Chi è davvero Jonathan Pollard, ebreo americano condannato all’ergastolo per spionaggio a favore di Israele. Dove ora, dopo 35 anni, sta per tornare. Trionfalmente accolto da Ganz e Netanyahu
Le immagini di questi giorni sembrano non avere nulla a che fare con quelle di trentacinque anni fa. Allora, un uomo ancora giovane ma che non era mai sembrato tale fino in fondo, dal fisico smilzo se non segaligno, dallo sguardo tipico di un nerd, in sostanza uno smanettone, una talpa ma dei libri, dagli occhiali di grandezza sproporzionata rispetto al volto, con un paio di baffetti insignificanti e un modo di vestire grigio tipico di funzionario d’apparato, osservava quella polaroid che lo immortalava in una foto insignificante quanto il suo apparente profilo estetico. Oggi, dopo oramai molto tempo dalle vicende di cui fu protagonista, si vede invece un ultrasessantenne ingrassato, con la kippà in testa, i capelli radi ma lunghi, una barba folta e imbiancata, come l’effetto prodotto dalla neve quando è lievemente spruzzata, al pari di un manto superficiale, su di un terreno oramai invernale. Goffo sembrava allora, impacciato sembra ancora esserlo oggi.
Peraltro, pochi in Italia ricordano la vicenda di Jonathan Jay Pollard. Partiamo dal suo esito ultimo. La Commissione federale degli Stati Uniti per la libertà vigilata ha da poco emesso un pronunciamento che pone termine alle restrizioni ancora vigenti alla sua libertà, poiché altrimenti ancora prigioniero federale, sia pure in regime di autonomia vigilata. Il Dipartimento della giustizia, il 20 novembre, si è a sua volta pronunciato a favore della decadenza delle residue limitazioni nel confronti dell’oramai ex detenuto. Incarcerato nel 1987, condannato all’ergastolo per spionaggio con la possibilità di godere dei benefici della condizionale trascorsi trent’anni, nel 2015 Pollard era stato rilasciato dal carcere del Nord Carolina, andando quindi a risiedere a New York, con l’obbligo di portare un braccialetto elettronico, l’impossibilità di uscire dal domicilio domestico dalle 19 di sera alle 7 del mattino, di parlare con la stampa e il vincolo di non incontrare persone e frequentare luoghi indicatigli con millimetrica precisione dai suoi tutori legali. Da tempo aveva detto che se fosse stato definitivamente “liberato” si sarebbe recato in Israele, promettendo, a sé e al pubblico, che da allora in poi si sarebbe dedicato esclusivamente alla conduzione «di una vita più produttiva possibile», cercando di «lasciarsi alle spalle» la sua stessa storia.
Jonathan Jay Pollard, infatti, è stato il protagonista di uno dei più famosi e sorprendenti casi di spionaggio a favore d’Israele. Una vicenda che a lungo ha condizionato diversi aspetti delle relazioni diplomatiche israelo-americane. Poiché i segreti li aveva rubati al suo paese d’origine, per l’appunto gli Stati Uniti. Nel 1987, infatti, dopo un tumultuoso iter giudiziario, era stato il primo – e a tutt’oggi unico – americano ad essere condannato all’ergastolo per intelligenza con un paese alleato di Washington. In base all’Espionage Act, il complesso delle norme che regolano anche il trattamento penale dello spionaggio, Pollard, riconosciutosi in patteggiamento colpevole dei capi di imputazione ascrittigli, aveva ricevuto la durissima condanna. A parziale giustificazione della sua condotta aveva dichiarato che la sua attività di trafugamento e di trasmissione di documenti e dati, rigorosamente top secret, derivava dalla consapevolezza che «l’establishment dell’intelligence americana [avesse] messo in pericolo collettivamente la sicurezza di Israele nascondendo[le] informazioni cruciali». La vicenda, che a suo tempo era stata causa di parecchia maretta tra Gerusalemme e Washington, aveva quindi portato il governo israeliano, alla fine degli anni Ottanta, a porgere scuse formali all’Amministrazione Reagan. Una decina d’anni dopo era poi stato ufficialmente riconosciuto il fatto che Pollard avesse ricevuto somme in pagamento per la sua attività di talpa a favore d’Israele. Paese che nel 1995 gli aveva concesso l’agognata cittadinanza
Ricostruita la cronaca spicciola, chi è Jonathan Pollard? Nato a Galveston in Texas nel 1954 da una famiglia di ebrei americani, figlio di tre fratelli, con un padre docente universitario di microbiologia, fin da giovane era rimasto colpito dalla tragedia della Shoah, ricevendo un’educazione laica ma fortemente ispirata ad un’identità dove Israele ed il sionismo ricoprono un ruolo fondamentale. Per la sua maggiorità religiosa, il Bar Mitvah, aveva chiesto ai suoi genitori di visitare i siti dei lager nazisti in Europa. A sedici anni era quindi andato per la prima volta in Israele, all’interno di un programma di scambi studenteschi che lo aveva portato al Weizmann Institute of Science di Rehovot. Alcuni lo ricordano come un giovane litigioso e con un carattere umbratile. Negli anni degli studi universitari, essendosi poi laureato in scienze politiche alla Stanford University nel 1976, in più di un’occasione aveva millantato la doppia cittadinanza israelo-statunitense. Diceva di sé d’essere stato un collaboratore del Mossad, di avere raggiunto – con una tanto sorprendente, celerissima quanto inverosimile carriera – il grado di colonnello dell’esercito israeliano, di essere inoltre figlio di un agente della Cia nonché profugo dalla Cecoslovacchia (affermava di avere abbandonato Praga nel 1968 durante l’invasione sovietica) e quant’altro.
Nessuna di queste affermazioni corrispondeva alla realtà dei fatti. Semmai andava a ricalco di una fervida fantasia. Così come i tentativi di proseguire gli studi e conseguire titoli superiori alla laurea breve già ottenuta, non si tradussero nel raggiungimento di alcun meta significativa. Nel 1979, intanto, Pollard aveva comunque iniziato a fare domanda di accesso alle scuole di formazione delle agenzie di intelligence americane. La Cia lo aveva rifiutato, dopo che egli stesso aveva riconosciuto, dinanzi alla prova del poligrafo, di fare uso di sostanze stupefacenti. La marina militare, invece, lo ammise come analista al suo corso di formazione, e lo inserì successivamente nel Navy Field Operational Intelligence Office, un dipartimento operativo del Naval Intelligence Command. Nel dedalo di strutture di spionaggio e controspionaggio dei servizi statunitensi, era stato assegnato al bureau che seguiva gli affari sovietici, presso il Navy Ocean Surveillance Information Center e poi al Naval Intelligence Support Center. Come le indagini svolte successivamente al suo arresto avrebbero accertato, i riscontri di sicurezza sulla sua persona erano stati non solo blandi ma lacunosi, permettendogli quindi di accedere a livelli di riservatezza che, altrimenti, gli sarebbero senz’altro stati negati.
Nell’ambiente dell’Intelligence Pollard continuò per lungo tempo a cercare di accreditarsi come uomo network, capace di stabilire contatti e di rendersi proficuo per le agenzie nelle quali era inserito. Anche in questa fase della sua vita proseguì nell’enfatizzazione delle sue capacità e dei rapporti che millantava di potere coltivare, suscitando le prime perplessità tra alcuni suoi colleghi e superiori. Eppure, l’indolenza delle amministrazioni del personale dell’Intelligence, gli evitò in più di una occasione il licenziamento, benché i giudizi formulati nei suoi confronti dai valutatori non fossero per nulla lusinghieri. La Cia, al riguardo, ne aveva consiglio il demansionamento, mentre il suo direttore militare, l’ammiraglio Sumner Shapiro, ne aveva chiesto la rimozione dagli incarichi. Di fatto, l’unico effetto che si ottenne fu una riduzione del suo livello di operatività e di accesso alle informazioni sensibili
Con il tempo, Jonathan Pollard fu quindi trasferito all’incarico di analista per il comando centrale dell’Intelligence navale, sia pure in una posizione relativamente secondaria se non defilata. L’incontro con Aviem Sella, colonnello veterano dell’aviazione israeliana, all’epoca negli Stati Uniti per conseguire un master in informatica, fu determinante per l’evoluzione degli eventi. Pollard gli parlò infatti del suo ruolo professionale e menzionò casi specifici nei quali l’Intelligence americana avrebbe violato gli interessi israeliani. Sella, abile volpe e scaltro collaboratore dei Servizi israeliani, per nulla sorpreso, con tutte le cautele del caso – temendo infatti un’azione di reclutamento della sua persona da parte del Federal Bureau of Investigation o comunque in un inganno – con discrezione informò le autorità del suo paese. Che lo autorizzarono a coltivare il “contatto”, per verificare cosa ne sarebbe potuto derivare. Come in tutte le operazioni di questo profilo, ad essere informate e coinvolte erano poche persone di fiducia.
Dal giugno del 1984, quindi, Pollard iniziò a trasferire con costanza informazioni riservate a Sella. In cambio di somme di denaro non particolarmente alte ma sufficienti a garantirgli un tenore di vita superiore a quello altrimenti concessogli dal suo solo stipendio e da quello della moglie Anne Henderson, sposata – dopo una discontinua frequentazione e una convivenza di quattro anni – nell’estate del 1985. Il supervisore di Pollard era Rafael Eitan, allora a capo del Lekem (acronimo di ha-Lishka le-Kishrei Mada), unità di intelligence scientifica in Israele, sciolta poi nel 1986. Le indagini condotte sulle azioni di Pollard dopo il suo arresto hanno evidenziato che, in tutta plausibilità, avrebbe venduto, o comunque cercato di vendere, informazioni anche al Sud Africa e al Pakistan attraverso un sistema di triangolazioni che implicava l’intervento di figure terze nelle trattative e nelle negoziazioni. Già nel 1984, peraltro, il sospetto che l’analista militare fosse una talpa al servizio di una potenza straniera era emerso all’interno di indagini condotte riservatamente dagli stessi Servizi americani. Non si era tuttavia ancora capito che ad essere chiamata in causa fosse addirittura Israele. Per un po’ l’Fbi si interessò a lui, perquisendone anche la casa. La moglie Anne risultava in qualche modo compromessa nell’attività del marito. Tuttavia, nonostante il caso stesse gonfiandosi, non c’erano ancora prove certe delle responsabilità della coppia. Messo sotto pressione, isolato dai suoi uffici, privato dei codici di accesso alla documentazione secretata, a quel punto Pollard capì che il cappio si stava stringendo intorno al suo collo. Il 21 novembre 1985, quindi, con un escamotage cercò di ottenere riparo all’ambasciata israeliana a Washington, forzando con la moglie l’ingresso e venendo immediatamente respinto con veemenza dagli agenti di guardia. Negli attimi successivi, i funzionari dell’Fbi che gli stavano alle calcagna, lo arrestarono.
In seguito, Rafael Eitan, nel corso di un’intervista pubblica resa nel novembre del 2014, avrebbe affermato pubblicamente che un piano di esfiltrazione gli era stato comunque garantito, senza tuttavia che Pollard se ne fosse concretamente avvalso («ha vagato per tre giorni […]. Ha avuto molte opportunità di fare quello che gli ho detto e non lo ha fatto»). Il medesimo Eitan, infatti, sapeva in anticipo dell’arresto, avendo informato di ciò l’allora premier Shimon Peres e il ministro della Difesa Yitzhak Rabin. Era tuttavia fuori discussione che Pollard potesse uscire dagli Stati Uniti per vie legali, usando i canali dell’asilo diplomatico, a causa del clamore politico che ciò avrebbe immediatamente causato. La moglie Anne, dopo essersi rivolta ad Aviem Sella, fu arrestata il giorno successivo a quello della cattura del marito, mentre quella parte del personale diplomatico israeliano coinvolto nella gestione dell’affaire Pollard, abbandonò precipitosamente il territorio statunitense. In ventiquattro ore tutto si era compiuto.
Le successive indagini per l’incriminazione e il processo misero in rilievo una ramificata attività di vendita di segreti di rilevanza intermedia, non avendo Pollard accesso ai livelli più alti dell’Intelligence. Dei molti documenti, e delle copie dei segreti, che l’oramai ex analista della Marina aveva passato ad Israele, buona parte non fu mai restituita da Gerusalemme. A quel punto Pollard aveva però già deciso di collaborare con le autorità americane, per arrivare ad un patteggiamento sia per sé che per sua moglie. Nel maggio del 1986 sottoscrisse quindi un accordo per il quale, dichiarandosi colpevole di «cospirazione nella trasmissione di dati sensibili relativi alla difesa nazionale ad un governo straniero», accettava le condizioni dettategli della autorità senza correre il rischio di essere accusato di ulteriori crimini. Tuttavia, poco prima di essere condannati, i coniugi Pollard cercarono di attirare l’attenzione pubblica su di sé, nel tentativo di difendersi pubblicamente dall’accusa di spionaggio, attribuendo inoltre la loro condotta ad un «obbligo morale» verso Israele e, più in generale, nei confronti del mondo ebraico. La tesi di fondo era che solo la solidarietà tra correligionari e con Gerusalemme avrebbe preservato gli ebrei medesimi da future catastrofi.
L’accusa, formulata in un processo a porte chiuse, fu a quel punto particolarmente dura nei loro confronti, affermando che dietro le condotte assunte vi era un mero calcolo di interessi personali – sostanzialmente il denaro – oltre ad un atteggiamento sleale nei riguardi del loro paese e ad una visione distorta delle relazioni professionali e interpersonali. L’imputato era presentato come «un personaggio egoista e goloso che cercava ricompense economiche e gratificazione personale». Il 4 marzo 1987 Jonathan Pollard fu quindi condannato all’ergastolo, senza tuttavia quel processo pubblico ritenuto altrimenti troppo rischioso per il clamore che avrebbe determinato. Determinate fu il giudizio, contenuto in un memorandum redatto ad hoc, dagli uffici del Segretario alla difesa Caspar Weinberger, nel quale si parlava di grave danno all’immagine e alla sicurezza degli Stati Uniti. Dalla moglie Anne – condannata a cinque anni e poi liberata in ragione di problemi di salute dopo averne scontati tre – Pollard divorziò negli anni successivi, sposando quindi Esther «Elaine» Zeitz, insegnante canadese e attivista nella campagna di liberazione («We want Pollard home») che a partire dalla fine degli anni Ottanta prese vigore in Israele e nei paesi di lingua inglese, con il sostegno di personaggi del calibro del noto avvocato Alan Dershowitz. La tesi di fondo era che l’ex analista avesse fornito segretamente informazioni sì vitali per la sicurezza israeliana ma non per quella statunitense; agli Stati Uniti, ed in particolare al Pentagono, era inoltre attribuita la responsabilità di avere violato parti del memorandum di intesa e collaborazione sull’intelligence (il «Memorandum of Understanding») sottoscritto nel 1983.
Peraltro, nella ridda di dicerie, impressioni, gossip e incertezze assortite, c’è chi sostiene che Jonathan ed Esther non si fossero mai legalmente coniugati. Rimane il fatto che Anne Henderson si sia poi successivamente trasferita in Israele. Sul piano legale, oltre che politico, le attività per fare in modo che Pollard ottenesse la grazia, o comunque una revisione della condanna, sono proseguite nel corso del tempo, sia attraverso un lungo conflitto legale che con il susseguirsi di iniziative di sensibilizzazione pubblica. Lo stesso Stato d’Israele, senza troppo clamore, in più di una occasione ha proposto ai partner americani uno scambio di spie, per ottenere il rilascio (e la «deportazione» a Gerusalemme) del prigioniero. Fino al 1998 – peraltro – la posizione ufficiale dei governi israeliani era che Pollard avesse lavorato non per le autorità bensì per organizzazioni non autorizzate. Nel 2002 Benjamin Netanyahu lo aveva comunque visitato in carcere, assumendo poi, cinque anni dopo, l’impegno formale di adoperarsi per la sua liberazione. Le petizioni in tal senso, già espresse nel 1995 anche dal governo israeliano, per il tramite dell’allora premier Rabin, poi succedutesi con altre amministrazioni, erano state comunque sempre rigettate da Washington.
I critici di Pollard hanno peraltro sempre affermato che i suoi moventi, parte stessa di un malinteso senso di fedeltà verso Israele, fossero da ricercarsi soprattutto nel desiderio di un arricchimento facile e in una sostanziale instabilità emotiva se non addirittura mentale, che lo portava a non essere credibile a prescindere. Al riguardo, tra i tanti, l’autorevole commentatore di New Republic Martin Peretz, ha scritto che: «Jonathan Pollard non è un martire ebreo. È un agente di spionaggio condannato che ha spiato il suo paese sia per Israele che per il Pakistan; una spia, inoltre, che è stata pagata per il suo tradimento. La sua carriera professionale, quindi, puzza di infamia ed è soffusa di depravazione». Peretz ha poi duramente stigmatizzato i sostenitori di Pollard, definendoli come «vittime di professione, per lo più brutali loro stessi, che provengono dalla destra ultra-nazionalista e religiosa. Sono insaziabili. E vogliono che l’America sia il capro espiatorio di Israele» (così in «Mr. President: Do Not Free Jonathan Pollard», in The New Republic, edizione del 25 dicembre 2010). Lo stesso Joe Biden, allora vicepresidente nell’Amministrazione Obama, si era comunque espresso contro la sua liberazione anticipata.
La liberazione effettiva di Pollard, avviatasi nel 2015, ha seguito quindi l’iter legale previsto per le condanne federali all’ergastolo. Se dopo trent’anni dal momento della condanna non sono state violate norme carcerarie e se il detenuto non presenta rischi di recidività o di reiterazione dei crimini, può essere rilasciato sulla parola, pur con una serie di vincoli alla libertà personale e in un regime di autonomia personale vigilata. E così, nei fatti, è avvenuto. Peraltro, i segreti dei quali a suo tempo era venuto in possesso e che aveva poi trasmesso ad una “potenza straniera”, non avevano più alcun valore per la sicurezza nazionale. Il 20 novembre di quest’anno, quindi, il dipartimento alla Giustizia ha definitivamente decretato che Pollard possa considerarsi cittadino senza più limiti alla sua libertà.
Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.