantenere ed alimentare una tale scelta, ripetuta nel tempo, rimandava alla strategicità dei kibbutzim per la società nazionale. Non era tanto una questione di numeri (di fatto, sia pure con andamenti altalenanti, solo tra l’1% e il 2% della popolazione israeliana vi ha vissuto oppure vi è nata e cresciuta) quanto di rilevanza come fucina delle classi dirigenti. Negli anni Cinquanta il ministero dell’Agricoltura (poi anche dello «sviluppo rurale») istituì una speciale sezione di lavoro, con l’obiettivo di fornire indirizzi e risorse per l’evoluzione del sistema cooperativistico, arrivando – alla fine di quel decennio – a formulare un piano generale del credito. Con esso, alla suddivisione delle tre principali organizzazioni di coordinamento dei kibbutzim, che venivano collegate alle maggiori banche nazionali (Bank Hapoalim, Bank Leumi e l’Israel Bank of Agriculture), si accompagnava la ricontrattazione dei debiti pregressi, in parte coperti e quindi cancellati, insieme a nuove linee di credito finalizzate alla trasformazione delle produzioni, non solo agricole, cercando di valorizzare quelle considerate maggiormente competitive. Il legame tra insediamenti collettivi, sistema creditizio e governi fu quindi a lungo una costante, rafforzando soprattutto la discrezionalità di questi ultimi, ai quali era attribuito un ruolo strategico nel mercato dei capitali e nelle assegnazioni di contributi. Il sistema lobbistico laburista funzionava in tale senso, garantendo ai kibbutzim, anche in presenza di gravi deficienze proprie, la possibilità di continuare ad esistere. In un tale circuito, la funzione delle banche era prevalentemente tecnico-amministrativa, dovendo semmai provvedere, al netto delle loro peculiari strategie di investimento, a mantenere il costante sostegno al debito nel mentre maturato.
Tutto ciò avveniva prescindendo dalle valutazioni sulla redditività e sul rischio finanziario in quanto tali. Una tale disposizione, ripetutasi nel tempo, era il prodotto della cristallizzazione di interessi politici che ruotavano intorno alla maggioranza di governo laburista, dando inoltre la falsa sensazione che dinanzi a qualsiasi crisi si sarebbero trovate comunque le risorse necessarie per superarla. Questa circolarità di fatto, ripetuta a lungo, con gli anni Settanta declinò. La necessità di mettere mano, con misure radicali, alla crescita del debito pubblico, alla costante svalutazione della moneta nazionale, all’inflazione galoppante (che nel 1984 raggiunse il 400% annuo), all’esigenza imperiosa di richiamare capitali dall’estero garantendo ad essi un regime di mercato competitivo, concorsero a inaridire e a rarefare le opportunità di cui i kibbutzim avevano goduto fino ad allora.
La crisi dei quali non era, a quel punto, solo economica ma anche sociale, culturale, politica e demografica. L’apertura definitiva del Paese ad un sistema economico misto, dove uno spazio crescente era ora dedicato all’attività privata, segnava un transito di ordine sia materiale che simbolico: “meno socialismo, più liberismo”. Il programma di stabilizzazione economica licenziato nel 1985 dall’esecutivo di unità nazionale presieduto da Shimon Peres, durante l’undicesima legislatura, procurò ben presto una nuova crisi debitoria dei kibbutzim, a questo punto indicati – non solo dai loro critici – come fonte di passività e di basso rendimento, ed in quanto tali sempre più anacronistici rispetto alle necessità dei tempi. Nel 1989 e poi ancora nel 1996 i governi e le banche intervennero per fare fronte allo stato di sofferenza economica degli insediamenti. Le polemiche contro la loro condotta ruotavano intorno alle politiche di investimento senza appropriato ritorno economico; sull’irresponsabilità nella gestione dei crediti; sul deficit di analisi delle condizioni di mercato; sull’inefficiente allocazione del personale e dei capitali; sulla ridotta propensione all’utilizzo del personale salariato (perlopiù proveniente dall’esterno); sull’accesso a prestiti a mutuo fisso, condizionati negativamente dall’andamento inflattivo; sull’attività speculativa – in palese contrasto con la precettistica che esaltava invece l’investimento produttivo, a favore del lavoro – attraverso il ricorso al mercato dei fondi finanziari, subendo infine gli effetti della grave crisi dell’azionariato bancario avvenuta già nel 1983.
A queste tendenze, strettamente finanziarie, si aggiungevano poi anche due rilevanti aspetti di fondo: il primo di essi era la propensione dei giovani – sempre più marcata con il passare del tempo, una volta raggiunta la maggiore età ed entrati nell’esercito e poi all’università – ad uscire dalla comunità d’origine; il secondo derivava dalla crisi di leadership interna, motivata da molti fattori ma anche e soprattutto dalla propensione a sostenere nei ruoli di direzione quelle donne e quegli uomini che risultassero essere maggiormente fedeli alle logiche di apparato espresse dalle grandi organizzazioni dei kibbutzim. Benché i due fenomeni (ossia il “fuoriuscitismo” e il conformismo manageriale) potessero sembrare non immediatamente collegati tra di loro, in realtà esprimevano tendenze piuttosto omogenee: l’ideologia comunitaria, a fronte del sostanziale monopolio direzionale esercitato da una generazione non più giovane, ancora fortemente condizionata dalla propria formazione politica, sindacale e culturale avvenuta negli anni Quaranta e Cinquanta, si confrontava con le sensibilità espresse da quella gioventù che sembrava poco proclive ad assorbire e assimilare le logiche del movimento. Israele, nella sua evoluzione demografica, sociale e culturale, era sempre di più una società differenziata, pluralista ma anche distante dall’egualitarismo di fondo praticato, con crescenti difficoltà, dentro i confini degli insediamenti collettivi.
Peraltro, il perdurare della stessa crisi finanziaria, portò negli anni Novanta ad ulteriori negoziazioni, di fatto incentivando la separazione, che già era in corso, tra quei kibbutzim che andavano assumendo una vocazione immobiliare e turistica e quei centri che, invece, rimaneva legati prevalentemente alla stanzialità dei loro membri, perlopiù ancora impiegati nelle attività agricole o di piccola e media industria praticatevi da molto tempo. Per tutto il decennio, soprattutto poi con la nuova ascesa della destra al governo, dal 1996 in poi, se una parte dei kibbutzim ha migliorato le proprie prestazioni economiche e le performance finanziarie, proprio la concentrazione sulle politiche e le pratiche di rientro dal debito ha generato molte fratture. Il dibattito interno, dove le divaricazioni tra chi rivendicava la necessità di preservare lo “spirito originario” e quanti, invece, ritenevano di dovere accettare le nuove condizioni, segnò una fase di ulteriore trasformazione, che fu segnata anche dal declino di ciò che restava della vecchia generazione militante. La necessità di restituire i crediti ottenuti ha peraltro condizionato l’ulteriore crescita del tenore di vita dei membri interni, incentivando o comunque agevolando l’uscita di quanti sono andati cercando nella società israeliana nuove opportunità. È comprovato dai fatti che lo sviluppo di uno spirito aziendalista e manageriale abbia enormemente mitigato buona parte del sistema collettivo e cooperativista. L’introduzione di sistemi remunerativi e salariali basati sulla differenziazione delle prestazioni e dei ruoli ha pesato molto nelle divaricazioni interne. Oramai solo un quarto dei kibbutzim mantiene ancora rilevanti aspetti della vecchia e consolidata cultura politica basata su un sostanziale egualitarismo, sulla rotazione delle funzioni, sullo scarso o nullo ricorso alla retribuzione personale. Su circa 250 kibbutzim, il 72% ha adottato il sistema privatistico, con la salarizzazione differenziata delle prestazioni, il 25% paga stipendi indifferenziati e la parte restante, una decina, mantiene ancora il vecchio sistema di non fare corrispondere remunerazione a prestazione. Rimane il fatto che anche il kibbutz privatizzato mantenga la comproprietà dei mezzi di produzione, insieme alla garanzia, offerta ai suoi membri, di potere usufruire di una robusta rete di sicurezza sanitaria, pensionistica ed educativa.
Cosa resta di questa complessa esperienza, dopo almeno cent’anni di implementazione? La linea ideologica di successione ha seguito un transito dall’originario collettivismo (tutti uguali, nessuna differenziazione interna, condivisione assoluta di beni, spazi e relazioni, comprimendo le individualità), al cooperativismo solidale (basato su un bilanciamento tra esigenze del gruppo e necessità dei singoli) fino alla situazione odierna nella quale, alla persistenza di piccole esperienze per lo più isolate, considerate dai più al limite del settarismo monastico, si alternano organizzazioni spurie, che hanno dato origine, nel corso degli ultimi trenta o quarant’anni, a forme molteplici di esistenza comune assimilabile a quei villaggi comunitari dove vige un’economia di ordine capitalista ma sono valorizzati gli aspetti di reciprocità dettati dal vicinato solidale. Peraltro, nello stesso arco di tempo, alla “forma kibbutz” si è alternata e poi sostituita l’esperienza degli insediamenti colonici in Cisgiordania. Due soggetti storici molto diversi, non direttamente comparabili, tuttavia destinati entrambi a generare culture sociali e modelli di cittadinanza a sé stanti. Per epoche senz’altro differenti.
Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.
Per risolvere la crisi e l’ingiustizia sociale, bisognerebbe valorizzare i 20.000 borghi abbandonati italiani. Lo slogan: una casa per tutti, inclusi gli immigrati, tutti appartengono ad un Kibbutz, anche se vivono a lavorano altrove. I kibbutz italiani assomiglierebbero più agli agriturismi e alla cooperative emiliane romagnole, cioè dei kibbutz a motore capitalistico.
. Dal racconto La tribù di Italo Svevo
““Ho tanto viaggiato,” rispose Achmed, “e non trovai sinora alcun paese che fosse giunto a tale elevata organizzazione. So dirvi questo soltanto: In quel lontano avvenire la terra sarà della tribù e tutti i validi dovranno lavorarla. I frutti saranno di tutti. Non cesserà la lotta, perché dove è vita è lotta, ma la lotta non avrà per iscopo la conquista del pane quotidiano. Questo sarà il diritto, come oggi l’aria. Il vittorioso nella lotta non avrà altra soddisfazione che d’aver servita la tribù”.
“E dovremmo attendere sì a lungo per raggiungere tanta felicità?” gridò Hussein con voce tonante.