Un racconto a partire dallo Studio5 di Cinecittà, casa per profughi e sopravvissuti della Grande Guerra
Primi di aprile 1945, Campo di lavori forzati di Strasshof, vicino a Vienna.
Gli internati aprono gli occhi, indecisi se ringraziare il cielo per essere ancora vivi o se imprecare contro la morte per averli risparmiati di nuovo. Nessun rumore. Nessun comando. Nessun battere di tacchi. Nessun ordine.
Qualcuno si azzarda a mettere il naso fuori. All’esterno della baracca solo il rumore del niente e di un tempo sospeso nel nulla.
Sono soli.
Tra loro c’è Klara, una giovane ungherese di 21 anni, originaria di Orosháza e arrivata al campo un anno prima con sua madre e suo fratello.
Lei, come tutti gli altri, si avvicina titubante al grande cancello aperto. A pochi passi li attende statica la libertà ma nessuno si muove, nessuno osa varcare il limite dell’inferno.
Isolati dal resto del mondo da mesi, i prigionieri sono paralizzati dal desiderio di fuggire e al tempo stesso dalla paura che i tedeschi tornino da un momento all’altro. Inoltre, non sanno dove sono, da che parte è casa? Non posseggono nulla, né soldi, né cibo, solo le tute da lavoro consunte che portano addosso da mesi.
Per giorni il tempo si ferma nel campo e gli internati restano in attesa.
L’Armata Rossa libera il campo di transito di Strasshof il 10 aprile 1945. A settembre Klara si unisce con un gruppo di sopravvissuti al Movimento ebraico Hashomer Hatzair, dove conosce Imre, un partigiano slovacco e unico sopravvissuto di una intera famiglia sterminata ad Auschwitz. Si innamorano subito.
Insieme agli altri riescono a varcare il confine austriaco. L’Hashomer Hatzair si occupa dell’immigrazione clandestina degli ebrei sopravvissuti, sfollati, rifugiati e l’Italia è uno di quei paesi da cui partono le navi per la Palestina. Il gruppo viene portato a Cinecittà, dove il 6 giugno del 1944 l’Allied Control Commission si reimpossessa degli spazi per allestire un centro d’accoglienza.
Il 16 ottobre del 1943 infatti, i tedeschi avevano occupato i capannoni e tutta l’attrezzatura cinematografica confiscata fu spedita in Germania e a Salò. Quella che era la fabbrica dei sogni diventò un deposito umano per i 947 uomini catturati dalle truppe nazifasciste durante il rastrellamento del 17 aprile 1944 nel quartiere Quadraro.
Finita la guerra gli studios ospitano i senza tetto italiani da una parte, e gli ebrei dall’altra: questi ultimi sono gestiti da diverse organizzazioni ebraiche che provvedono ai sopravvissuti fornendo loro uno spazio dove dormire, cibo, vestiti e un biglietto senza ritorno per un futuro migliore.
Tra realtà e finzione per alcuni anni a Cinecittà si intrecciano trame e personaggi reali di moltissime famiglie la cui intima quotidianità viene protetta unicamente da divisori arrangiati con arredi scenografici in disuso.
Per la maggior parte di loro Cinecittà è un luogo di passaggio, una sorta di gigante foyer dove la vita scorre in attesa di imbarcarsi sulle navi di fortuna per raggiungere nuove destinazioni.
La partenza è ormai imminente anche per Klara e Imre, quando la ragazza scopre di essere incinta. I responsabili dell’organizzazione premono perché la coppia si sposi il prima possibile, perché un figlio fuori dal matrimono è considerato inaccettabile e sconveniente.
Ma la giovane non si piega alle richieste dei suoi tutori, neanche quando viene minacciata di essere cacciata via: dopo quello che ha visto e passato nel campo Strasshof, è decisa a non accettare più ordini da nessuno e si batte con tutte le sue forze per difendere la sua libertà e il suo spazio nel campo profughi con Imre.
Alle 8.40 del mattino del 16 ottobre 1946 all’Ospedale Santo Spirito di Roma Klara dà alla luce suo figlio Arnold, mentre nel carcere di Norimberga vengono eseguite le condanne dei capi nazisiti accusati di crimini di guerra e contro l’umanità.
Un mese dopo Klara sposa Imre al Tempio Maggiore di Roma.
E’ una decisione sua e di nessun altro, dettata dal desiderio sincero di diventare la moglie di quell’uomo speciale che nonostante tutto le è rimasto accanto dimostrandole più amore di quanto ne avesse mai ricevuto in tutta la sua vita.
La coppia rimane nei capannoni di Cinecittà per 2 anni: non è una vita semplice, le condizioni igieniche sono precarie e lo spazio è minimo; ma loro si ritengono fortunati ad avere un tetto sulla testa e nonostante i sacrifici e i disagi, per i novelli sposi quello resterà impresso nei loro ricordi come un periodo felice.
L’ambìto lieto fine arriva nel settembre del 1948, quando Klara e Imre con il piccolo Arnold salpano da La Spezia verso il neonato Stato di Israele, dove si stabiliscono a Yahud.
Oggi il bambino che visse nel Teatro 5 non si chiama più Arnold ma Israel e ha 73 anni.
E’ un racconto a due voci quello che mi descrivono Naama e Israel: seduti uno accanto all’altro, padre e figlia si alternano nel raccontarmi la storia della loro famiglia davanti allo schermo del computer, per rimanere inquadrati dalla telecamera della videochiamata, pronta ad accorciare almeno un pochino.
I genitori non gli hanno mai nascosto nulla del loro passato: Israel rovista tra i suoi ricordi di bambino, soffre, ride, si commuove, e io con lui, fino ad arrivare con voce rotta al viaggio ad Auschwitz di tre anni fa con la moglie Hana.
“Mia mamma Klara e mio padre una volta arrivati qui con la nave da La Spezia non sono mai più usciti da Israele. Ad Auschwitz ci sono andato soprattutto per un motivo: avevo bisogno di chiudere il cerchio. Tra quelle liste infinite di nomi cercavo disperatamente quelli dei miei nonni: c’erano troppe scritte, temevo che non li avrei trovati mai. Fino a quando i miei occhi si sono posati proprio li, su quelle lettere, ed è stato come tuffarsi nel passato con un sacco di piombo posato sul cuore: Lovy Roza, Kalman Levy, mio nonno e la piccola Alice Levy, vicini e uniti dallo stesso spietato destino. Alice, sorella di mio padre, aveva 13 anni e nessuno sa che aspetto avesse”.
Aggiunge Naama: “Abbiamo foto di ogni membro della nostra famiglia, Alice è l’unica di cui non abbiamo mai trovato un ritratto o una immagine”.
Le domande sono tante, ci vorrebbe molto tempo, ma alla fine mi rivolgo alla figlia di Israel.
Naama, accade spesso che i figli e i nipoti dei sopravvissuti della Shoah vengano spinti da un forte senso di responsabilità o di tormento nei confronti dei loro cari per cui si sentono in dovere di raccontare con loro o per loro: il tuo romanzo, Studio 5, narra la storia di tuo padre Israel che visse a Cinecittà ma è soprattutto un elogio alla forza e al coraggio femminile. Per chi l’hai scritto?
“L’anno scorso ho accompagnato mio padre a Roma in occasione dell’inaugurazione della mostra Dalla Terraferma alla Terra Promessa. Aliya Bet dall’Italia a Israele, 1945-1948 promossa dal Museo della Shoah.
Abbiamo colto l’occasione per visitare Cinecittà: difficile spiegare cosa abbiamo provato una volta entrati negli Studios. Il Teatro 5, dove è stata girata anche una parte del film La dolce vita, era stata la “casa” di mio padre.
A quel tempo stavo già scrivendo il mio romanzo ma quella visita è stata la chiave di svolta. Il mio libro, Studio 5, è la lotta per la resurrezione dei reduci della Shoah nei primi mesi dopo la guerra, è la transizione dal lutto alla celebrazione della vita, spinta dall’istinto di sopravvivenza prima e dall’amore poi. Ma è soprattutto la storia di due generazioni di donne della stessa famiglia, Alice e Klara, che si sviluppa su due binari paralleli. Klara è una donna forte, coraggiosa, che non è mai scesa a compromessi, e che ha lottato con il corpo e con la testa, con il suo anticonformismo, la tenacia epersino con il tono di voce!
Il libro Studio5 di Naama Levy è disponibile solo in ebraico
Mi hai emozionato,, davvero ! Scrivi con parole che toccano il cuore come le storie che racconti . Grazie
Brava ! Continua così !
Deb love
Una storia commovente e di riscatto dove un luogo di finzione diventa una casa vera e l’inizio di una nuova vita.