il riaccendersi del conflitto armato si inserisce dentro il gioco geopolitico del «risiko del gas naturale» e nella riconfigurazione di alleanze che da tempo è in corso in Medio Oriente
Nel mentre immagini drammatiche ci arrivano dal Caucaso, cerchiamo di fare il punto sulla crisi bellica (quindi, in immediata successione, civile e poi umanitaria, con il crescente corredo di profughi in via di levitazione) in corso, di nuovo, nel Nagorno-Karabakh. Con la necessaria pazienza, partiamo da alcuni riscontri storici per poi successivamente addentrarci nei meandri della questione politica, fino ad arrivare all’argomentazione di una tesi di fondo. Quest’ultima, la esplicitiamo subito anche se la argomenteremo più avanti, è che il riaccendersi del conflitto armato si inserisce sia dentro il gioco geopolitico del «risiko del gas naturale» – una partita ultramiliardaria che coinvolge tutto il Mediterraneo orientale così come la regione caucasica, quella anatolica e, di riflesso, anche quella mesopotamica – nonché nella riconfigurazione di alleanze che da tempo è in corso nel Medio Oriente e nelle aree attigue, con la Russia e l’Iran a fianco dell’Armenia e Turchia ed Israele in prossimità dell’Azerbaigian. Per semplicità, useremo la traslitterazione corrente, ossia quella di maggiore diffusione nella stampa italiana. Invitando da subito il lettore alla pazienza di chi, per capire la cronaca corrente, si dispone a comprendere una storia a tratti labirintica.
Partiamo quindi dalla geografia. Il Nagorno Karabakh (in armeno Lernayin Gharabagh ma comunemente identificato come Artsakh; in azero Dağlıq Qarabağ o Yuxarı Qarabağ, espressione che significa «giardino montuoso nero» o «giardino nero superiore»; in russo Nagornyj Karabach), una regione di circa 4.500 chilometri quadrati, con una popolazione stimata intorno ai 145 mila abitanti (per intenderci, 29 persone ogni chilometro quadrato; la densità a New York è 11 mila elementi mentre a Milano si aggira sui 2 mila; in Valle d’Aosta è di 39 soggetti), è composto da un territorio prevalentemente montuoso, la cui altezza media si aggira sui mille metri, senza sbocchi sul mare, ricco di foreste e corsi d’acqua, delimitato al nord dalla catena dei monti Mrav, ad occidente dall’altopiano del Karabakh, nella zona meridionale dal corso del fiume Hakari e poi dalla piana dell’Aras così, ad oriente, da quella del Kura. La regione appartiene geograficamente sia al Caucaso meridionale (la Transcaucasia, che comprende gli Stati della Georgia, dell’Armenia e dell’Azerbaigian) che all’Altopiano armeno. Per capire cosa ciò voglia dire, al di là delle suddivisioni nella mappa, si valuti il fatto che mentre la Transcaucasia è delimitata a nord dalla Ciscaucasia (Russia meridionale, nella quale sono comprese le regioni dell’Ossezia, dell’Inguscezia, della Cecenia e del Daghestan, parte delle quali ancora in tempi recenti oggetto di feroce contesa militarizzata), a sud da Turchia e Iran, lambita ad ovest dal Mar Nero e est dal Mar Caspio. Terra ricca di interconnessioni, di transiti, di scambi.
Come spesso capita per i territori contesi, la storia può aiutare a comprendere alcune cose, non le spiega però tutte. Il Nagorno Karabakh è parte delle terre che gli archeologi identificano in quanto sede della cultura Kura-Araxes (o antica cultura trans-caucasica), esistita tra il 3400 e il 2000 ante era volgare. I due fiumi, Kura e Araxes, ne costituivano gli estremi della originaria espansione territoriale, per poi conoscere nella più ampia mesoregione limitrofa un processo diffusivo durato oltre la fine stessa di quella civilizzazione. Se nell’antichità precristiana e poi del primo cristianesimo l’area fece parte di due regni, prima dell’Albania caucasica e poi della Grande Armenia, dopo il IV secolo dell’era volgare il cristianesimo, già introdottovi nei tre secoli precedenti, si diffuse tra le popolazioni. Il controllo dei territori passò di mano agli arabi, poi ai tartari, ai mongoli, ai turchi. Solo nel 1813, con il trattato di Gulistan (o Gulestan, Golestan, Golistan) stipulato tra l’Impero russo e quello persiano, alla fine di una guerra durata un decennio, il Karabakh (ovvero il territorio a nord del fiume Aras) diveniva infine parte del primo. Con la Rivoluzione d’Ottobre fu quindi inglobato nella Federazione Transcaucasica, nota anche come Repubblica Federale Democratica Transcaucasica, un’effimera unione politica tra Georgia, Armenia e Azerbaigian, di osservanza menscevica, durata per un solo anno, il 1918, con l’obiettivo di impedire che l’Impero ottomano, peraltro in via di dissoluzione, si reimpadronisse dei territori che erano divenuti parte dell’Amministrazione dell’Armenia occidentale, che controllava quelle aree già turche e che dal 1914 erano state invece conquistate dall’esercito russo.
Di fatto, per tutto il 1918, l’Azerbaigian musulmano, in opposizione agli armeni cristiani, si adoperò, attraverso sollevazioni e ribellioni, affinché il progetto sovietico di impedire ai turchi musulmani di prendere il controllo della situazione non avesse buon esito. Nell’aprile del 1918, a Baku, in una lotta che stava ferocemente dividendo una parte della popolazione cristiana da quella musulmana, i militanti della Federazione rivoluzionaria armena (il partito Dashnak, conosciuto anche con la sigla HHD – Hay Heghapokhakan Dachnaktsoutioun) assunsero il potere attraverso la Comune di Baku (un governo che univa bolscevichi e menscevichi, durato fino all’estate di quell’anno). C’era di mezzo la gigantesca guerra civile tra rivoluzionari (i «rossi») e i controrivoluzionari (i «bianchi») che stava attraversando e dilacerando i territori dell’oramai ex Impero zarista, cercando di pregiudicare il nuovo potere sovietico. I musulmani, nel mentre, si erano già ritirati a Gäncä (in azero Gəncə, in russo Gjandža, in persiano Ganjeh, nota anche come Ganja), la seconda città dell’Azerbaigian, dopo la capitale Baku.
Nella convulsione di quei tempi, si costituì la filoturca e indipendentista Repubblica democratica dell’Azerbaigian (RDA), anch’essa non meno effimera organizzazione statale che ebbe breve vita tra il 28 maggio 1918 e il 28 aprile 1920. Ne derivò la guerra armeno-azera dove alla RDA, sostenuta dai bolscevichi azeri, si contrapponevano gli armeni della Comune di Baku, questi ultimi appoggiati in un primo tempo dai britannici (parte del corpo di spedizione antibolscevico) che tuttavia, il 1° agosto 1918, di fatto estromettendo dal potere i comunardi, diedero vita alla Dittatura centrocaspiana, un’entità politico-amministrativa di servizio a Londra, in posizione antisovietica e antiottomana. L’obiettivo era quello di mantenere il territorio ancorato alla Russia bianca e di distruggere la RDA. Il governo era composto da elementi del Partito socialista rivoluzionario, da menscevichi (in rotta con i bolscevichi) e dal Dashnak. La presenza inglese era giustificata dalla minaccia turco-ottomana, che stava cercando di assicurarsi la conquista di Baku, con le unità combattenti dell’Esercito islamico del Caucaso. Il 15 settembre, infatti, l’esercito azero-ottomano entrò nella capitale dell’Azerbaigian, causando la ritirata dei britannici e la fuga di buona parte della popolazione armena. Una sola, residua lingua di costa sul Mar Caspio fu mantenuta sotto il controllo inglese, dove venne creata la Dittatura militare provvisoria del Mughan (durata tra il 15 settembre 1918 e il 25 aprile 1919), poi trasformatasi, dopo una ribellione bolscevica, in Repubblica sovietica del Mughan.
Nel mentre, il 4 giugno del 1918, ciò che restava del periclitante Impero ottomano aveva firmato un accordo politico con la Repubblica democratica di Armenia (conosciuto come il trattato di Batumi) mentre diversi insorti armeni si erano ritirati nell’autoproclamata Repubblica dell’Armenia montanara, nel Nagorno Karabakh, a sua volta effimera struttura politica esistente tra il giugno e la fine di ottobre del 1918. Con l’armistizio di Mudros (30 ottobre 1918), che poneva termine alle ostilità nel Vicino Oriente tra l’Impero ottomano e gli alleati della Triplice intesa della Prima guerra mondiale, di fatto la resa militare turca comportò per gli azeri l’abbandono a se stessi. Il 27 aprile 1920 Baku cadeva quindi in mano bolscevica. Le truppe sovietiche, dopo avere assunto il controllo totale dell’Azerbaigian, continuarono la lotta contro l’Armenia. Le nuove autorità turche, nel mentre, di fatto in accordo con gli stessi bolscevichi, il 24 settembre avviarono la guerra turco-armena, durata fino al 2 dicembre di quell’anno. Ciò che restava dell’Impero ottomano (la Repubblica di Turchia sarebbe formalmente nata solo tre anni dopo) avviò un conflitto con la Repubblica democratica di Armenia, dopo l’armistizio che questa aveva sottoscritto con l’Azerbaigian, permettendo ai bolscevichi di assicurarsi di nuovo il controllo dell’Armenia, con il ritorno ai vecchi confini ottomano-zaristi del 1914.
A conflitti conclusi, con la fine del 1920, il territorio del Nagorno Karabakh, rivendicato sia dagli armeni (che all’epoca costituivano il 98% della popolazione) sia dagli azeri, insieme a quello del Nakhchivan (Naxçıvan Muxtar Respublikası), regione autonoma azera con minoranze russe e curde, entrarono a fare parte, nell’ambito della politica delle nazionalità praticata dalle autorità sovietiche, dell’Azerbaigian, quest’ultimo inteso come Stato sovietico indipendente, destinato quindi ad entrare nell’Urss. Nel 1923 fu quindi creata l’Oblast (regione e/o provincia) autonomo del Nagorno Karabakh, che sarebbe durato fino al 2 settembre 1991. La questione del destino di quel territorio era comunque irrisolta. Su di essa il potere sovietico aveva messo solo un coperchio, destinato sia pure a durare una settantina d’anni. Poiché l’ossatura politico-amministrativa di quelle terre si generò con lo scioglimento della Repubblica federale democratica transcaucasica, la genesi delle moderne repubbliche di Armenia, Georgia e dell’Azerbaigian non poteva che accompagnarsi ai conflitti di appartenenza, alle dispute territoriali, alle irrisolte frizioni di confine. Volte a ripetersi nel corso del tempo, con manifestazioni carsiche, perlopiù represse dalle autorità centrali moscovite ma, una volta venuta meno l’autoritaria presa di queste ultime, destinate ad esplodere.
Se l’Azerbaigian rivendicava la regione armena del Karabakh e le province del Zangezur e Nakhchivan, ambendo ad una contiguità territoriale con la Turchia, il Congresso del popolo dell’Artsakh (articolato in una decina di sessioni di deliberazione), l’organo assembleare che esercitò i suoi poteri nel Nagorno Karabakh tra il 1918 ed il 1920 allorché la regione venne sovietizzata, aveva ripetutamente affermato la volontà della popolazione di far parte dell’Armenia. Già il Primo Congresso del 22 luglio 1918 aveva proclamato la regione indipendente ed auto-amministrata da un governo popolare. Tale pronunciamento (e gli altri che seguiranno negli anni a venire) provocò la reazione dell’Azerbaigian che chiese aiuto alla Turchia. Con la sovietizzazione del Caucaso tuttavia sembrò in un primo tempo che la regione fosse destinata ad essere ricompresa nell’ambito dello stato armeno. Alla fine del novembre 1920, dopo l’ingresso dell’Armata Rossa in Armenia, lo stesso Comitato rivoluzionario dell’Azerbaigian inviava un telegramma di congratulazioni con il quale si dichiarava che il Nagorno Karabakh (al pari degli altri territori contesi) veniva riconosciuto come parte integrante della nuova Repubblica socialista sovietica armena. Il 2 maggio 1921 il Kavbureau, ossia l’Ufficio Caucaso del Partito comunista bolscevico, confermava tale intenzione; il 12 giugno il soviet azero adottava una risoluzione che riconosceva l’appartenenza della regione all’Armenia mentre il Plenum del Kavbureau confermava la validità della decisione ma la subordinava ad un referendum.
L’intervento del Comitato centrale bolscevico a Mosca, attento a garantirsi buoni rapporti con la Turchia, stabilì invece che il Nagorno Karabakh rimanesse sotto la giurisdizione azerbaigiana, pur concedendogli autonomia amministrativa e indicando in Shushi (in azero Şuşa) il capoluogo regionale. Anche il Nakhchivan veniva assegnato agli azeri ma non la regione di Zangezur (poi Syunik) che rimaneva invece all’Armenia. Nel marzo 1922 veniva quindi istituita la Repubblica socialista federativa sovietica transcaucasica (che entrerà nell’Urss il 30 dicembre di quell’anno, per poi cessare di esistere nel 1936) inglobante Georgia, Armenia ed Azerbaigian. Il 7 luglio 1923, con un decreto della Commissione Elettorale Centrale del partito, veniva quindi istituito l’Oblast autonomo del Nagorno Karabakh (NKAO) inglobante però solo una porzione dell’originario territorio karabakho mentre altre parti finivano direttamente sotto controllo azero. La nuova entità amministrativa rimaneva quindi scissa fisicamente dall’Armenia, per evitare che sussistessero continuità di ordine culturale (e quindi anche politico). Da ciò derivava il fatto che l’Oblast armeno fosse una enclave a sé in territorio azero, con un ulteriore sezionamento di alcuni suoi distretti, separati amministrativamente dal territorio originario.
Lo stesso capoluogo veniva spostato da Khankendi a Stepanakert. Se nel 1923, su una popolazione di circa 130mila soggetti, il 95% erano armeni, nel giro di qualche decennio, con l’immigrazione di alcuni consistenti gruppi azeri, si ridurrà al 75%. Di fatto, con la completa sovietizzazione di quei territori, qualsiasi istanza autonomista fu progressivamente assorbita se non cancellata. A fronte di alcuni gruppi clandestini a favore dell’annessione all’Armenia, duramente repressi e poi eliminati, quando il segretario del Partito comunista regionale Aghasi Khanjian presentò la richiesta di restituzione del Karabakh e del Nakhchivan all’Armenia, venne assassinato. Nei decenni seguenti alla morte di Stalin la questione karabakha sarebbe tornata comunque in auge: nel 1964 una petizione, firmata da quasi 50mila sottoscrittori, la risollecitava all’attenzione degli organismi dirigenti del Pcus,mentre la successiva nascita di un Partito di unità nazionale si adoperò per alimentare la speranza di una riunificazione ad Erevan. In origine, l’intenzione non era quella di trasformare il Nagorno Karabakh in uno Stato indipendente bensì di trasferirne il soviet sotto la giurisdizione di quello armeno, riunificando così la sua popolazione cristiana con quella che era considerata la madre patria nonché svincolandola dal controllo degli azeri turchi musulmani.
Peraltro i contrasti fra i due gruppi erano andati aumentando, soprattutto a partire dagli anni settanta, allorché il Primo Segretario del Comitato Centrale del Partito comunista azero, Gaydar Aliev (Heydər Əliyev), aveva intensificato la politica di immigrazione forzata azera nella regione. Con la seconda metà degli anni Ottanta, a seguito delle crescenti proteste popolari, che intercettavano i segni della progressiva disgregazione dell’Urss, dai movimenti di opinione si passò alla manifestazione aperta di un crescente dissenso, sempre più acceso. In quegli anni, infatti, nasceva il movimento Miatsun, noto anche come Miac’owm (in armeno «unificazione») per la riunificazione dell’Oblast autonomo all’Armenia sovietica, soggetto attivo nella «lotta di liberazione del Nagorno Karabakh» che porterà prima alla dichiarazione di indipendenza (formulata il 2 settembre 1991 ma resa ufficiale il 6 gennaio 1992) e poi al successivo conflitto armato (1992-1994).
Gli eventi conosciuti come pogrom di Sumgait, insieme ad altri scontri interetnici, fecero precipitare le cose. Definiti anche come massacri di Sumgait, si consumarono alla fine del febbraio 1988, nell’omonimo sobborgo industriale a nord della capitale dell’Azerbaigian (dove risiedevano 223mila abitanti, una parte dei quali armeni). In quelle circostanze, bande armate di azeri assaltarono i quartieri risieduti da altre nazionalità, scatenando quindi una vera e propria caccia all’uomo che durò due giorni. I morti furono probabilmente trecento, anche se ufficialmente ne sono stati successivamente riconosciuti solo una trentina. Le violenze si placarono, tra mille difficoltà, solo con l’arrivo delle forze di sicurezza, dopo molti scontri, nel corso della sera del 28 di quel mese. Un ruolo importante nella vicenda lo svolsero alcuni rifugiati azeri, provenienti dall’Armenia, che avevano lasciato a causa delle crescenti tensioni da tempo in corso. Già con la fine del 1987 gli azeri, provenienti da alcuni villaggi armeni, avevano infatti lamentato di essere stati obbligati ad abbandonare le loro abitazioni. Un paio di treni erano arrivati a Baku e i loro viaggiatori erano stati accolti come profughi. Il clima era quindi da tempo sovraeccitato.
Le notizie incontrollate sull’uccisioni di due azeri da parte di armeni a Sumgait agevolò quindi l’entrata in scena di bande di giovani (tra di loro duemila giovanissimi operai temporanei delle fabbriche chimiche, immigrati dalla provincia azerbaigiana, i cosiddetti «limitčiki», residenti nei dintorni dell’area urbana), che si adoperarono in un crescendo di violenze, di devastazioni, furti, poi stupri e quindi assassinii. Gli scontri e le sopraffazioni furono probabilmente predisposti a tavolino, calcolando, non a torto, che avrebbero favorito una velocissima radicalizzazione della questione del Nagorno Karabakh. Contro gli stessi armeni, indicati come una sorta di quinta colonna presente nell’Azerbaigian. In quel contesto, e nei tre anni successivi, le attività del movimento Miatsun evolsero dalle iniziali iniziative politiche alla militarizzazione progressiva, fino a dare i natali all’Esercito di difesa del Nagorno Karabakh. Quest’ultimo, fondato nel maggio del 1992, con l’obiettivo dichiarato di proteggere la popolazione armena dalle aggressioni azere, riorganizzava tutti i gruppi paramilitari allora operanti. Ma si era oramai già nel pieno della guerra del Nagorno Karabakh, ufficialmente avviatasi nel gennaio del 1992 e conclusasi nel maggio del 1994. Tuttavia, come a questo punto si sarà compreso, già delineatasi nel febbraio del 1988. Al prossimo passaggio, ricostruiremo come questo complesso, a tratti tortuoso, intricato dedalo, faccia da cornice ai ragionamenti sul presente, dove anche Israele svolge un quale ruolo, ancorché non di primissimo piano.
– continua)
Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.