Prima puntata di un’analisi in tre atti, dedicata alla storia delle comunità ebraiche dell’Est e della Russia, tra fine Ottocento e i primi anni del Novecento
Identificare, tematizzare e comprendere storicamente il lungo e difficile rapporto tra l’ebraismo dell’Europa orientale e i regimi comunisti, comprendendo in essi non solo l’Unione Sovietica (ingeneratasi dal 1917, anche se ufficialmente esistente tra il 1922 e il 1991) ma anche quelle porzioni della Mitteleuropa che dal 1945 in poi furono inserite nel sistema delle cosiddette «democrazie popolari» (Polonia, Cecoslovacchia, Romania, Ungheria, Bulgaria ed in parte la stessa Jugoslavia), richiede di considerare una pluralità di fattori, tra di loro interconnessi e destinati ad influenzarsi reciprocamente. Il primo di essi è il radicamento sociale e demografico dell’ebraismo in quelle terre. Il secondo, è la sua rapida politicizzazione, a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, con la crescente partecipazione alla vita pubblica. Lo sviluppo del sionismo, il movimento nazionale che propugnava la costruzione di una comunità politica nella Palestina, così come del Bund, l’Unione generale dei lavoratori della Lituania, Polonia e Russia, partito socialista ebraico attivo nell’Impero russo a cavallo tra il XIX e il XX secolo, sono due indici fondamentali di questo processo.
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Un terzo elemento è l’eterogeneità degli ebraismi europei, a partire proprio dagli «Ostjuden» (gli «ebrei dell’Est», intesi come segmento di popolazione autoctona ma anche come circuito sociale, culturale e civile a sé), senz’altro accomunati dall’utilizzo di un idioma comune, lo yiddish (in Russia parlato allora dal 97-99% della popolazione ebraica), ma anche da storie e traiettorie di vita spesso divergenti. Un quarto aspetto è il tragico impatto della Shoah, lo sterminio nazista delle comunità ebraiche, tra il 1941 e gli inizi del 1945, che proprio nell’Est raggiunse le sue punte più estreme, per intensità, capillarità e ferocia. Qualcuno a ciò aggiungerà la partecipazione, nelle stesse élite dirigenti, fino alla fine degli anni Venti, di un buon numero di ebrei russi, salvo doversi ricredere – almeno in parte – rispetto alla intenzioni manifestate da Stalin. Tuttavia, come si avrà modo di argomentare, la questione del rapporto tra ebrei russi e comunismo è assai più complessa di quanto una serie di affermazioni di circostanza possano, ad oggi, consegnarci.
Non a caso, la «questione ebraica», a cavallo tra XIX e XX secolo, era ancora essenzialmente un tema che rimandava ai territori dell’Europa orientale. Se in tale modo si intendeva definire la specificità delle minoranze ebraiche, mentre nell’Europa occidentale gli Statuti di emancipazione avevano progressivamente liberato l’ebraismo dai vincoli giuridici che precedentemente ne avevano invece determinato la subordinazione e il vassallaggio alla maggioranza cristiana, non la stessa cosa poteva dirsi dei correligionari orientali, perlopiù assoggettati a regimi di palese subalternità e di conclamato sfruttamento. Quest’ultimo di ordine non solo economico ma anche civile. Peraltro, nel 1880 su 7.663.000 ebrei presenti nel mondo, 6.771.000 erano concentrati in Europa e di questi ben 5.727.000 all’Est (un numero corrispondente al 74,7% della popolazione ebraica complessiva, per intenderci). Alla vigilia della Seconda guerra mondiale – sempre per seguire i trend demografici e, con essi, le dimensioni di grandezza planetaria – la popolazione ebraica mondiale era prossima ai 16 milioni di individui. Nel mentre, già si era prodotta la grande migrazione transoceanica, quella che tra il 1881 e l’inizio degli anni Venti aveva portato almeno due milioni e mezzo di ebrei ad emigrare verso l’Europa occidentale e, soprattutto, nelle Americhe. Entro il 1928, 1.749.000 elementi erano divenuti statunitensi; 240.000 si erano insediati in Europa; 111,000 nelle Americhe meridionali; 70.000 in Canada; 45.000 in Sud Africa; altrettanti nella Palestina ottomana e mandataria; 5.000 in Australia. Peraltro, i flussi in uscita erano stati compensati, sul piano socio-demografico, dall’alto tasso di natalità.
Con la fine della Seconda guerra mondiale, questa configurazione distributiva sarebbe peraltro mutata radicalmente: l’America settentrionale, e poi Israele, avrebbero infatti soppiantato definitivamente gli originari insediamenti aschenaziti, nell’Europa orientale, e quelli sefarditi e mizrachi (ossia, «orientali»), presenti nel mondo arabo e soggetti, nel corso di alcuni anni, tra espulsioni e fughe, alla progressiva cancellazione.
Nell’Europa continentale di fine Ottocento la presenza ebraica più rilevante rimaneva quindi quella nei territori dell’Impero zarista. Gli ebrei, infatti, costituivano il 4,1% dell’intera popolazione autoctona. Nella «Zona di residenza coatta», l’area cuscinetto con l’Europa occidentale, compresa tra il Baltico e il Mar Nero, creata nel 1791 da Caterina II di Russia e nella quale la quasi totalità degli ebrei fu costretta a vivere fino al 1917, la percentuale raggiungeva l’11,6% (con punte del 40% a livello urbano). La dimensione territoriale della Zona, pari a circa un quinto dell’Impero zarista, coincideva con i confini storici della Confederazione polacco-lituana, includendo ampie parti delle attuali Lituania, Bielorussia, Polonia, Bessarabia, Ucraina così come territori della Russia occidentale. All’atto del censimento del 1897, la popolazione ebraica risultava composta al 4,7% da funzionari e professionisti, per il 36,3% da lavoratori dell’industria (impiegati soprattutto nelle manifatture di piccole e medie dimensioni) e dell’artigianato e per il 31% da membri del terziario povero, ovvero perlopiù commerci di prodotti di riciclo, a partire dai capi di vestiario. Solo il 2,4% era occupato nell’agricoltura.
L’indigenza era un fatto comune e riguardava la quasi totalità della popolazione ebraica. Tuttavia, la maggioranza di essi, pur condividendo tali condizioni di marginalità, non era immediatamente inquadrabile nei quadri del proletariato industriale che andava invece formandosi in altri strati della popolazione. Assai diffusamente. La frammentazione e la localizzazione in attività produttive disperse, molecolari, contava infatti molto nella coscienza di sé nutrita da una larga parte di essi. La vita negli shtetlekh, le «piccole città» che costellavano le aree rurali della Zona di residenza, ove la presenza ebraica era prevalente, si rivelava dura e molto difficile. Il rapporto con la popolazione non ebraica, per la grande maggioranza composta da cristiani ortodossi, era spesso più che problematico. A fronte della povertà assoluta di almeno un quarto degli ebrei, e della totale modestia delle condizioni di vita per le componenti restanti, la fonte esclusiva di sostentamento per una rilevante parte di essi era costituita dalle opere assistenziali e caritatevoli dei correligionari. In altre parole, non esisteva un’economia autonoma ma solo di riproduzione biologica, tale poiché basata sul soddisfacimento dei bisogni elementari, basati sulla mera esistenza di sé e dei propri congiunti. Non era un solo problema ebraico ma nell’insediamento degli Ostjuden pesava in maniera tale da determinare qualsiasi orizzonte di vita.
Peraltro, la forte concentrazione in quartieri ed aree territoriali circoscritte faceva sì che molti di essi costituissero un facile bersaglio durante i pogrom, i brutali tumulti antiebraici, spesso aizzati e guidati dalle autorità locali come dalla stessa Chiesa ortodossa. Alcune di queste sollevazioni antiebraiche arrivarono a devastare intere comunità. In particolare modo, nel periodo di tempo compreso tra gli anni 1881-1883 e 1903-1906, le violenze sistematiche causarono la morte di migliaia di incolpevoli, insieme ad incalcolabili danni economici. Ai giorni nostri può sembrare un paradosso, trattandosi perlopiù di una guerra tra poveri. Da una parte gli ebrei russi, dall’altro la popolazione ortodossa. Tuttavia, proprio perché era un conflitto di sopravvivenza, esso assumeva i feroci connotati di una sorta di guerra senza quartiere, ossia a somma zero: voi oppure noi. Gli ebrei, oppure i non ebrei. Le sproporzioni numeriche non facevano la vera differenza politica: l’abilità del sistema di potere zarista-ortodosso (dove Chiesa e Corona condividevano molte responsabilità, in un regime di compartecipazione, di collusione e di colpevole reciprocità), era infatti quello di mettere costantemente le popolazioni le une contro le altre. Per il lettore avveduto, sarà oggi chiaro che gli ebrei aschenaziti non fossero meno “russi” (quindi potenzialmente fedeli al regime politico vigente) delle comunità slave. Non era questo il vero punto di frattura. Non un problema di lealtà, come invece fu detto. Più prosaicamente, le distinzioni di appartenenza erano invece utilizzate, pressoché quotidianamente, in una guerra di tutti contro tutti, per mantenere rigidamente assise al potere le autorità di San Pietroburgo (poi, dal 1914, Pietrogrado e, dal 1924 fino al 1991, Leningrado, in omaggio alla diverse stagioni della politica imperiale russa; la capitale – nel mentre – sarebbe poi stata trasferita a Mosca nel 1918). I Romanov, la dinastia dominante, sapevano benissimo che ci si garantisce la propria ricchezza e persistenza al potere non su un’inesistente prosperità (l’Impero russo, all’inizio del Novecento, era sulla stessa linea di collassamento della Francia di Luigi XVI, nel fatale 1789) bensì sulla lotta tra le “nazionalità”, ovvero sulla guerra continua tra subalterni.
Per inciso, e per completezza storica, affinché si comprenda la complessità delle circostanze, valga il richiamare pochi ma necessari elementi: i Romanov costituivano la seconda dinastia imperiale russa, ascesa al trono dopo l’estinzione del ramo imperiale della dinastia Rjurikidi (generatosi nel X secolo), con la fine del XVI secolo. Regnarono fino al 1917, quando vennero deposti durante la Rivoluzione “costituzionale” di febbraio: molti di loro furono uccisi dopo la Rivoluzione d’Ottobre ad opera dei bolscevichi, mentre la parte restante fuggì all’estero, soprattutto in Francia, Inghilterra e Stati Uniti, perlopiù andando a rimpolpare le schiere di una nuova destra di mobilitazione, molto aggressiva, che avrebbe contribuito a dare i natali al neonato fascismo, dai tratti antisemiti. Tanto per intenderci: per parte loro, nessuna nostalgia, semmai molto revanscismo, letteralmente con il sangue alla bocca. Furono infatti questi stessi ambienti a contribuire ad alimentare il mito, devastante, di un «giudeo-bolscevismo», quello per cui il comunismo russo sarebbe stato il prodotto “etnico” dell’ebraismo, una sorta di risultante del «complotto dell’internazionalismo giudaico» contro le società naturali, quelle legate alla terra, al sangue, alle dinastie regali. In altre parole, di una devastazione satanica dell’ordine divino in terra.
Se la vita quotidiana degli ebrei era, fino al 1917; estremamente dura, il senso di appartenenza comunitario rimaneva relativamente saldo. Diffuse erano le Yeshivot («sedute» come anche «sessioni»), istituzioni educative ebraiche permanenti, di fatto scuole esclusivamente maschili, basate sullo studio dei testi religiosi tradizionali, dove gli uomini potevano ottenere una formazione che, per alcuni di loro, proseguiva sotto la guida dei rabbini più prestigiosi. L’insieme delle strutture comunitarie garantiva una sorta di precaria continuità nell’esistenza dei molti. Non pochi giovani venivano invece obbligati al lunghissimo servizio di leva, previsto dall’esercito zarista, rimanendo separati dalle loro famiglie per tutta la loro gioventù. Altri, riuscivano ad accedere ai luoghi di istruzione misti ma potendovi partecipare solo ed esclusivamente in misura molto limitata: la percentuale di studenti ebrei – infatti – non poteva superare il 10% all’interno della Zona, il 5% al fuori e il 3% nelle città capitali (Mosca, San Pietroburgo, Kiev). Un suggello della marginalità, poiché sanciva legalmente l’impossibilità, per la quasi totalità degli ebrei, di emanciparsi dalle abituali condizioni di abiezione. Prassi, quest’ultima, assai diffusa all’epoca, un po’ ovunque. A volere dire: i ricchi con quelli del loro ceto, gli altri, una volta per sempre, consegnati alla loro ancestrale condizione. Come se fosse un ordinamento del Cielo e non degli uomini. In quanto dietro al conflitto etnico, alle identità religiose, al radicamento sociale si celava invece la gelosa preservazione delle feroci asimmetrie non solo di ricchezza bensì di potere.
Malgrado (o forse grazie) le difficili condizioni in cui la popolazione ebraica viveva e lavorava, nella Zona di residenza coatta, fiorirono peraltro le corti delle dinastie chassidiche. Le quali furono poi celebrate nella letteratura pervenuta fino a noi, a partire, in traduzione, da quella dei fratelli Singer, come un’epopea degna di notevoli considerazioni. In una sorta di nostalgia che esula dalla vita reale di allora. Migliaia di seguaci di maestri chassidici, peraltro, accorrevano in massa nelle grandi città per le feste ebraiche, rifacendosi, nella vita quotidiana, alle osservanze religiose, liturgiche e di condotta dettate dal loro magistero. Impossibile, per parte nostra, esprimere un giudizio definitivo (diacronico, ossia sfasato rispetto ai tempi) a tale riguardo: l’ebraismo politicizzato, quello liberale, populista, socialista, sionista e poi comunista, avrebbe liquidato il tutto come un insopportabile residuo di false credenze, un insieme di superstizioni. Sta di fatto che per una parte delle società ebraiche di allora fosse qualcosa a cui aggrapparsi per non scomparire, ossia per non essere sommerse dagli incipienti processi di modernizzazione: l’ingresso violento e potente della modernità; l’industrializzazione; la secolarizzazione dei costumi e delle relazioni sociali; la frantumazione progressiva della comunità di appartenenza e delle stesse famiglie; la pronunciata urbanizzazione e così via.
Durante la Prima Guerra mondiale (1914-1918) i confini della Zona diventarono meno rigidi quando un gran numero di ebrei scappò nell’entroterra russo per sfuggire all’invasione dell’esercito tedesco. Con il quale, peraltro, coloro che erano rimasti, spesso condivisero più di quanto avevano invece temuto di dovere abbandonare. Un idioma similare, lo yiddish, basato su un’intelaiatura di lingua e grammatica tedesca (con molteplici commistioni da parte di altre lingue perlopiù mitteleuropee), rese assai meno tragico l’incontro con le truppe del Kaiser Guglielmo II di quanto non sarebbe invece successo tra il 1941 e il 1944, quando invece ebbe corso uno sterminio inimmaginabile. Il 20 aprile 1917 la Zona coatta fu peraltro abolita dal decreto del Governo provvisorio russo, di estrazione liberale, che aveva statuito «sull’abolizione delle restrizioni confessionali e nazionali». Si trattava di un estremo tentativo, tra gli altri, di evitare il precipizio nel quale l’intera Russia stava cadendo, con una guerra civile incipiente. Un’ampia parte della Zona, insieme alla sua popolazione ebraica, diventò quindi parte della nuova Polonia. Anche la Rivoluzione d’Ottobre, insieme ai suoi successivi sviluppi, insieme alle tante guerre civili del periodo 1918–1921, diedero luogo a molti pogrom. Soprattutto per parte delle truppe bianche, i nutriti gruppi di militari lealisti, rimasti fedeli ai Romanov, ora appoggiati dalle potenze europee, che cercavano di contrastare il consolidamento dei bolscevichi al potere. I comunisti non erano teneri con gli ebrei, ma non li valutavano come gruppo etnico, giudicandoli semmai rispetto alle concrete condotte; gli anticomunisti, invece, nutrivamo una visione apocalittica, una concezione che anticipava la ferocia che poi i nazisti avrebbero portato a compimento.
Ricostruito, sia pure sommariamente, il quadro storico di riferimento, la discussione sulla «questione ebraica» all’interno del movimento operaio prima, e nell’Unione Sovietica poi, deve quindi confrontarsi con una serie di elementi che erano intervenuti a cavallo tra i due secoli e che interessano direttamente l’ebraismo dell’Europa orientale: il ritorno dell’antisemitismo come strumento di governo delle collettività e quindi il suo diffuso uso politico; il sorgere e il diffondersi del movimento sionista; la politicizzazione dello stesso mondo ebraico a partire dalle sue élite intellettuali; l’adesione di un rilevante numero di ebrei al socialismo e lo sviluppo di associazioni operaie ebraiche. In tali condizioni, la praticabilità dell’emancipazione liberale così come si era invece prodotta in Occidente, risultava improponibile. Ancora secondo il censimento del 1897, l’ultimo disponibile prima degli eventi del 1917, gli appartenenti alla religione ebraica che vivevano nell’Impero russo erano 5.500.000; di questi solo per l’1% il russo era la propria lingua madre, mentre per il 97 % l’yiddish.
Le tendenze politiche più diffuse fra gli ebrei rimanevano il sionismo (traducibile, approssimativamente, come nazionalismo ebraico) ed il socialismo. Il populismo, molto popolare tra le masse russe, era sostanzialmente secondario poiché si rifaceva alle presunte “radici rurali” della Russia profonda, attribuite pressoché integralmente ai contadini (quasi tutti non ebrei). Gli aderenti ai vari movimenti sionisti erano circa 300.000 al momento dello scoppio della rivoluzione. Vi era anche il partito socialista ebraico, il Bund, in origine molto diffuso ma poi destinato ad essere assorbito all’interno del Partito operaio socialdemocratico russo – il Posdr. In quest’ultimo, gli ebrei erano presenti soprattutto fra i menscevichi, la componente che sarebbe stata poi sopraffatta da quella bolscevica. A fronte della ossessiva ostilità delle autorità zariste (che consideravano gli ebrei russi come dei nemici, ovvero degli infiltrati dall’esterno), la Rivoluzione del febbraio del 1917, con la fine della linea di discendenza dinastica, fu accolta con sollievo immenso. Il Governo provvisorio abolì subito ogni forma di restrizione per gli ebrei (era il 20 marzo 1917). Cominciò così un periodo di circa due anni di rinascita culturale per gli ebrei in cui sembrò che nel nuovo Stato vi sarebbe realizzata l’uguaglianza e l’autonomia di tutte le nazionalità. Era tuttavia solo un inganno delle circostanze.
(1 – continua)
Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.
B”H
Sempre grato dei tuoi studi e commenti, invierò a pittrice russa dell'”hinterland” milanese che è nazionalista negatrice delle persecuzioni russe antisemite e contemporaneamente ascoltava qualche lezione del rabbino “Habad” Rodal, anni fa…( noi ci intravvedemmo molti anni fa a Milano a “Lev Chadash”)
shalom lechà ve chol ha chavod !
Franco Mascolo – ex insegnante – Milano