Una storia di calcio, razzismo e gruppi ultras xenofobi. Che spesso usano lo sport come copertura per attività illecite
«Lo sappiamo, non tutti i giocatori arabi sono terroristi ma non metteteli nella nostra squadra». Così, un tifoso del Beitar Gerusalemme (Moadon Kaduregel Beitar Yerushalayim, il «Club calcistico del Beitar Gerusalemme») quando, nel febbraio del 2013, dopo l’acquisto dei calciatori russo-ceceni Dzhabrail Kadiyev e Zaur Sadaev, ambedue musulmani, iniziarono gli allenamenti, esplosero i malumori per la loro presenza. Nutriti gruppi di tifosi si presentarono ai bordi del campo per protestare animatamente, insultando i due atleti e cercando di divellere le reti di protezione. L’intervento degli addetti alla sicurezza non placava gli animi. L’invito rivolto ai due atleti ad andarsene si accompagnava ad urla e strepitii, conditi da richiami sulla necessità di muovere «guerra», evidentemente a ciò che si riteneva che i due incolpevoli giocatori rappresentassero, ossia l’intero mondo musulmano (l’appellativo di «arabo» assumeva da subito, in quella come in altre circostanze, una connotazione chiaramente dispregiativa). Poco dopo, nel mese di marzo dello stesso anno, quando il Beitar si trovò ad affrontare una partita molto importante con il Maccabi Netanya al Teddy Kollek Stadium di Gerusalemme (meglio conosciuto come Teddy Stadium), il direttore sportivo della squadra, Eli Cohen, ricevette la comunicazione da parte dei capigruppo della tifoseria che tutti i biglietti erano stati acquistati ma che se avesse partecipato all’incontro la maglia numero 13, indossata da Sadaev, «tutto sarebbe potuto andare male». Minacciosamente, il messaggio si concludeva con le parole: «la scelta è nelle tue mani».
L’allora ministro degli Esteri Avigdor Lieberman, presente allo stadio, intervistato affermava che il «Beitar è indubbiamente il cuore duro di un movimento nazionale, quello dell’ala destra. Specialmente a Gerusalemme e nelle sue periferie, dove è maggiormente popolare, può contare su un consenso maggiore, amando il paese e il popolo d’Israele. Beitar è la squadra del popolo. Ha sempre rappresentato la protesta contro l’establishment. Si tratta di ciò che la collettività da sempre percepisce del team». Significativo che a parlare di lotta contro le élite ne fosse uno dei maggiori esponenti. Nel mentre, l’urlo della tifoseria «Guerra! Guerra!» accompagnava il riempirsi degli spalti. Nel classico clima sovraeccitato, tra grida, cori, invettive ed altro ancora, quando Sadayev segnò, mentre la parte restante dei presenti esultava, la nutrita pattuglia di tifosi ultras del Beitar, immediatamente riconoscibile per i simbolismi di identificazione (sciarpe, bandiere, maglie, striscioni) si alzò teatralmente, abbandonando i propri posti in segno di protesta. Il ministro Lieberman, a sua volta in piedi, però per acclamare il goal, fu investito da una serie di urla scomposte. Una parte dei presenti gli chiedeva polemicamente: «come puoi sostenerli? Dove sono finiti i tuoi principi? Dove sta la tua politica? È tutto rovinato in un secondo, sei un figlio di puttana».
Il documentario di Maya Zinshtein: Forever Pure – Football and Racism in Jerusalem
Lo scenario corale, quello che si stava consumando in un grande stadio, aveva assunto i contorni della più assoluta irrealtà: a fronte della vittoria della squadra, i suoi sostenitori più accaniti se ne andavano, ripetendo il rito dei fischi, a questo punto rivolti anche contro le tribune delle autorità. Nel mentre Lieberman mostrava di masticare amaro (una telecamera era rivolta verso di lui, rivelando un volto livido e imbarazzato), gli speaker commentavano che «una cosa così non si è mai vista; i fan non accettano che a segnare sia stato un musulmano ceceno». Yitzhak “Itzik” Kornfein, general manager e team leader (il commissario tecnico, per intendersi) della squadra, era a sua volta pallido. Un tic del muscolo facciale tradiva la tensione che lo stava accompagnando. Nel mentre, una pattuglia di ultras rimasti sugli spalti esponeva lo striscione con quello che è il vero slogan di riferimento, «Beitar per sempre puro». Di lì a poco, chiamato in causa dai mezzi di informazione israeliana, lo stesso Korenfine avrebbe detto che il senso di quelle parole «significa liberi dagli arabi». Aggiungendo poi che «sono irrilevanti le posizioni [politiche] o l’ideologia; come ebrei non si possono usare queste espressioni. In ragione del passato. Poiché una tale manifestazione è pessima. È intollerabile». Parole sottoscrivibili, tuttavia gettate al vento. In quanto Kornfein, destinatario di ripetute minacce, perlopiù a sfondo sessuale, avrebbe dovuto riconoscere che il volto oscuro di alcuni “tifosi” esprimeva un forte tasso di violenza presente, sia pure in forma più mediata, in certe parti della società nazionale.
Lo stesso presidente d’Israele, Reuven «Rubi» Rivlin, acceso tifoso del Beitar, sempre più perplesso e recalcitrante, un anno dopo avrebbe poi rievocato il fatto – che aveva avuto un forte impatto d’immagine – affermando che «eravamo seduti in tribuna, come autorità ed anche sostenitori del Beitar, guardando cosa stesse succedendo di fronte e ai nostri lati; allora ho detto: “ragazzi, quanto sta succedendo sugli spalti orientali non è per nulla buono ed il nostro silenzio legittima [quelle condotte]. Facciamo attenzione, siamo i leader della comunità e del governo! Spesso ignoriamo ciò, per non fare arrabbiare la folla”». L’anno successivo, a seguito di una nuova ondata di violenze e di tentati attacchi terroristici per parte palestinese, diversi militanti del Beitar animarono una marcia non autorizzata dalle autorità, e respinta con forza dalla polizia, urlando «morte agli arabi». Cercavano lo scontro con alcuni di essi. Ai tentativi delle forze dell’ordine di disperdere la folla, diversi partecipanti intonarono cori dove recitavano strofe come «odio l’Hapoel e il Maccabi [squadre avversarie, n.d.r.], il mio cuore è giallo-nero, vai Beitar vogliamo vederti combattere». Le invettive si estendevano alla stessa polizia, vista come un nemico. La tenuta dei molti, spesso giovanissimi, era quella tipica dei gruppi organizzati in unità di scontro: abbigliamento informale, scarpe da ginnastica, capelli cortissimi se non a spazzola, segni di distinzione visibili, indossati sopra gli abiti civili o fatti aderire al corpo, come dei tatuaggi. Il copione, a sua volta, era sempre lo stesso: in un clima di totale sovra-eccitazione, tra persone che correvano in gruppo verso qualcosa o qualcuno, in mezzo al disordine del momento, gli strepitii e i cori aggressivi e volgari si accompagnavano ai maniacali tentativi di colpire qualcuno o qualcosa. La commistione tra competizione calcistica e rivendicazione della militarizzazione degli animi non piaceva in alcun modo alle autorità. Ma a quel punto, la frittata era già stata fatta. Da tempo. Quale frittata e da quanto tempo, però?
Partiamo dalle premesse: il Beitar è una società calcistica con sede nella capitale. Milita nella massima serie del campionato nazionale di calcio, la Ligat ha’Al (la Ligat Japanika, così conosciuta per ragioni di sponsorizzazione, costituendo il più elevato livello professionistico calcistico). I colori sociali sono il giallo ed il nero. Viene soprannominata anche La Menorah per via del suo logo. Dal 1991 lo stadio societario è il Teddy Kollek (il nome di uno dei più noti sindaci della città, che la governò dal 1965 al 1993; la struttura arriva agli oltre 31mila posti a sedere), che condivide con l’Hapoel Yerushalaim e l’Hapoel Katamon, dopo avere utilizzato un altro impianto, quello della Young Men’s Christian Association, che ha alle spalle una storia di lunga durata ma che è da sempre al di sotto degli standard delle squadre di Lega maggiore. Istituita come società sportiva nel 1936, quando ancora lo Stato d’Israele non era ancora nato, per volontà di Shmuel Kirschstein e David Horn, fu per diverso tempo una formazione minore nel panorama atletico e calcistico nazionale. Peraltro, tra il 1920 e il 1948 molti di coloro che successivamente entrarono nel Beitar come atleti o dirigenti, avevano fatto parte, come membri attivi, di gruppi militari e paramilitari nella lotta contro gli inglesi e le milizie arabe. Per un tale motivo, prima dell’Indipendenza d’Israele, la squadra fu esclusa da qualsiasi tipo di competizione sportiva ufficiale nel corso di diversi anni. Quando le fu permesso nuovamente di ritornare in attività, il Beitar fece del suo passato, come della medesima squalifica, elementi fondamentali della propria identità, che di conseguenza influenzarono la propria tifoseria e i futuri settant’anni di storia del Club. Oggi il Club stesso è inscindibile dalla sua tifoseria e la tifoseria, a sua volta, rivendica una netta matrice politico-culturale. Rimane tuttavia il fatto che solo con la fine degli anni Sessanta il Beitar assumesse la fisionomia di una squadra di primaria grandezza, giungendo poi a vincere diversi campionati, coppe e supercoppe nazionali. Già all’epoca i suoi tifosi erano ritenuti violenti e di difficile gestibilità. Nel 1977, con l’ascesa al governo del Likud, posto che diversi suoi molti membri erano già tifosi della squadra, questa ne guadagnò di popolarità. Anche da ciò, l’avvio di un periodo vincente nella sua storia.
Fin qui l’aspetto più strettamente storico. Come molte delle organizzazioni sociali israeliane di antica origine, anche il Club non sfugge ad una qualche affiliazione politica di vecchia data. La sua adesione all’omonimo movimento Betar, infatti, data all’anno stesso in cui la squadra fu istituita. Il Betar (traslitterabile anche in Beitar; per distinguere il movimento politico dalla squadra usiamo i due diversi grafemi), è il movimento giovanile del Partito revisionista, organizzazione dalla quale figliarono poi i gruppi politici più importanti della destra ebraica. Si tratta di una storia che si inserisce dentro la viva carne del movimento sionista. Solo qualche pillola al riguardo, affinché il lettore ne possa beneficiare. Nel gennaio del 1923, Vladimir Ze’ev Jabotinsky, uno dei suoi maggiori esponenti, in opposizione al «Libro bianco» di Churchill, che regolava l’ingresso di immigrati ebrei nella Palestina mandataria, si era ritirato dall’esecutivo dell’Organizzazione sionistica, accusata di eccessiva debolezza nei confronti degli inglesi come degli arabi. Negli anni successivi, aveva poi dato vita prima al Betar poi, nel 1925, alla World Union of Zionist Revisionist (l’«Unione mondiale dei sionisti revisionisti»). Il richiamo alla parola «revisione» demandava espressamente alla richiesta di rivedere la condotta del movimento su alcune questioni ritenute insindacabili (terra, indipendenza, autodifesa), enfatizzandone l’aspetto politico e militare, chiedendo la costituzione di uno Stato ebraico sulle due rive del Giordano – shelemut ha-moledet («l’interezza della patria») – e opponendosi all’indirizzo politico laburista sostenuto dalla maggioranza, ben più proclive alla mediazione con inglesi (e gli stessi arabi). Nel 1935, in opposizione alla World Zionist Organization, Jabotinsky costituì a Vienna la New Zionist Organization (la «Nuova organizzazione sionista»). Il leader revisionista, oltre ad avere disegnato l’ossatura ideologica della destra storica in Israele, fu quindi anche il padre del movimento giovanile Betar (per meglio dire BéTaR, acronimo di Brit Trumpeldor, l’ «Alleanza Trumpeldor») e dell’Irgun Tsvai Leumi, la milizia armata della destra militante. Negli anni successivi alla morte di Jabotinsky, avvenuta nel 1940, Menachem Begin, suo diretto successore, avrebbe assunto le redini dell’Irgun, fino alla eliminazione di fatto, da parte di Ben Gurion, della stessa organizzazione. Per le elezioni della prima Knesset, nel giugno del 1948, Begin fondò il partito Herut («Libertà») che nelle quattro tornate successive, fino al 1965, non riuscì mai a superare la soglia dei 17 seggi, pur essendo più volte il secondo partito alla Knesseth. Begin rimase il leader indiscusso dell’Herut, dalla nascita fino alla sua confluenza nel Likud. Ma questo è già un altro discorso.
Il Betar, in origine, era un’organizzazione pionieristica che si rifaceva all’esempio del sacrificio di Yosef Trumpeldor, morto nel 1920, insieme ai suoi compagni di lotta, nella difesa dell’insediamento di Tel Hay dall’assalto di un gruppo di arabi. Fondata dopo la Grande guerra e affiliatasi al movimento revisionista, aveva il suo centro, antecedentemente alla Seconda guerra mondiale, in Polonia, negli Stati Baltici così come, anche se in misura minore, nella stessa Palestina. I suoi aderenti, nel 1939, erano intorno agli 80mila. Per prepararli all’emigrazione, il Betar istituì centri di formazione sia professionale che militare. La sua ideologia, fortemente antisocialista, portò alcuni suoi membri allo scontro fisico con gli appartenenti all’Histadrut, la centrale politico-sindacale che di fatto ebbe una funzione strategica nella creazione delle istituzioni che avrebbero poi dato corpo allo Stato d’Israele nel 1948. Il movimento giovanile, con tutta probabilità, fu inoltre implicato nell’assassinio del leader laburista Haim Arlosoroff, il 16 giugno 1933. Con la formazione dell’Irgun e, successivamente, del Lehi (posto poi fuorilegge), il Betar ne divenne strumento di reclutamento, pur essendo dichiarato illegale dalle autorità mandatarie. Durante la guerra partecipò alla lotta contro i nazisti e dopo la nascita dello Stato d’Israele fondò più di 20 colonie rurali. A tutt’oggi mantiene una presenza diffusa in alcuni paesi (Australia, Canada, Regno Unito, Stati Uniti, Sudafrica, Brasile, Argentina, Uruguay, Ucraina), occupandosi della formazione giovanile. La presenza in Italia è molto limitata, trattandosi perlopiù di un piccolo insediamento culturale.
Se questo excursus riassume il backstage storico, ne deriva che, posti i legami molto intensi che il Beitar Gerusalemme – in quanto squadra di calcio – intrattiene con la destra revisionista, poi conosciuta come «campo nazionale» (di contro a quello della pace, composto dalla sinistra), molti dei suoi sostenitori votino da sempre per i partiti che compongono quella parte dell’arco politico. In particolare con il Likud e Yisrael Beiteinu. Ma anche con altre formazioni minori, assimilabili alla destra radicale, quand’esse si sono presentate alle elezioni. Benjamin Netanyahu, e molti anni prima di lui Reuven Rivlin, non hanno mai disdegnato di partecipare alle attività sociali della squadra, portando non solo il loro saluto ma anche una sorta di investitura politica implicita, quasi a volere dire che fosse quest’ultima a dare forza alla loro posizione istituzionale. Da molto tempo il Club calcistico riceve critiche per il fatto di non avere tesserato giocatori arabi. Sia la dirigenza che i tifosi si sono attirati l’accusa, spesso confutata con scarsa convinzione da parte dei diretti interessati, di essere «razzisti» Prima del caso di Kadiyev e Sadaev, musulmani ma non arabi, nel 2005 era stata la volta del nigeriano Ndala Ibrahim, anch’egli islamico, che si era ritirato dopo avere subito forti pressioni da parte del pubblico (passando poi velocemente al Maccabi Tel Aviv).
Nel 2019, con l’acquisto di Ali Mohamed, centrocampista nigeriano di confessione cristiana, una parte dei tifosi che per nulla gradivano il suo nome “musulmano” hanno avanzato una formale richiesta affinché il giocatore lo mutasse. Sta di fatto che, dinanzi alla sua prevedibile indisponibilità, le sue discese in campo sono state puntualmente accompagnate da ripetute manifestazioni di conclamato razzismo provenienti dagli spalti. E questo benché la gerenza della squadra lo abbia difeso in più di una occasione, arrivando infine a minacciare querele e azioni legali contro i suoi detrattori. La colorita ostilità, che in ben più di una occasione ha cercato di andare ben oltre le invettive e i gesti di maniera, a tutt’oggi si manifesta anche contro i calciatori arabi, musulmani e di colore di altre squadre (con conseguenti sanzioni da parte dell’Israel Football Association, che fa parte della UEFA), arrivando letteralmente a tracimare in ambiti che di calcistico e sportivo non hanno nulla. Anche per questa ragione le rivalità tra molti dei tifosi del Beitar e quelli di altre squadre del campionato israeliano, come l’Hapoel Tel Aviv, l’arabo-israeliana Bnei Sakhnin (unica squadra in premier league), il Maccabi Haifa, l’Hapoel Gerusalemme e l’Hapoel Katamon, possono raggiungere il calor bianco. Per i “giallo-neri” tutto quello che esula dal loro nazionalismo identitario è un tradimento del proprio Paese: rapporti con il mondo arabo, ipotesi di negoziazione con i palestinesi, voto a favore dei partiti della sinistra, del centro-sinistra e degli stessi partiti del centro come Kahol Lavan ma anche appartenenza a quei ceti sociali benestanti che, populisticamente, sono visti come “nemici” degli interessi della popolazione meno avvantaggiata. Quella che da sempre lo stesso Football Club ritiene di rappresentare direttamente, concependosi come una sorta di organismo collettivo, che farebbe gli interessi di quegli israeliani che si sentono scarsamente considerati dalle autorità “non amiche”. Contro le quali, invece, il profluvio di intemerate è continuo.
Il fuoco della riflessione, si sarà inteso a questo punto della riflessione, non riguarda solo la squadra in se stessa bensì la sua più accesa tifoseria. L’una e l’altra condividono peraltro il fatto che siano composte da elementi che provengono da strati sociali omologhi, ovvero perlopiù da israeliani di estrazione popolare. Entra qui in gioco il gruppo ultras conosciuto come «La Familia». Il fatto che la dirigenza del Club si sia ripetutamente dissociata dall’operato di quest’ultimo, spesso con grande imbarazzo, e il suo apparente isolamento dal resto del mondo calcistico, non toglie nulla alla sua capacità di occupare stabilmente non solo gli spalti orientali del Teddy Kollek Stadium ma anche le cronache del Paese. Formalmente, le attività degli hooligans (tali sono considerati da buona parte dell’opinione pubblica come anche dalle autorità, a partire da quelle di polizia) prendono avvio nel 2005. Ma è un solo tornante, quello cronaca, non della storia. L’estremismo ultras ha una dimensione temporale molto più lunga. Quindici anni fa i nodi venivano al pettine, per così dire, essendo i tempi a quel punto maturi. La vera dimensione delle affiliazioni continuative, ossia il nocciolo duro dei “militanti” e con essi dei capipopolo, a tutt’oggi, peraltro cambia a seconda delle fonti e dei criteri per mapparle. Per una parte della stampa non superano il qualche centinaio (tuttavia ad esse va aggiunto un nutrito gruppo di simpatizzanti, la cui presenza è mutevole, in genere attivata dagli eventi calcistici così come anche dai disordini di piazza); per i leader del gruppo arrivano a 3mila supporter mentre per alcuni osservatori raggiungono il 20% dell’intera folla del Teddy Stadium, soprattutto quando il Beitar Gerusalemme gioca alcune partite ritenute decisive. È certo, tuttavia, che La Familia riesca comunque ad egemonizzare le attività di animazione durante le partite, arrivando a coordinare i canti e i cori, esponendo bandiere, striscioni e vessilli, urlando, fischiando e, non infrequentemente, minacciando i giocatori in campo. L’effetto di trascinamento è garantito.
La composizione del gruppo è fortemente caratterizzata sul piano etnico. I suoi militanti sono perlopiù discendenti delle famiglie che componevano le comunità sefardite e mizrachi, perlopiù espulse dal mondo arabo nel corso degli ultimi settant’anni. L’ipernazionalismo e l’etnicismo esasperato nasce anche da questa comune radice. Il concetto più volte ribadito è quello di «orgoglio ebraico», declinato nei termini di rivalsa contro coloro che considerano i loro persecutori. Ma anche nei riguardi delle stesse élite israeliane e di quelle istituzioni denunciate come indifferenti ai bisogni della “vera comunità”, quella di “popolo”. Più che il riferimento al sionismo, insieme di dottrine politiche, sociali e parte di un percorso culturale rispetto al quale i beitarim sono storicamente estranei, non essendone stati concreti protagonisti, si sentono gli aedi di una peculiare declinazione dell’identità israeliana, che rivendica uno spiccato separatismo (che diventa un suprematismo dai tratti deliberatamente razzistici) rispetto al mondo arabo. Anche da ciò, quindi, il ricorso a motteggi e a cori che hanno ad oggetto l’avversione verso il mondo musulmano. Che per parte loro continuano a definire come un insieme indistinto di «arabi». Non è infrequente, inoltre, che vengano esposti vessilli del partito Kach, di estrema destra, messo fuorilegge dalle stesse autorità israeliane nel 1994. Invettive come «Maometto è omosessuale» e «morte agli arabi» sono parte integrante del linguaggio volutamente offensivo e volgare che viene esibito ogniqualvolta si è in pubblico. La Familia, oltre ad animare la curva orientale, coltivando i classici rapporti che i grandi gruppi ultras incentivano tra i loro membri (relazioni interpersonali, sostegno economico reciproco, propaganda a favore delle propri posizioni, proselitismo ma anche, secondo una parte della autorità, propensione al cospirazionismo parapolitico, insieme a manifestazioni di vandalismo), ha più volte cercato di influenza le decisioni degli organismi societari del Beitar Gerusalemme, interferendo con le scelte della presidenza. La soglia di sbarramento, al momento invalicabile, è dettata dalla totale indisponibilità verso il tesseramento di arabi e musulmani. Nessuna obiezione, invece, è manifestata nei riguardi di giocatori cristiani. Questo, quanto meno, in linea di principio. Laddove la regola è stata infranta, i componenti de La Familia sono arrivati ai ripetuti boicottaggi delle partite, lasciando giocare la loro squadra pressoché da sola, con gli spalti della tifoseria vuoti, oppure insultandone il capitano, ritenuto responsabile, al pari della gerenza, di lasciare entrare in campo gli «arabi», fino all’attentato del 7 febbraio 2013 contro la sede del management, compiuto lanciando delle bombe molotov. Per quest’ultimo gesto, due imputati sono stati condannati dalla corte distrettuale di Gerusalemme nel maggio dello stesso, anche se hanno smentito di fare parte del gruppo ultras. Il portiere Ariel Harush, che più volte si era espresso contro le manifestazioni razziste, dopo un’incessante successione di bordate polemiche (ancora una volta un «traditore» in campo) da parte degli hooligans giallo-neri, ha lasciato la squadra, entrando a fare parte di altri Club (tra cui l’Hapoel Tel Aviv e giocando per la nazionale israeliana). Mentre la vera stella polare degli estremisti rimane il centrocampista Ofir Kriaf, che non ha mai nascosto le sue simpatie per La Familia. Forse, anche per questo è divenuto il più giovane capitano nella storia del Club.
A fronte dei ripetuti atti di vandalismo, il gruppo lascia a volte segnato il graffito LF (iniziali del proprio nome) anche se, dinanzi alle contestazioni delle forze dell’ordine, ha spesso negato qualsiasi responsabilità in proposito. Nel 2008, durante la celebrazione del minuto di silenzio in memoria di Yitzhak Rabin, il primo ministro assassinato nel 1995 da Yigal Amir, gli hooligans sono ripetutamente intervenuti fischiando e cercando di creare disordini. Così come nel 2011 si sono succeduti cori razzisti contro la presenza in campo del giocatore nigeriano Toto Tamuz. Durante l’anno successivo, all’abituale richiamo di «morte agli arabi» hanno quindi assaltato il Malha Mall, il centro commerciale della zona sud-occidentale di Gerusalemme, prendendo di mira i lavoratori arabi. Altri episodi si sono poi ripetuti nel corso del tempo, in un circolo vizioso tra provocazioni, violenze, repressioni (da parte delle autorità) e squalifiche temporanee comminate alla squadra calcistica. Diversi tifosi dei Beitar che non si riconoscono nel gruppo ultras, anche a causa di tali condotte si sono pubblicamente dissociati a più riprese dal suo operato.
Nel 2016 la polizia israeliana, dopo essersi infiltrata tra le file dei supporter, ha condotto un’operazione a vasto raggio durante la quale ha arrestato oltre cinquanta persone (tra le quali nove militari ed alcuni minorenni), accusate, a vario titolo, di possesso improprio o non autorizzato di armi (ritrovate in grande numero nelle loro case), di partecipazione a violenze preordinate (aggressioni di gruppo, interruzioni di pubblico servizio, reati contro il patrimonio), di tentata cospirazione nei confronti di appartenenti ad altri gruppi sportivi con intendimenti potenzialmente letali. Nei database dell’Interpol e delle polizie europee (Israele, con l’IFA, essendo associato alla UEFA, rientra nei gironi continentali), oltre che di quella di Gerusalemme, La Familia è qualificato come il gruppo più violento e problematico dell’hooliganismo israeliano, così come una delle più aggressive e xenofobe tifoserie dell’intera Europa. Durante la trasferte, si sono spesso ripetuti incidenti, provocati ad arte dai suoi supporter. Rimane il fatto che, al netto delle tante prese di posizione contro le violenze da parte degli organismi societari del Beitar, il rapporto che questi intrattengono con la tifoseria più estremista sia di sostanziale contiguità. In molte occasioni, gli ultras si sono potuti presentare come un fan club ufficiale, venendo inoltre spesso blanditi da esponenti del Likud e di Yisrael Beiteinu. Questi ultimi, a loro volta, si sono fatti fotografare o vedere in quella parte degli spalti del Teddy Kollek Stadium stabilmente occupati dal gruppo. Miri Regev, già ministra della cultura e dello sport ed ora dei trasporti, non ha mai fatto segreto della sua vicinanza. In un clima di ambiguità rispetto al discrimine tra simpatie agonistiche e sostegno politico, si sono quindi ripetute le accuse, avanzate da altre società calcistiche, rispetto alla compiacenza con la quale i membri della maggioranza di destra degli ultimi governi hanno tollerato le condotte aggressive e gli atteggiamenti razzisti, altrimenti perseguiti da polizia e tribunali, degli ultras.
Nel 2005, anno in cui fu fondata La Familia, il Beitar fu acquistato per il 55% delle quote societarie dal miliardario russo Arcadi Gaydamak, l’uomo dalle cinque nazionalità (russa, francese, israeliana, canadese e angolana), che poi ne assunse quasi subito la proprietà esclusiva. Con un investimento intorno ai cento milioni di dollari. Da sempre si dichiara scarsamente interessato al calcio in sé, tuttavia dichiarando che esso è fascinoso per una parte del pubblico poiché è «come una specie di guerra». Sulle origini del patrimonio e sulla natura delle fortune dell’oligarca, molte fonti hanno da tempo avanzato perplessità se non corposi sospetti. Investendo nella squadra molto denaro, è riuscito a garantirle i migliori atleti a disposizione nel mercato israeliano, permettendole inoltre di ottenere significativi risultati agonistici, tra i quali la vittoria consecutiva di due campionati nazionali. I rapporti di simbiosi tra gli organismi societari e la tifoseria più accesa si fecero evidenti nel momento in cui Gaydamak iniziò a finanziare regolarmente la seconda, garantendole biglietti, trasferte di gruppo, spazi di attività commerciale e così via. L’impressione che iniziò ad aleggiare era che il potente businessman intendesse usare gli ultras come una sorta di falange, a sostegno delle sue attività, sempre più spesso rivolte alla politica. Del suo interesse verso quest’ultima non faceva peraltro nessun mistero. Nel 2008, infatti, si candidò nelle elezioni per divenire sindaco di Gerusalemme (il confronto fu poi vinto dal likudnik Nir Barkat, che avrebbe governato la città fino al 2018; Gaydamak non superò il 3,6% dei consensi). Nel mentre, usando la carta degli investimenti nelle società sportive, era già divenuto sponsor dell’Hapoel Jerusalem basketball team, donatore dell’Israeli Arab Bnei Sakhnin nonché patrono e finanziatore di diversi organismi ebraici caritativi, fino ad assumere la presidenza di Congresso delle comunità e delle organizzazione religiose ebraiche della Russia (Keroor), il più antico tra gli organismi di coordinamento associativo di area. Contestualmente, il figlio Alexandre acquistava il Portsmouth Football Club (ceduto poi nel 2009 al miliardario saudita Ali al-Faraj). Già nel marzo del 2006 aveva peraltro annunciato l’acquisto del quotidiano France Soir attraverso il network Moscow News. Gaydamark, in tali vesti di potenziale leader politico populista “transnazionale”, non ha mai nascosto le sue posizioni a favore di Vladimir Putin.
Nel luglio del 2009 l’oligarca annunciò di volere cedere il controllo diretto del Beitar a Itzik Kornfein e a Guma Aguiar, il primo impegnato sul versante della promozione sportiva (a partire dalla compravendita dei giocatori), il secondo a reperire le risorse finanziarie. La notizia faceva non a caso seguito alle declinati fortune di Gaydamark in politica. Già due anni prima, il 21 febbraio del 2007, il magnate aveva fondato un’organizzazione, Tzedek Hevrati («Giustizia sociale»), che nelle intenzioni doveva divenire un partito politico di primo piano. Nel luglio dello stesso anno, infatti, formalizzò il transito verso le sponde elettorali. Tuttavia, pur partecipando alle elezioni politiche del 2013, non si presentò né alle precedenti né alle successive tornate. Se in esordio la popolarità del partito sembrava in netto consolidamento (i sondaggi, in un primo momento, arrivarono addirittura ad attribuirgli 14 seggi) nel volgere di pochi mesi tutto andò tramontando. Gaydamark aveva aperto un conflitto politico con l’allora premier Ehud Olmert, sostenendo la leadership alternativa di Benjamin Netanyahu ma non escludendo di potersi alleare con i laburisti. Sta di fatto che un atteggiamento così ondivago, chiaramente opportunista, non consolidasse la credibilità dell’intera operazione politica. Come neanche le ripetute affermazioni pubbliche sulla sua forza (140mila membri, in realtà mai tesserati, corrispondenti semmai a quanti avevano sottoscritto una dichiarazione di sostegno alla formazione politica), percepite da non pochi israeliani come delle smargiassate senza alcun effettivo credito. Il partito virtuale poteva contare su un discreto seguito di consensi nelle municipalità in via di sviluppo urbanistico, come Sderot, come anche tra una parte degli elettori delle minoranze nazionali (drusi, arabo-israeliani, alcuni ultraortodossi) ma ben presto, in mancanza di un reale coordinamento organizzativo, di una linea politica precisa e di attività che non si risolvessero nel mero marketing del carisma dello stesso Gaydamark, l’intera operazione, da molti denunciata come artificiosa, si esaurì in un nulla di fatto. L’insuccesso alle elezioni amministrative di Gerusalemme ne fu infatti il suggello.
Dopo la sconfitta elettorale, il miliardario diminuì drasticamente gli investimenti nelle “sue” società sportive, soprattutto nel Beitar, che andò in tale modo ridimensionandosi anche da un punto di vista atletico. Se fino a poco tempo prima i tifosi lo avevano definito «una stella, la nostra», da quel momento i membri di La Familia lo omaggiarono dell’abituale «figlio di buona donna» riservato a tutti i «traditori». Per l’oligarca, in realtà l’investimento nel Beitar si era rivelato drammaticamente infruttifero. Anche se non del tutto inutile. Sarebbe andata un po’ peggio a Itzik Kornfein che, dopo una serie di irripetibili volgarità proferitegli contro dagli estremisti – tra cui anche la minaccia di stuprargli la figlia – durante i sit-in di boicottaggio organizzati in prossimità dell’abitazione (con la partecipazione di energumeni esagitati e di non pochi minorenni), ricevette una robusta scorta di polizia, pari a quella assegnata ai ministri considerati a maggior rischio di attentato. Dopo diciotto anni di servizio al Beitar, infine, ne venne licenziato. insieme al Coach Eli Cohen.
Le connection tra politica e sport, tra quest’ultimo e tifoseria violenta e tra violenza e denaro, attraversano la storia più recente non solo d’Israele. La stessa vicenda che portò, nel 2013, all’ingresso in squadra dei due atleti ceceni, interpretata in un primo tempo come un tentativo da parte della società calcistica di attenuare l’immagine xenofoba che l’accompagnava, si inscriveva semmai nei calcoli imprenditoriali di Gaydamark, all’epoca in rapporto di affari con l’imprenditore russo di origini azere Telman Izmailov, quest’ultimo impegnato economicamente nella Cecenia (paese con una popolazione a maggioranza sunnita). Quando il Beitar partecipò a Groznyj ad una partita amichevole con il Terek Groznyj, squadra che milita nella prima divisione russa, fu accolto da Ramzan Kadyrov, presidente della Cecenia, membro del partito di Putin, Russia Unita, e proprietario della società calcistica ospitante. L’avventura politico-imprenditoriale di Gaydamark si esaurì comunque di lì a poco, andando incontro ad una serie di problemi con la giustizia, tra cui la condanna per il traffico illegale di armi durante la guerra civile in Angola (il cosiddetto «Angolagate»).
Sta di fatto che se fino agli anni Novanta il Beitar, pur qualificandosi come squadra dall’acceso “spirito nazionalista”, non aveva avuto troppi problemi ad ospitare nelle sue file atleti musulmani, dalla presidenza Gaydamark in poi le cose cambiarono radicalmente. Gli ultras di La Familia hanno attivamente e pervicacemente contribuito in tale senso, concorrendo anche al mutamento della composizione della tifoseria calcistica, con il notevole aumento della presenza di estremisti che usano lo sport come copertura per le loro attività, sospese tra radicalismo politico e attività di criminalità comune. I cori allo stadio inneggiano: «Quindi, anche quando i tempi sono difficili, urlo il tuo nome nelle strade, i flussi [di sangue] gialli attraversano le mie vene, Beitar comunque e per sempre». La tipologia, al riguardo, è quella tipica delle organizzazioni della destra estrema che ruotano attorno agli stadi e alle palestre. Non disdegnando rapporti personali con singoli elementi delle forze armate. Non solo in Israele ma anche in Italia come in buona parte del resto del mondo. Il considerarsi alla stregua di una “milizia” che, attraverso l’agonismo esasperato e la tifoseria violenta, rafforza i sodalizi, la presenza territoriale e il controllo su microeconomie legali ed illegali, è al centro dell’agire dei club ultras.
Dietro il rimando ai simboli dell’appartenenza nazionalista si cela, infatti, non solo una conclamata intolleranza e il rimando ad un’ideologia dal taglio suprematista ma anche la costruzione di un profilo di azione basato sulla voluta attenuazione delle linee di divisione tra legalità e illegalità. Dopo di che, come una sorta di contrappasso storico, tra gli effetti dell’accordo in via di formalizzazione tra Emirati Arabi Uniti ed Israele (al quale presto dovrebbe associarsi anche il Bahrein, se la presenza sciita non lo impedirà) c’è anche l’ipotesi che la proprietà del Beitar, attualmente nelle mani di Moshe Hogeg, imprenditore nel settore delle tecnologie avanzate, passi ad un facoltosissimo magnate di Abu Dhabi. Il nome non è ancora stato fatto ma la disponibilità è stata ripetuta, sia pure informalmente, da esponenti della stessa famiglia reale emiratina. Una squadra già potente ma adesso in difficoltà sul piano agonistico, con una tifoseria composta da diversi membri radicalizzati, entrambe accusate di razzismo e di propensione alla violenza organizzata, potrebbero fare capo ad un patron musulmano sunnita. Quando si dice «orgoglio identitario» (i cori de la Familia recitano «siamo il team più razzista del Paese! Buhh!») si rischia di ritrovarsi spesso con il cerino in mano, quello dell’inganno delle circostanze. Tanto più in tempo di globalizzazione, dove tutto – o quasi – transita.
Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.