Il poeta della new wave israeliana è mancato qualche giorno fa. Ritratto di uno scrittore dissacrante, disincantato, rigoroso e anche un po’ burbero. Con qualche verso in regalo
Il poeta Natan Zach è morto qualche giorno fa, soltanto un mese prima di raggiungere il traguardo dei novant’anni. Purtroppo la malattia lo aveva sottratto già da alcuni anni alla poesia e alla scrittura in generale, ma la sua assenza pesa come un macigno sulla cultura d’Israele, la quale si vede lentamente spogliata, una dopo l’altra, delle figure che ne hanno plasmato il volto così come tutti lo conosciamo.
Spesso i poeti, per la loro sostanziale irrilevanza sotto un profilo commerciale, dimorano nelle retrovie e i loro nomi salgono alla ribalta delle cronache solo in occasione del premio Nobel o di circostanze altrettanto eccezionali (vedi Louise Glück). Eppure ci sono poeti che hanno impresso un segno indelebile nella storia della letteratura, soprattutto nel Novecento, al punto che non è possibile prescindere dai loro nomi, famosi o meno. Al punto che non è possibile prescindere dalla loro voce lucida, disincantata, capace di illuminare con un solo verso la nostra realtà. Natan Zach è sicuramente tra questi. Forse lo è stato ancor di più nei suoi ultimi anni, quando la sua poesia è divenuta “una poesia del disagio”, per usare le parole del traduttore e studioso italo-israeliano Ariel Rathaus. A onor del vero, l’intera opera di Zach è attraversata da questo sentimento acuto e sottile di scomodità: nel rapporto con l’altro, nell’amore, nella realtà d’Israele.
Nato in Germania, nel 1930 a Berlino come Harry Seitelbach, da padre ebreo-tedesco e madre italiana, con l’ascesa al potere del partito nazionalsocialista, Zach era emigrato con la famiglia nella Palestina del Mandato britannico nel 1936, lo stesso anno di Yehuda Amichai, un altro straordinario poeta della stessa generazione. Quest’evento ha segnato in maniera indelebile la sua esistenza (“Hitler ancora scorre nelle mie vene”, scriverà anni dopo), configurandosi come un fatto traumatico nella sua poesia (“ma io mi accontento di gridare nel sogno”). Zach è considerato il leader di quella che è stata definita la new wave della poesia israeliana, nata intorno agli anni ’50 e destinata a rivoluzionare per sempre la letteratura dello Stato ebraico. Vicino alla lezione dei modernisti inglesi e americani, la sua poesia, infatti, è caratterizzata da uno stile nudo, dissacrante e colloquiale, lontano da ogni sentimentalismo e da ogni retorica. Per questo motivo, molto spesso è stato avvicinato a Yehuda Amichai, benché in realtà vi siano tra di loro grandi differenze. Zach, infatti, è riflessivo, “filosofico” (pashut ve-filosofi, “semplice e filosofico” intitolava il New Republic nel 1983), mentre Amichai è più immediato e “carnale”. Inoltre, mentre Amichai ha saputo ben interpretare i sentimenti e gli umori dell’opinione pubblica israeliana, divenendo poeta nazionale d’Israele, nelle sue liriche Zach ribadisce sempre la propria condizione di “uomo in viaggio” e di apolide, iniziata nell’infanzia (“parlare quattro lingue al di sotto di sei anni è pure / cosa che confonde, una torre di Babele che a malapena deambula”) e irrimediabilmente portata avanti in età adulta. Dal 1968 al 1979, infatti, visse in Inghilterra, dove completò i suoi studi; di ritorno in Israele, insegnò nelle università di Tel Aviv e Haifa e svolse un incarico di grande prestigio presso i teatri Ohel e Carmi. Notevole è inoltre la sua opera di traduttore; si ricordino in particolare le sue traduzioni di Allen Ginsberg, di Else Lasker-Schüler e delle canzoni popolari arabe, queste ultime realizzate in collaborazione con Rashid Hussein.
Relativamente tardi giunsero per Zach i riconoscimenti ufficiali: nel 1995, infatti, grazie alla raccolta Keivan She-Ani Ba-Svivah (“Giacché sono nei paraggi”), vinse il prestigioso Premio Israele, mentre nel 2000 per l’antologia Sfavorevole agli addii (Donzelli Editore, 1996, traduzione di Ariel Rathaus) gli è stato conferito il Premio Internazionale di Poesia Camaiore. Oltre a questo volume, in italiano è disponibile anche la raccolta Sento cadere qualcosa: poesie scelte 1960-2008, magistralmente tradotta da Ariel Rathaus e pubblicata da Einaudi nel 2009. Altre poesie sono incluse in Poeti israeliani, curata sempre da Rathaus per Einaudi nel 2008 e purtroppo reperibile soltanto nelle biblioteche.
Un piccolo aneddoto personale: Natan Zach era noto anche per il suo carattere deciso e, talvolta, burrascoso. Tra il 2006 e il 2007 stavo completando la redazione di un’antologia di poesia d’amore ebraica e, ovviamente, nel piano del libro avevo previsto alcuni testi di Natan Zach. Perciò l’editore lo aveva contattato per chiedergli il permesso, pur conoscendo la sua ritrosia a essere inserito in lavori antologici, nella speranza che cambiasse idea. Di fronte alla richiesta diretta da parte dell’editore, Zach aveva chiesto qualche giorno per riflettere, ma quando aveva saputo che nella storia della casa editrice c’erano state ‒ seppur soltanto in origine ‒ alcune pubblicazioni religiose ‒ aveva rifiutato in maniera categorica. Da laico radicale qual era, non avrebbe mai potuto accettare una cosa simile. Così, a malincuore, abbiamo dovuto rinunciare. Quelle traduzioni, però, le conservo ancora e voglio proporne una qui, per ricordare a me stessa e a tutti voi, che se gli uomini tristemente passano, le loro parole almeno sono destinate a rimanere.
Il dolce dolore / Natan Zach
Il dolce dolore dell’amore lo vorrei sentire ancora,
ancora il dolce dolore che da tempo non ho conosciuto. Sono sceso la sera
in strada a comprare il giornale, e sono tornato dopo aver sbirciato i titoli. Adesso
leggerò. Piano. Alla luce della lampada. Il dolore che una volta ho conosciuto
vorrei conoscerlo ancora. Le mie mani sfogliano le pagine in fretta: perché non
sfugga, piano, perché non si affretti. Il dolore. Ho riordinato la stanza. Ho appeso la camicia
nell’armadio, ho cancellato della polvere immaginaria dal libro che leggo
ormai da tre mesi. Ho cercato di concentrarmi. Sono uscito in terrazzo. Ho sorriso
e le mie mani, febbrili, avvilite, hanno cercato tutto il tempo scuse, ragioni. Lo
so. Io so tutto quanto. Ho potuto viaggiare. Mi sono ascoltato bisbigliare a me stesso
parole di conforto.
La stanchezza della sera è più di un risarcimento per un altro mese che è passato.
Ricordo come sedevo con lui al caffè nella pioggia ‒ mi pare all’inizio dell’inverno. Non un solo stelo verde è spuntato
nella cenere delle mie guerre. La pioggia era forte
e non passava nemmeno un taxi. Siamo usciti piano e siamo rimasti in piedi, le schiene piegate. Allora stavo per sposarmi e la pioggia batteva,
volevo correre a casa perché in mano avevo un pacchetto con un regalo, ma non volevo che lui se ne accorgesse,
perciò borbottai qualcosa quando mi chiese, non ricordo più cosa, e quando si calcò il cappello
sulle orecchie rinserrandosi dentro il suo spesso e grezzo cappotto invernale
come restituendosi con forza a se stesso, guardai di sfuggita l’orologio
per vedere quando mai sarei arrivato a casa, ma lui non vide perché era preso da se stesso
e io da me stesso e avevo un pacchetto nella mano e c’era pioggia per strada e il dolce
dolore il dolce
dolore