Hebraica Nizozot/Scintille
Piquach nefesh, il primato della vita

Filosofia e halakhah per affrontare l’attuale pandemia

Eccoci di nuovo nel bel mezzo della pandemia. Può la tradizione ebraica esserci di aiuto, soprattutto dinanzi ai dilemmi etici che l’emergenza pone? Come conciliare il bene comune, ossia la tutela della salute pubblica (del maggior numero di persone), con il diritto alla libertà degli individui (incluso il diritto a lavorare per procacciarsi un salario)? Come rispettare i processi democratici a fronte dell’urgenza delle decisioni politiche, e chi decide nello stato di emergenza? Come gestire il rischio dei contagi e come agire nel caso in cui, il Cielo non voglia, si dovesse scegliere a chi dare la precedenza nelle cure, in casi di sovraffollamento nei reparti di terapia intensiva? Domande difficili, eticamente inquietanti, nelle quale nessuno ha diritto di imporre il proprio sistema di valori a chicchessia… e tuttavia può rendersi necessario avere un sistema valoriale. Nessuno più dire, come insegna il Talmud, che “il sangue di uno è più rosso del sangue di un altro” – fuor di metafora, che una vita vale più di un’altra – senza venir meno a quella decenza morale per la quale ogni vita è sacra e ogni malato va curato senza discriminazioni di alcun tipo.

Questo primato assoluto della vita umana è stato tradotto dalla fede ebraica nell’espressione piquach nefesh, ossia il principio dell’halakhà che afferma il dovere sempre e comunque di salvare una vita. Il rabbino Adin Steinsaltz z”l ha scritto:

Lo sforzo di salvare una vita umana sospende e sostituisce tutti i comandamenti della Torà, sia positivi sia negativi, ad eccezione delle proibizioni dell’idolatria, dell’assassinio e delle più gravi trasgressioni sessuali. Quando la vita di una persona è in pericolo, non si deve perdere tempo in lunghe discussioni; piuttosto bisogna immediatamente adoperarsi per salvare quella vita.

Nessuno prenda queste mie riflessioni come indicazioni halakhiche: i maestri di halakhà sono i rabbini e solo a loro spetta, nel e per il mondo ebraico, il compito di fissare norme vincolanti o criteri per l’agire concreto. Noi possiamo, tuttavia, volgerci a questo principio di cui parla la giurisprudenza religiosa ebraica e vedere se esso possa illuminare il nostro presente e calmare le nostre angosce, e ispirarci dinanzi ai dilemmi dell’ora presente. Si tratta anzitutto di capire come la salvaguardia della vita, attraverso misure collettive tese a prevenire la diffusione del virus (sebbene non letale per tutti), prenda la precedenza su altri diritti o valori. L’halakhà afferma: piquach nefesh docheh et ha-kol, ossia la salvazione di una vita pone in secondo piano tutto il resto; il verbo ebraico indica differire, rimandare o rinviare; non significa negare o annullare. Precedenza indica una priorità, che alla fine giova anche ai diritti e ai valori che ora e momentaneamente sono posti in attesa, posticipati. Nel linguaggio ebraico significa che tutte le mitzwot, i precetti comandati da Dio, possono essere momentaneamente trasgredite – o addirittura dovono essere trasgredite – al fine di salvare una vita in pericolo di spegnersi. La base testuale del principio di piquach nefesh è Vaiqrà/Lv 18,5: “Osserverete dunque le mie leggi e i miei statuti, seguendo i quali l’uomo ha vita, Io sono il Signore”. Tutti i grandi commentatori, a cominciare da Rashi e Maimonide, hanno esplicitato: i precetti divini sono dati affinché l’essere umano viva mediante essi, e non muoia a motivo di essi. Pertanto, se occorre trasgredire un precetto – persino quel precetto altamente sintetico della fede dell’ebraismo che è lo shabbat – ebbene, si trasgredisca lo shabbat piuttosto che rischiare di far perire una vita umana.

Certo, come sempre sul piano concreto, un principio ha da essere contestualizzato e articolato. Piquach nefesh, nei testi della tradizione, si riferisce solo agli ebrei o anche ai non ebrei? (Domanda legittima, si noti, dato che in ogni sistema legal-religioso le norme valgono soltanto per chi rientra in quella sfera giurisdizionale, non per chi ne sta fuori: il diritto canonico vale solo per i cattolici, la shaaria solo per i musulmani, ecc.). Se il Talmud non è sempre chiaro su questo punto, il rabbino catalano Menachem Meiri nel XIII secolo afferma che “ai nostri giorni” è ovvio che il principio si applica sia agli ebrei sia ai non ebrei! Ancora: i precetti trasgredibili sono solo quelli negativi (del non-fare) o anche quelli positivi (del fare)? E qual è il grado di rischio per cui si può dire che la vita è davvero in pericolo? (Un infarto non è identico a un mal di denti…). E poi, il rischio effettivo dev’essere immediato o solo potenziale? Inoltre, come ha ricordato rav Steinsaltz, anche il precetto di piquach nefesh sembra avere dei limiti: le tre più gravi trasgressioni (idolatria, omicidio, incesto…) che fondano e presidiano lo stesso valore della vita.
Il Talmud babilonese, trattato Yomà 84a-85b, discute queste emergenze affermando che lo shabbat si può trasgredire, al fine di permettere in futuro – a una vita salvata – di celebrare molti altri shabbatot. Ma ciò vale anche se il rischio è solo potenziale? I rischi potenziali rientrano nel caso di una pandemia, e qui chi valuta i rischi non sono i rabbini ma i medici e gli esperti; inoltre molte decisioni ricadono sui responsabili della comunità civile, sui governanti. Secondo il rabbino conservative Robert Harris il criterio del piquach nefesh va adottato senza esitazione anche nel caso di un rischio potenziale. Tale criterio, sostiene rav Harris, non regola i doveri dell’uomo verso Dio ma i doveri dell’uomo verso il suo prossimo:

Alla luce del rischio di contagio con conseguenze potenzialmente mortali, e in ogni caso con conseguenze serie e gravi, ogni precauzione è necessaria e obbligatoria… Occorre applicare alla vita religiosa la chumrà, l’interpretazione stringente, che in questo caso significa davvero restringersi, fare tefillà nel privato della propria casa piuttosto che esporre se stessi o altri al rischio di contagio.

In questo caso Dio è santificato più dalla nostra auto-restrizione (tzimtzum) che dallo svolgersi della normale routine religiosa.
Il termine ebraico chumrà indica gravità e rigore; viene da una radice che porta soprattutto il significato di argilla e di materia. Si intuisce che tale gravità ruota attorno alla nostra corporeità, intesa come dimensione materiale senza la quale non esisterebbe neppure la dimensione spirituale. L’halakhà è sempre attenta a questa materialità/corporeità. Nella Guida ai perplessi Maimonide ripete che tutti i precetti sono stati dati affinché l’essere umano consegua tanto il benessere del corpo quanto il benessere dell’anima, ma insiste sul fatto che senza benessere del corpo non si dà neppure benessere dell’anima. Il valore della vita – o meglio della santità di ogni vita umana – deriva, nel giudaismo tutto, dalla convinzione che l’essere umano è creato be-tzelem Elohim, a immagine di Dio benedetto; e che Dio ama e vuole la vita, mai la morte; pertanto, è dovere morale, religioso e giuridico prevenire che la vita sia messa in pericolo o anche solo che un individuo possa essere “deprivato di chayè sha’à”, della sua durata minima e naturale. Scrive rav Walter Wurzburger, allievo di rav Joseph Soloveitchik: “La preoccupazione per la santità della vita ci obbliga a utilizzare le risorse disponibili per tutti i pazienti che ne hanno bisogno, senza riguardo al loro status sociale”, cioè alla loro condizione economica, alla loro età, ecc. L’etica medica, ci ricorda questo maestro, non è una scienza esatta e i casi specifici sono infiniti. Per questo l’halakhà afferma i criteri generali ben sapendo che ogni caso è diverso da un altro. Tenere insieme principi generali mentre facciamo fronte alle emergenze particolari è la sapienza che ci viene richiesta oggi.

Massimo Giuliani
collaboratore

Massimo Giuliani insegna Pensiero ebraico all’università di Trento e Filosofia ebraica nel corso triennale di Studi ebraici dell’Ucei a Roma


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