Questione di pelle, di violenza, di odio. Una riflessione sul dialogo nella recensione al film presentato alla Mostra del cinema di Venezia
Salvereste la vita a un uomo scoprendo che ha un’enorme svastica tatuata sul petto? Il protagonista di Non odiare, il film di Mauro Mancini presentato alla Mostra del cinema di Venezia e appena arrivato nei cinema, si trova di fronte a questo dilemma. Si chiama Simone Segre, è un chirurgo di origine ebraica (interpretato da Alessandro Gassman) che, tornando da un allenamento di cannottaggio, si ferma a soccorrere uno sconosciuto vittima di un pirata della strada. Appena vede quel tatuaggio, però, non riesce a fare altro che lasciarlo al suo destino. L’ambulanza arriva troppo tardi. Il senso di colpa inizia a scavargli dentro. E per gli spettatori è inevitabile chiedersi: che cosa avrei fatto al posto suo? È inevitabile pensare che l’uomo potrebbe essere uno di quei nostalgici che riempiono le pagine di cronaca nera, pronti a colpire chi ha idee o anche solo la pelle diversa dalla propria. Potrebbe essere uno degli esaltati che hanno pestato a morte Willy Monteiro Duarte, il 21enne di Colleferro, vicino a Roma, ucciso la notte tra il 5 e il 6 settembre.
Ma torniamo al film. Segre è un medico affermato, vive solo in un bell’appartamento, sembra non avere legami con le sue radici e non sembra osservare la religione del padre, sopravvissuto a un campo di concentramento. Dopo l’incidente segue e trova i tre figli del neonazista di cui quello adolescente, Marcello, sembra aver ereditato l’aggressività e l’ideologia. Il regista accompagna le mosse del chirurgo senza spiegarne gli obiettivi, lasciando intuire il suo senso di colpa dietro i silenzi, i dubbi seguiti all’incidente. Finché Segre assume come colf Marica, la primogenita del defunto, senza dire nulla delle motivazioni che l’hanno spinto a chiamarla. Poi verrà presto preso di mira dal fratello di lei, che ne scopre le origini ebraiche.
Con le atmosfere di un film indipendente, e il vago sapore di un giallo, Non odiare affronta il tema della memoria raccontando la realtà di oggi e un’Italia dove la violenza si ripresenta con forme e simboli che non dovrebbero avere cittadinanza. Ma immagina persone che possano andare oltre l’odio. «La storia prende spunto da un fatto di cronaca avvenuto a Paderborn, in Germania: un medico ebreo si era rifiutato di operare un paziente a causa del tatuaggio nazista che aveva sulla spalla dicendo che non poteva “conciliare l’intervento con la sua coscienza”» racconta il regista Mauro Mancini.
Coincidenza vuole che anche l’attore Alessandro Gassmann sia di origine ebraica: lo era la nonna Luisa Ambron di Pisa (il nonno Heinrich, padre di Vittorio Gassmann, era un tedesco di Karlsruhe). Una motivazione in più per accettare il ruolo? «In realtà è stato il copione a emozionarmi: è una storia rarefatta, che racconta bene quest’epoca in cui tutti odiano tutti, in politica e non solo» ha risposto il 55enne attore romano che negli ultimi anni si espone molto sui social con le sue opinioni. «Chi non la pensa come noi diventa un nemico da abbattere, non un avversario da affrontare con il dialogo. Il nostro paese sembra aver perso l’equidistanza: da un lato c’è chi odia gli immigrati e i diversi, dall’altro chi vorrebbe accogliere tutti, per fare solo un esempio. Non ascoltiamo chi la pensa diversamente. Scagliare slogan è fin troppo facile e in questo clima è durissimo informarsi, crescere, educare». È quello che fa il protagonista del film che, proprio per questi motivi, ha avuto una gestazione di cinque anni, come racconta il produttore Mario Mazzarotto: «In un periodo in cui l’Italia e l’Europa sono attraversate da inquietanti venti nazionalisti, ho perseverato di fronte alle difficoltà. Il film, senza voler dare risposte, ci aiuta a interrogarci sulle origini della xenofobia e le sue conseguenze. E anche sulle contraddizioni dell’animo umano». Una trama che può far riflettere chiunque provi odio, per qualunque motivo o identifichi qualcuno come “nemico”.
E se il titolo del film è come un manifesto, se non un comandamento, la storia indica un percorso. «“Non odiare” racconta quello che siamo sotto la pelle. La pelle bianca, ’ariana’, che vorrebbero avere i neonazisti e quella bianca, ’non ariana’, di Segre» dice il regista. «La pelle scura, spaccata dal sole che picchia sui barconi delle traversate, e quella ‘sporca’ dei disperati ai semafori. La pelle delle nostre città. Quella pelle che è anche il pretesto per riconoscere l’altro, e odiarlo, come diverso».