I millennial modern orthodox: religiosamente alfabetizzati, ma distanti dalla comunità. Perché definirsi religiosi o meno è più complicato di quanto sembri
Ci accomodiamo su sedie di vimini in un caffè con vista sulla Città Vecchia di Gerusalemme. Ordiniamo entrambi un latte macchiato e lo gustiamo ridendo con semplicità, apprezzando in silenzio la luce del sole che filtra attraverso gli ombrelloni da esterno del dehors e si sparge sulla pietra degli edifici intorno a noi. Gli amarillidi in fiore aggiungono un tocco di rosa all’orizzonte color sabbia. Mentre parliamo, a un certo punto mette giù con garbo la sua tazza di vetro. “Quindi”, chiede, “Tu sei religiosa?”.
Sorrido – e non solo perché tra noi c’è una certa intesa. Ma perché in genere la considero una domanda del tutto superficiale. Posso capire che serva ad aiutare la mente umana a categorizzare gli individui, ma sinceramente la vedo più come un ostacolo.
Le persone non fanno questa domanda per sapere se la tale persona vive alla presenza di Dio, come recita il Salmo 16:8: Shviti Hashem lenegdi tamid [Ho continuamente posto l’Eterno davanti ai miei occhi]. Non la fanno per sapere se la tale persona cerca di interiorizzare la Torah e di metterla in pratica in una maniera che sia morale e giusta. Non la fanno per sapere se la tale persona è ben informata sui rituali, le leggi, la storia, il pensiero e la teologia dell’ebraismo. No. In base alla mia esperienza, la domanda resta ferma nei confini di come la tale persona si veste, di quanti rabbini sono stati pagati per certificare il cibo che mangia, e di se osserva lo Shabbat a un livello tale per cui giocare a Scarabeo diventa un peccato punibile dalla Corte Suprema di Dio.
Secondo questi parametri, suppongo di non potermi considerare religiosa, ma da dove inizio a spiegarlo, rifletto, a quest’uomo gentile e simpatico che mi siede di fronte?
La crisi dei millennial
I millennial stanno facendo esperienza di un’ondata di scetticismo nei confronti dei fondamenti teologici della religione organizzata. Uno studio unico nel suo genere sulla comunità modern orthodox, gruppo agiato e altamente istruito che rappresenta approssimativamente il 4% della popolazione ebraica negli Stati Uniti, lo conferma. Secondo il “Nishma Research Profile of American Modern Orthodox Jews”, circa il 30,3% dei millennial modern orthodox intervistati si dichiara “diventato meno osservante”. È una percentuale più alta di quella che si riferisce agli intervistati della generazione più vecchia, che invece è pari al 20,5%.
Questo non per dire che io rappresento una statistica o qualcosa del genere. Ma suppongo che abbia qualcosa a che vedere con me. Sono cresciuta in una casa ortodossa nel sud della Florida, e ho avuto la fortuna di ricevere, dall’asilo fino alla laurea, una valida istruzione in una yeshivah dove lo studio dei testi ebraici e il rigore accademico generale ci venivano instillati come la vita che Dio soffiò nelle narici di Adamo. Per quanto ci fosse un certo livello di diversità nella mia educazione ebraica ortodossa – la mia famiglia a Shabbat pregava in una sinagoga Chabad, io frequentavo una scuola prevalentemente ashkenazita ed ero altrettanto attiva nella sinagoga sefardita locale – la formalità delle aspettative sociali e della struttura comunitaria mancava di un certo amore verso Dio e i rituali.
A ogni passo della mia educazione – dalla scuola al seminario religioso in Israele, agli anni universitari – i miei genitori si crucciavano del fatto che benché stessi ricevendo gli strumenti per conoscere a fondo l’ebraismo e vivere una vita ebraica, i miei insegnanti non mi stavano trasmettendo né amore per l’Ebraismo, né amore per Dio. Certo, sapevo districarmi con agilità tra le pagine dello Shulchan Aruch per capire come preparare un’insalata di Shabbat senza violare il divieto di suddividere e selezionare (un’azione proibita di Shabbat), ma lo Shabbat in sé, riuscivo a sentirlo?
Ero in grado di apprezzarne la bellezza, o ero prigioniera delle minuzie di come si taglia un pomodoro e di come e dove si possa camminare sui tacchi (in riferimento alla proibizione rabbinica di arare, quindi anche di smuovere il terreno). I miei genitori avevano tentato di supplire leggendomi classici di etica ebraica come Chovot haLevavot [I doveri dei cuori] di Bahya Ibn Paquda prima della buonanotte, ma io non ero granché ricettiva. Voltandomi indietro, capisco che le loro preoccupazioni erano fondate.
E forse è per questo che siamo diventati così tanti a non identificarci più con l’ortodossia proscrittiva nella quale ci siamo formati: amiamo l’Ebraismo nella ricchezza dei suoi rituali, delle sue indagini filosofiche e dei suoi testi rigorosi, ma non abbiamo ricevuto gli strumenti per esprimere questo amore al di là dei confini della Halachà.
Comunità: qualcosa non torna
La mia fiducia nella comunità è cominciata a venir meno dopo la rottura del mio fidanzamento. Non mi capacitavo di come centinaia di persone fossero arrivate a festeggiare le nostre imminenti nozze in tre diverse città di due diversi Paesi, con così tanti brindisi e mazal tov di cuore, e poi solo una manciata di loro si era fatta viva dopo che il castello era crollato.
Come poteva essere che educatori religiosi, leader di comunità, rabbini – con molti di essi non mi sentivo da anni – si fossero precipitati a chiamarmi e mandarmi email e messaggi quando mi ero fidanzata, ma fossero stati platealmente assenti al momento della rottura?
Quando ho invitato dei membri della comunità a riflettere su questa realtà, ho spesso ricevuto un riscontro del tipo #NonTuttiIRabbini. Che potrebbe essere anche vero, ma non secondo la mia esperienza. Dopo una vita di educazione religiosa e partecipazione, erano rimasti zitti. Come è scritto nella Torah: “Vayidom Aharon” [E Aronne tacque].
Persone che facevano parte della mia cerchia allargata e che ingenuamente chiamavo amiche, per quanto ora capisca che sarebbe stato meglio definirle frequentazioni o conoscenze, non hanno saputo cosa dirmi e mi hanno completamente evitata .
Questo mi ha portato a rimettere in discussione i cardini della comunità nel loro insieme: di che comunità parliamo se i suoi membri si riuniscono solo per le celebrazioni e per circostanze negative che prevedono la lettura di testi religiosi come, per dire, un funerale? Questa non è la comunità di ricerca spirituale e fonti di ispirazione alla quale vorrei appartenere.
L’esperienza di essere tagliata fuori e di sentirmi isolata dalla possibilità di condividere i rituali, mi ha fornito l’opportunità di valutare le diverse sfaccettature delle aspettative della vita comunitaria in veste di outsider informata. E ciò che ho visto non mi è piaciuto.
Impregnata di razzismo, sessismo, cecità di fronte al privilegio, e di una mentalità tribale in cui gli atti di chesed (misericordia) e le opere di beneficenza si concentravano su questioni ebraiche a spese delle questioni umane – la comunità era afflitta da un certo senso egoistico di superiorità morale, iniziai a realizzare. Questi aspetti negativi erano velati da un linguaggio rabbinico o da ragionamenti pii, e quindi presi ufficialmente come Verità.
Secondo la mia comprensione dell’Ebraismo e del Divino, è immorale dire ciò che Dio è o ciò che Dio pensa o cosa l’Ebraismo è o pensa. La mente umana non può contenere nemmeno l’aspetto più minuto del Divino, e i testi dell’ebraismo sono troppo densi per consentire una definizione risolutiva sul vero significato della loro essenza. (Direi che posso definirmi una buona maimonidiana). Ma questo approccio era decisamente troppo complicato per essere la norma nella mia comunità.
“Non avevamo mai visto un’ebrea come te”
Di recente mi sono ritrovata a una cena di Shabbat in una comunità ortodossa in Sud America. Da uno degli altri ospiti è uscito un commento omofobico non richiesto. Rapidamente ho ponderato le opzioni a disposizione: potevo essere educata e non dire nulla, dal momento che ero un’ospite, oppure, siccome sono tra le pochissime reporter ad avere estensivamente raccontato della realtà ortodossa lgbtq, potevo dire qualcosa, nella speranza che in qualche modo avrebbe aiutato almeno un gay non dichiarato che, statisticamente, ne ero sicura, era presente in quella comunità. Molti rabbini ortodossi negano persino la possibilità di un’identità lgbtq, e considerano la pratica dell’omosessualità come un peccato in base al versetto 18:22 del Levitico.
Seduta sotto un quadro della Gerusalemme biblica nella sala arredata con gusto del mio ospite ho chiesto, con gentilezza, se gli altri presenti avrebbero fatto lo stesso commento se avessero saputo che qualcuno intorno al tavolo – qualcuno di ortodosso – stava attraversando un periodo di difficoltà per via della sua identità lgbtq.
“Essere gay è peccato”, ha detto schiettamente il mio commensale.
“Ma mettiamo che ci sia qualcuno che è nato e cresciuto come ortodosso”, ho replicato. “E che ama l’Ebraismo e la sua comunità. E che è gay. Che cosa dovrebbe fare?”.
“È difficile”, ha risposto.
“Lo è”, ho insistito. “Quindi che cosa dovrebbe fare? Lasciami aggiungere un altro dettaglio a questa ipotesi. Mettiamo che la persona di cui stiamo parlando abbia quindici anni. Che cosa diresti a questo ragazzino se venisse a dirti che vuole restare frum [osservante] e dentro la comunità ma ha paura di non poterlo fare perché è gay?”.
Dopo un po’ di dibattito che ha visto l’intera tavolata soppesare la faccenda attraverso diverse lenti halachiche e psicologiche, ho sollevato il punto del pikuah nefesh, la responsabilità di salvaguardare la vita. Secondo il Family Acceptance Project, i giovani di identità gay, lesbica e bisex le cui famiglie hanno mostrato un alto livello di rifiuto sono 8,4 volte più a rischio di suicidio dei coetanei le cui famiglie hanno mostrato un livello di rifiuto nullo o molto basso. Perciò se una comunità porta avanti l’idea che essere gay è peccato, ed è psicologicamente provato che gay si nasce, non lo si sceglie, troncare ogni conversazione sull’identità lgbtq parlando di peccato non significa forse mettere i membri della comunità nell’impossibilità di praticare il pikuah nefesh, salvaguardare la vita? I miei ospiti hanno ascoltato e sono rimasti a rimuginarci sopra.
Dopo il pasto, ho chiesto scusa alla mia ospite perché l’argomento dell’identità ortodossa lgbtq aveva dominato la conversazione – una conversazione di uomini, potrei aggiungere.
“No, è stato fantastico”, mi ha detto “Non avevamo mai visto un’ebrea come te”.
Ero imbarazzata e confusa. Ho insistito perché mi spiegasse, e lei mi ha detto che non avevano mai incontrato una donna con una preparazione solida sui testi ebraici che potesse sostenere una conversazione con uomini ortodossi. Non solo non rispecchiavo il loro stereotipo, ma mi ero anche presentata con ginocchia e gomiti scoperti ed ero in viaggio da sola come saccopelista. “È meraviglioso che ci siano persone come te”, mi ha detto mentre liberavamo la bianca tovaglia di lino dalle stoviglie di porcellana , “Non sapevamo esistessero”.
Ho sorriso e detto hineni [Eccomi], alla maniera di Abramo, o forse di Leonard Cohen. L’Ebraismo osservante non deve essere presentato come uno stile di vita monocromatico e dottrinale. Sì, una donna può citare le Scritture e al contempo indossare i pantaloni. Può avere uno scambio rispettoso, basato sui testi, con uomini istruiti. E sì, una persona può possedere cultura religiosa ma non stare al passo con le esigenze sociali dell’ortodossia.
Sembra che con il modo in cui gli altri ebrei ortodossi percepiscono la realtà, il mio stile di vita non torni.
Alla ricerca di una definizione
E tra l’altro, tutto ciò non riguarda solo gli ortodossi.
Una parte della Nishma Research si concentra sulle persone cosiddette “OTD”, ovvero coloro che sono usciti dal derekh, la strada dell’ortodossia.
Non esiste ancora una definizione esatta gli Ebrei millennial come me. Non siamo OTD. Ma nemmeno ortodossi. Abbiamo una solida formazione religiosa, un interesse profondo per l’Ebraismo, conosciamo bene l’ortodossia e non proviamo astio nei suoi confronti. Ma allo stesso tempo, avvertiamo un senso di disconnessione profonda dalla comunità tradizionale. Le ragioni potrebbero essere le più varie, come l’indagine ha mostrato, da quelle teologiche a quelle sociali. Concetti come la leadership femminile, l’inclusione lgbtq, l’ipocrisia della comunità, il fatto che certe cose che ci sono state passate come la cosa “giusta” da fare siano di fatto moralmente ripugnanti, o l’essersi imbattuti in profonde inconsistenze tra gli insegnamenti della Torah e la realtà del mondo,tutti questi potrebbero essere dei fattori.
Così ho preso le distanze dalla mia comunità – senza rabbia o disperazione, ma semplicemente perché non si armonizza più con il mio modo di essere, con il mio senso morale. A volte ci torno e sento dentro un calore, una nostalgia per la mia giovinezza. Ma con il calore giunge in simultanea la consapevolezza che quella comunità non è più del tutto mia – e che è stata una mia scelta.
E così sono qui a Gerusalemme, a chiedermi da dove partire per rispondere alla domanda e fino a che punto lasciarmi andare con quest’uomo.
Come faccio a dirgli oh, lo so che non sembro religiosa – qualsiasi cosa ciò significhi – e non osservo la halacha in senso tradizionale, ma ogni volta che mangio un’insalata tra il tramonto del venerdì e il tramonto del sabato sono perfettamente a conoscenza di tutti diversi modi in cui sto violando il divieto di selezionare? O che organizzo la mia agenda annuale in base alle feste ebraiche, “come uno studente di yeshiva”, come amano scherzare i miei migliori amici?
La risposta secca alla domanda – “Sei religiosa?” – è no. Ma la faccenda non finisce qui. Non per me, e non per molti millennial come me. Rappresentiamo un nuovo tipo di Ebreo, siamo religiosamente alfabetizzati, ci interessiamo profondamente di Dio, della fede e dei rituali per le nostre proprie ragioni.
“Beh immagino”, ho iniziato, seduta sotto il cielo di Gerusalemme, “che non mi si possa classificare come religiosa in senso tradizionale”, ho detto, indicando i miei jeans e le mie clavicole quasi scoperte, tanto per avviare il discorso. “E la mia osservanza oggi è tutt’altra cosa rispetto a quella della mia infanzia. Ma il mio calendario interiore segna sempre il tempo ebraico. Ha senso quel che ti sto dicendo?”.
“So esattamente a cosa ti riferisci”, ha riso l’ex studente di yeshiva mescolando il suo latte macchiato. “Io stesso non avrei saputo dirlo meglio”.
Rachel Delia Benaim è reporter ed editor presso weather.com. Ha pubblicato diverse inchieste sull’intersezione tra religione e genere su The Washington Post, The Guardian e Tablet Magazine, tra gli altri. Potete leggere il suo blog qua.