Erano 900.000 gli uomini che hanno lavorato per le SS e altri 900.000, bambini compresi, erano i manovali della ferrovia che trasportava gli ebrei ai campi. Trovarli e intervistarli sembrava difficilissimo, ma…
Kurt Hollander si era iscritto alla gioventù hitleriana perché era un atleta e aveva il culto della forza, ma a Hitler rimprovera solo di non aver allontanato gli ebrei anziché ucciderli. Hans Wierk ha conservato il libretto delle SS: ci era entrato giovanissimo «per morire da eroe o scemenze del genere» ma, pur sembrando pentito, dice che bisognerebbe preoccuparsi più delle aggressioni dei migranti che del passato e dei nazisti». Invece Kurt Sametreiter, ex SS, incontra i giovani di ultradestra per dire quanto si vergogna e si sente in colpa per aver aderito, giovanissimo, al nazismo e convincerli che quell’ideologia non deve tornare. “Final Account”, il documentario di Luke Holland presentato fuori concorso alla Mostra del cinema di Venezia, parte da una citazione di Primo Levi: «I mostri esistono ma sono troppo pochi per essere pericolosi. Sono più pericolosi gli uomini comuni, i funzionari pronti a credere e obbedire senza discutere». Il filmaker inglese è riuscito a rintracciarli, quei funzionari, e a farli parlare.
Ne è uscito un ritratto dell’ultima generazione vivente dei tedeschi che erano stati membri delle SS, della Wehrmacht o della gioventù hitleriana: 250 ultraottantenni che, a decenni di distanza, hanno raccontato il loro ruolo di “obbedienti” nel più grande crimine del Novecento. Il “racconto finale” della “soluzione finale” che, unito al materiale d’archivio, dà voce per la prima volta a chi nel suo piccolo ha quotidianamente eseguito i piani degli architetti dello sterminio. Senza opporsi o fare domande, senza infine neanche risultarne responsabile davanti alla giustizia. Ci sono voluti dieci anni per raccogliere le testimonianze, molte raggelanti, di questo documentario unico nel suo genere.
Holland è riuscito a rompere il silenzio e il tabù di chi non ha mai parlato del ruolo avuto in quegli anni, neppure ai famigliari. «Com’è possibile che alcuni non si siano resi conto della gravità dei loro atti se non quando le cose erano andate troppo avanti?» si domandava il regista, chiedendosi anche come gli ex giovani hitleriani abbiano rielaborato il loro vissuto e se la vecchiaia avesse riportato un senso morale nelle loro esistenze. Tuttavia nel film ogni intervistato ricostruisce la storia in modo spesso contraddittorio, a volte riconoscendo e altre negando l’entità dell’Olocausto pur essendone stato testimone. La banalità del male è ancora lì. Ed è tornata d’attualità in tutta Europa con i movimenti neonazisti e fascisti, cosa che ha fatto sentire a Holland ancora più necessario il suo film, per indicare la deriva dell’autoritarismo e quanto sia pericolosa ogni ideologia basata sull’identità razziale o nazionale. «Spero che ogni spettatore rifletta sul proprio posto nel disordinato e complesso mondo di oggi». Ma tra le sue motivazioni ce n’è anche una più personale.
Il progetto era nato dopo aver scoperto la storia della sua famiglia. I nonni materni, viennesi, erano morti in un campo di concentramento. Sua madre, rifugiatasi di Inghilterra e trasferitasi in Paraguay nel 1952, non gliene aveva mai parlato: si sentiva in colpa per aver lasciato i suoi a Vienna nel 1938. Così il regista è cresciuto in Paraguay, tra la comunità cristiana di lingua tedesca e gli indigeni, senza che nessuno gli avesse mai parlato delle sue radici ebraiche. Poi, la scoperta. «Allora ho voluto sapere, capire cosa aveva portato alla morte dei miei nonni. Inizialmente volevo addirittura cercare chi li aveva uccisi. Ma risultò impossibile» aveva dichiarato Holland, diventato poi un filmaker. «Così è nata l’idea di cercare i loro coetanei: non i grandi criminali noti alla storia, ma le persone altrimenti ordinarie che però, nella vita quotidiana, avevano sempre accettato di lavorare attuando di fatto i piani di Hitler. Non certo pochi. Erano 900.000 gli uomini che hanno lavorato per le SS e altri 900.000, bambini compresi, erano i manovali della ferrovia che trasportava gli ebrei ai campi». Trovarli e intervistarli sembrava difficilissimo, per questo il lavoro è durato tanti anni. «Ci sono riuscito facendo networking con amici e conoscenti, viaggiando per la Germania e chiacchierando molto con le persone che incontravo» ha spiegato ancora Holland, che negli ultimi anni si è pure scoperto un tumore. «Poi ho dovuto fare molta attenzione a come condurre le interviste: volevo conquistare la loro fiducia senza però risultare indulgente, cercando di capire senza assolvere. Volevo soprattutto comprendere come il Nazismo abbia potuto fare presa sulle menti giovani. E ho capito che, mentre a 40 o 50 anni molti perpetravano il silenzio per non aprirsi, prima di morire avrebbero avuto il desiderio di liberarsi di quel peso, di fare i conti con quel periodo della storia e della loro vita. Se ho voluto girare questo film è perché sono ancora ottimista sulla possibilità di imparare delle lezioni della storia». Holland è scomparso poco dopo aver finito “Final Account”, a missione compiuta.