Nelle settimane che precedono Hanukkah intorno a questi dolci sono impegnati non solo artigiani e aziende, ma anche i tanti lavoratori che si occupano del trasporto, della distribuzione e della vendita nel corso delle otto giornate di festeggiamenti
No, non sono stati gli ebrei a inventare le ciambelle. Di sicuro, però, hanno avuto un ruolo chiave nella loro evoluzione nonché diffusione planetaria, dai classici doughnuts alle sufganiyot, tra i dolci per eccellenza di Hanukkah.
Facendo svariati passi indietro nel tempo, la storia delle frittelle inizia con i primi pasticcieri della storia, in epoca antica. Pare che già Greci e Romani fossero soliti cuocere nell’olio bollente strisce di pasta che poi venivano ricoperte di miele. Dal canto loro, gli Arabi friggevano della pastella calandola nel grasso caldo da un cucchiaio o direttamente dalle mani. Si trattava di composti spesso non troppo dolcificati (anche per non comprometterne la lievitazione) che venivano immersi in uno sciroppo o nel miele solo una volta cotti.
Tra i vantaggi di queste preparazioni c’era senz’altro la semplicità. A differenza della cottura in forno, che richiedeva una strumentazione che sarebbe mancata dalla maggior parte delle case fino alla fine dell’Ottocento, quella nel grasso era infatti alla portata di tutti, visto che bastava un fuoco e una padella profonda. Discorso un po’ diverso valeva invece per gli ingredienti, quelli sì non sempre facilmente reperibili. A cominciare dallo zucchero, che per secoli sarebbe stato un prodotto assolutamente di lusso, ma anche dai tuorli, essenziali per dare agli impasti la giusta consistenza e impedire che si intridessero di grasso. E se per le uova il momento chiave sarebbe stato il tardo Medio Evo, con l’affermarsi in Europa dell’allevamento dei polli, per recuperare dello zucchero a prezzi accessibili sarebbero state decisive le piantagioni caraibiche del XVI secolo.
È dunque anche per questo motivo che le frittelle fin dall’inizio furono comunque riservate alle occasioni di festa. Per gli ebrei, in particolare, le date chiave diventarono le otto giornate di Hanukkah, celebrate per tradizione in cucina con una fantasmagoria di prodotti fritti. Tale usanza, legata al prodigio della Menorah, alimentata per otto giorni da una sola ampolla d’olio, pare si perda nella notte dei tempi, anche se la festa in sé avrebbe assunto i connotati odierni, soprattutto per quanto riguarda gli Stati Uniti, solo nel Novecento. Tra le novità di questo stesso secolo, ci sarebbe anche l’affermazione di quel tipo particolare di frittella che sono le sufganiyot.
Per capire il loro successo, bisogna fare di nuovo un salto nel passato. Se da una parte, infatti, con l’introduzione delle uova negli impasti questi potevano finalmente essere modellabili a piacere, non limitandosi più a piccole porzioni di pasta o a cucchiaiate di pastella da far colare nell’olio caldo, dall’altra c’era il rischio che cuochi e pasticcieri si facessero prendere la mano ambendo a produrre dolci troppo grossi. Questi finivano inevitabilmente col non cuocere all’interno, bruciando invece all’esterno, anche a causa dalla presenza nell’impasto del tanto ambito zucchero.
Per risolvere anche tale problema, si doveva arrivare alla metà dell’Ottocento, con la formulazione della ciambella propriamente detta, quella cioè con il buco, che aggirava, appunto, il problema del centro non cotto. Ad opera, sembra, di tale capitano Hanson Gregory nel 1847, questa geniale trovata avrebbe riscosso velocemente i favori di un pubblico vastissimo, soprattutto negli Usa, in particolare dopo l’invenzione di una macchina per la loro produzione a livello professionale.
Se infatti i doughnuts erano già amatissimi un po’ ovunque, è anche vero che la loro cottura e soprattutto i fumi che ne derivavano non trovavano altrettanti estimatori. Tra le potenziali vittime di tale antipatia c’era, tra gli altri, Adolph Levitt, ebreo russo in fuga dai pogrom zaristi e trasferitosi a New York ai primi del Novecento. Come riportano le cronache del tempo, il signor Levitt rischiava di essere cacciato dal negozietto in cui friggeva ciambelle a Broadway perché gli odori della sua attività davano noia ai frequentatori del cinema adiacente.
Con la collaborazione di un ingegnere, il nostro risolse il problema brillantemente raffinando la sua produzione con la messa a punto di un sistema automatizzato di frittura. Una macchina tanto geniale, la sua, da consentirgli nel giro di pochi anni di allargare l’attività con il lancio sul mercato anche di apposite miscele di farina, nonché con la creazione della Doughnut Corporation of America e soprattutto, nel 1931, della prima catena di negozi di ciambelle, la Mayflower Donuts.
Più o meno nello stesso periodo, nel futuro Stato di Israele si stava affermando un tipo particolare di ciambella, con un cuore di marmellata al posto del buco al centro: la sufganiyah. Conosciuta un po’ in tutto il mondo con i diversi nomi di jelly doughnut, berliner, krapfen o ponchik (solo per citare i più noti), questa delizia ripiena aveva fatto la sua prima comparsa ufficiale in un testo di cucina tedesco del 1485, probabilmente tra i primi ricettari stampati dopo l’invenzione dei caratteri mobili. In questo documento si faceva riferimento a un dolce composto da una porzione di confettura chiusa tra due dischi di pasta fritti poi nel lardo.
La stessa ricetta sarebbe ricomparsa nella versione polacca dello stesso libro, tradotto nel 1532, e anche se non è noto a quando risalisse la sua apparizione nelle cucine, di certo questa preparazione avrebbe in seguito conquistato il globo. La sua diffusione, in particolare, sarebbe passata dalla Germania e la Polonia alla Danimarca e da qui alla Russia, sempre restando appannaggio di festività e ricorrenze.
In particolare, sarebbero stati gli ebrei polacchi a portare i loro pączki (o ponchik, letteralmente “boccioli”), cotti nell’olio o nel grasso d’oca, in Israele. Qui, le frittelle avrebbero cambiato semplicemente il nome, assumendo quello ancora oggi più diffuso nel mondo ebraico di sufganiyot, con un diretto riferimento alla natura spugnosa del loro impasto. Perfetti per celebrare le feste, questi ricchi dolci sarebbero diventati nel giro di pochi decenni le preparazioni più amate per la ricorrenza di Hanukkah, conservando la forma tonda, l’impasto morbido (e, appunto, spugnoso) e la cottura, pur modificando a seconda dei produttori e dei gusti dei consumatori il ripieno e la guarnizione.
Parte di tanto successo va certo attribuito alla loro natura fritta, anche se questo ovviamente non basta a giustificarlo pienamente, visto l’alto numero di concorrenti sfrigolanti che tali leccornie hanno in mezzo mondo. Perché le sufganiyot si affermassero su tutte le altre frittelle dolci o salate, pare che sia stata decisiva la mossa della Histadrut. La federazione dei lavoratori israeliani, fondata nel 1920, verso la fine di quello stesso decennio ne curò infatti la promozione, allo scopo di farli diventare il prodotto di punta per la Festa delle luci.
In particolare, sembra che sia stato fatto di tutto per scalzare da questo primato i latkes.
Proprio perché più semplici da cucinare, le frittelline di patate erano state fino a quel momento la preparazione più rappresentativa per la ricorrenza, facili da realizzare in casa con pochissima strumentazione e ancor minore sforzo. Le sufganyiot, invece, richiedevano un impegno e un’abilità ben maggiore e per questo sarebbe stato più facile delegarne la preparazione ai cuochi professionisti, a tutto vantaggio dei federati della Histadrut. Da semplice golosità casalinga, insomma, le frittelle sarebbero diventate negli anni successivi una questione seria anche dal punto di vista commerciale.
Ancora oggi, nelle settimane che precedono Hanukkah, intorno a questi dolci sono impegnati non solo artigiani e aziende, ma anche i tanti lavoratori che si occupano del loro trasporto e della distribuzione nonché, ovviamente, della vendita nel corso delle otto giornate di festeggiamenti.
Sufganiyot: gli ingredienti
500 g di farina
100 g di zucchero semolato
mezzo cubetto di lievito di birra
sale
60 ml di olio di semi di girasole
2 uova
una bustina di vanillina
olio di semi di arachidi
300 g di gelatina o confettura rossa
zucchero a velo
Mescolare la farina setacciata con lo zucchero e la vanillina, quindi aggiungere l’olio di girasole, le uova e il lievito sciolto in circa 175 ml di acqua tiepida. Impastare con energia e a lungo, aggiungendo un pizzico di farina, fino a ottenere un composto liscio ed elastico. Se necessario, aggiungere altra farina.
Formare una palla, trasferirla in una ciotola unta di olio, coprirla con un telo e lasciarla lievitare in un luogo tiepido ma non caldo fino a quando avrà raddoppiato le sue dimensioni.
Trasferire quindi l’impasto sul piano da lavoro infarinato e stenderlo con un matterello a sua volta infarinato fino allo spessore di circa 1,5 cm.
Ritagliare l’impasto con un coppapasta rotondo di circa 6-7 cm di diametro, lavorando e stendendo nuovamente gli scarti di pasta e ricavandone altri dischi. Lasciarli riposare per 5 minuti, poi cospargerli con poca farina e coprirli con un telo. Lasciarli riposare per 40 minuti in luogo tiepido.
Riscaldare abbondante olio di arachidi in una padella profonda, quindi tuffarvi 3-4 dischetti per volta e cuocerli a fiamma bassa per un minuto e mezzo per lato, voltandoli una volta, fino a completa doratura.
Scolare i sufganiyot su carta da cucina perché perdano l’unto in eccesso, quindi lasciarli raffreddare e farcirli con la gelatina (o confettura) usando una siringa da dolci. Spolverizzarli infine con lo zucchero a velo e servirli.
Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.