“Il tema dell’annessione ha risvegliato in molti di noi la necessità di prendere parola e unirci alle numerose voci della diaspora e del mondo che hanno espresso una forte e sincera preoccupazione a riguardo”
Il 14 luglio Joimag ha pubblicato il testo di una lettera messa a punto da un gruppo di giovani ebree ed ebrei italiani. La lettera esprime l’opposizione al piano di annessione di parti della Cisgiordania previsto dal governo israeliano.
Per approfondire il tema, abbiamo posto quattro domande ai promotori dell’iniziativa.
Vi siete costituiti come gruppo unicamente per redarre questa lettera o avete in prospettiva progetti più ampi?
Il gruppo è nato perché abbiamo sentito la necessità di trovare uno spazio nuovo e libero e di contribuire al dibattito interno alle nostre comunità ebraiche e alle società di cui facciamo parte con una voce diversa in merito alla questione israelo-palestinese. Il tema dell’annessione ha risvegliato in molti di noi la necessità di prendere parola e unirci alle numerose voci della diaspora e del mondo che hanno espresso una forte e sincera preoccupazione a riguardo. Abbiamo in mente progetti per il futuro, ma la nostra priorità al momento è quella di formarci internamente, perché, come scritto nella lettera, siamo un gruppo eterogeneo, costituito da individui con sensibilità politiche e religiose differenti e per questo per prima cosa vorremmo trovare il modo di identificarci tutti in un obiettivo comune.
C’è una ragione specifica per cui non avete aderito alla rete J-Link?
L’appello di J-link ha il merito di aver creato una rete globale, noi volevamo, in un primo momento, aprire un dibattito e portare il nostro contributo all’interno delle singole comunità di cui facciamo parte. Diamo valore e riconosciamo come vicine le varie iniziative nella diaspora che si sono espresse contro l’annessione. Noi e J-link, in questa situazione, abbiamo lo stesso obiettivo: opporsi al progetto di annessione israeliana di parte dei territori palestinesi. Nonostante ciò, abbiamo sentito la necessità di creare un nuovo gruppo e non di aggiungerci ad altri già esistenti perché non ci riconosciamo totalmente in nessuna delle realtà dell’attivismo ebraico italiano esistite fin qui (con il dovuto rispetto per chi, da anni, si dà da fare e porta avanti un lavoro prezioso). Inoltre, nell’appello di J-Link si prende chiara posizione a favore della “soluzione due stati-due popoli” su cui il nostro gruppo ancora non si è espresso in maniera unanime e che non possiamo, quindi, condividere.
In termini di conseguenze immediate, che cosa comporterebbe il cosìdetto “deal of the century”?
A partire dal Primo luglio, Israele avrebbe dovuto avviare l’annessione del 30% dei territori della Cisgiordania. Sulla base di questo accordo è nata la coalizione che ha restituito a Netanyahu l’incarico di capo del governo di unità nazionale israeliano. Questo progetto, non ancora avviato, si inserisce all’interno del più ampio “Deal of the century” proposto dal presidente Trump che è concepito su presupposti ingiusti. Con la promessa di abbondanti finanziamenti, i palestinesi si ritroverebbero a vivere senza diritti civili e politici in uno Stato, quello israeliano, che non li riconoscerebbe come cittadini. In altre zone nascerebbe uno Stato palestinese costituito da cantoni diversi uniti tra loro da ponti o tunnel. Una finta promessa che riguarda la costituzione di uno Stato senza continuità territoriale e senza la possibilità di sorvegliare i propri confini.
Considerate l’annessione unilaterale di porzioni della Cisgiordania una violazione del diritto internazionale. Potreste entrare nel dettaglio di queste violazioni?
Non siamo un gruppo di giuristi e non è nostra volontà avviare un dibattito di natura legale in merito allo status dei territori. Tuttavia ci sono alcune evidenze che è importante sottolineare. Ad oggi i territori della Cisgiordania sono amministrati da un regime militare. Gli organi giuridici della comunità internazionale riconoscono che si tratta di territori occupati il cui status finale deve essere stabilito nel contesto di negoziati bilaterali che definiscano i dettagli delle disposizioni di sicurezza e i confini di ambo gli stati. Il governo e la Corte Suprema israeliani stessi hanno applicato le norme internazionali di forza occupante nel governare i suddetti territori, riconoscendo implicitamente che si tratta di territori occupati. Per sua natura, il regime di occupazione limita drasticamente i diritti e le libertà del popolo occupato e dovrebbe essere una condizione provvisoria. L’annessione unilaterale di qualsiasi parte dei territori occupati violerebbe la norma fondamentale che vieta l’annessione di un territorio invaso con la forza, anche se in seguito a un atto di difesa. Inoltre il progetto di annessione negherebbe il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese. A sostegno di questa tesi si possono leggere numerosi pareri, tra cui, oltre a quello del Segretario Generale delle Nazioni Unite, quello dei 47 esperti di diritto internazionale ascoltati dalla Commissione dei diritti umani delle Nazioni Unite, o l’appello di 271 professori di diritto internazionale di tutto il mondo tra cui moltissimi professori ebrei o israeliani. Il progetto di annessione consoliderebbe la condizione in cui i cittadini israeliani godono di pieni diritti civili e politici, mentre la popolazione palestinese, all’interno di quei territori, non può esercitare i diritti più basilari e in particolare il diritto alla proprietà, l’accesso all’acqua e la libertà di movimento.
Lea Airoldi, Bianca Ambrosio, Amanda Assin, Ruben Attias, Giorgio Berruto, Michael Blanga-Gubbay, Sara Buda, Giorgia Calò, Enrico Campelli, Teodoro Cohen, Daniel Damascelli, Sara De Benedictis, Daniel Disegni, Aliza Fiorentino, Alessandro Fishman Rotmensz, Benjamin Fishman, Michael Hazan, Gaia Litrico, Micol Meghnagi, Jonathan Misrachi, Bruno Montesano, Susanna Montesano, Yael Pepe, Dana Portaleone, Susanna Portaleone, Emanuel Salmonì