Il presidente eletto si presenta come uno degli ultimi esponenti politici di oltreoceano con una visione «atlantica», fortemente legata al rapporto con l’Europa occidentale
«Build back better», ossia «ricostruire meglio»: è questo uno degli slogan che dovrebbero caratterizzare l’azione dell’entrante Amministrazione Biden rispetto agli indirizzi di politica estera. Le promesse che il presidente eletto ed il suo staff hanno fatto rimandano prima di tutto ad un approccio maggiormente multilaterale e meno conflittuale di quello perseguito dal predecessore Donald Trump. All’interno di questa cornice, che indica più un metodo che non concreti indirizzi di azione, si dovrebbe quindi articolare l’insieme delle attività che si rivolgeranno specificamente al Medio Oriente e al Nord Africa. Difficile tuttavia pensare che la politica a venire di Washington possa caratterizzarsi per un’effettiva discontinuità rispetto a quelli che sono divenuti da tempo i maggiori assi dell’intervento americano, ed in particolare l’alleanza strategica con Israele, il consolidamento del rapporto con i paesi arabi del Golfo, il contenimento delle ambizioni turche e della pressione russa, il monitoraggio e l’eventuale ridimensionamento della pressione nucleare iraniana insieme ad un diffuso disimpegno militare diretto.
Di certo, le cose per Biden non saranno comunque facili. L’eredità di Trump avrà un suo peso. Quando nel 2016 entrò alla Casa Bianca quest’ultimo sembrava essere non solo inesperto ma anche incostante e tendenzialmente indifferente alle priorità da assegnare ai target dell’azione statunitense nella regione mediterranea e mediorientale. In quattro anni, tuttavia, ha rivelato l’esistenza di un disegno strategico, che si è composto passo dopo passo, segnando anche una netta discontinuità rispetto all’Amministrazione Obama. Di quest’ultimo, infatti, ha mantenuto e poi ulteriormente alimentato l’intenzione di garantire una minore presenza militare diretta. L’attuale stanziamento di truppe, se si parla di contingenti, al netto delle basi permanenti, ossia rifacendosi alle sole missioni in corso, riguarda millesettecento elementi in Turchia, meno di un centinaio in Libano, altrettanti in Israele e in Giordania, poco meno di un migliaio in Siria, tremila in Iraq, ottocento in Arabia Saudita, duemilatrecento in Kuwait, quattromilacinquecento in Bahrain, seicento in Qatar, duecento negli Emirati Arabi Uniti, meno di un centinaio in Somalia e ottomilaseicento in Afghanistan. Si tratta di gruppi di consiglieri insieme a piccole unità operative.
La disposizione regionale è tale per cui l’Egitto, Israele, la Giordania e l’Arabia Saudita siano da considerarsi, pur nella loro diversità, paesi accomunati dall’essere avversari dell’Iran nel suo progetto nucleare. Differente è invece la posizione turca, assai più sfumata o comunque ambigua, così come quella dell’Oman. Impossibile determinare la collocazione di aree come l’Afghanistan e la Siria e l’Iraq, non trattandosi di entità nazionali sulle quali si eserciti una sovranità unitaria, quest’ultima semmai ancora contesa da gruppi e fazioni contrapposte. Nell’ampia regione, inoltre, tra la Turchia e lo Stretto di Hormuz, fino all’Oceano Indiano, ci sono almeno una ventina tra basi logistiche, transiti aerei e installazioni militari statunitensi.
In un tale scenario, contrassegnato da almeno quindici anni di costante disimpegno diretto, Trump si era allontanato dalla dottrina obaniana del «leading from behind (ovvero «guidando stando in posizione retrostante»). Era infatti quest’ultimo un posizionamento strategico che si caratterizzava per la promozione di conflitti nei quali le truppe americane non avrebbero dovuto rappresentare la parte prevalente delle forze in campo, affidando semmai a unità scelte e a reparti di ridotte dimensioni l’onere di una ristretta operatività. Nei cieli i droni intervenivano a supporto, ma il più delle volte anche e soprattutto in sostituzione, delle forze aeree. Alle eventuali incursioni e ad un impegno che era stato esercitato comunque con estrema parsimonia, in genere non seguiva una presenza sul campo in funzione di assestamento dei nuovi equilibri che, di volta in volta, potevano generarsi. In sostanza, era come una sorta di delega alla “guerra con gli infrarossi”, giocata perlopiù sull’intervento occasionale offerto dal ricorso alla sofisticata tecnologia di cui il Pentagono può disporre.
Alla fragilità dell’impianto politico di tale impostazione – comunque debitoria, anche in campo democratico di un nuovo isolazionismo che, dopo le guerre di Bush e la crisi finanziaria del 2008, è tornato in auge – si accompagnava quindi la volontà di definire un nuovo equilibrio mediorientale basato sulla negoziazione con l’Iran. Trump, per l’appunto, ha fatto piazza pulita di una tale impostazione, caldeggiata a lungo dall’allora segretario di Stato John Kerry, puntando invece sui tradizionali alleati regionali degli Stati Uniti, ossia Arabia Saudita ed Israele, in diretta opposizione a Teheran. Gli obiettivi prioritari erano molteplici: impedire lo sviluppo del piano nucleare iraniano, governare le spinte espansioniste turche e i calcoli putiniani, rafforzare un asse sunnita in funzione antisciita. Da questo quadro, consolidatosi nei quattro anni di presidenza repubblicana, ne è tuttavia uscita del tutto sacrificata la questione palestinese, la cui rilevanza rimane, prima ancora che di natura politica, di ordine simbolico e civile. È in un tale contesto, infatti, che si inseriscono decisioni come il trasferimento dell’ambasciata statunitense a Gerusalemme, l’«accordo del secolo» di Jared Kushner (fortemente orientato a favore degli israeliani), il ritiro americano dall’accordo sul nucleare iraniano (l’JCPOA, ossia il «Joint Comprehensive Plan of Action»), le importanti commesse di armi americane dell’Arabia Saudita e la recente normalizzazione delle relazioni tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein. Gli «accordi di Abramo» sono la sintesi di vent’anni di lavoro diplomatico e di scambi politici sottotraccia. La loro sanzione pubblica costituisce comunque un successo per l’Amministrazione uscente, benché soddisfi solo uno dei molti dossier mediorientali.
Infatti, il quadro regionale, nel suo complesso, rimane caratterizzato da forti tensioni, da un’aumentata propensione alla frammentazione (con la crisi di molti Stati nazionali, già precari di per sé ed ora frantumatisi in protettorati, aree di ingerenza e zone di influenza), da una persistente instabilità legata molto dalla corsa all’occupazione di spazi geostrategici lasciati vuoti, o non presidiati, dagli stessi americani. È pertanto in un tale quadro che si inseriscono le competizioni tra Turchia e Russia, insieme al concorso di attori regionali di minore calibro (a partire dalle milizie contrapposte, perennemente mobilitate), in conflitti armati e guerre per procura.
In un tale contesto, è più che plausibile che Joe Biden non abbia la forza né l’intenzione di mutare radicalmente gli indirizzi impostati dal suo predecessore. Di certo ridefinirà il rapporto con le forze armate, più volte sottoposto a tensioni dall’imprevedibilità delle condotte di Trump. Per l’esercito, il presidente democratico rappresenta, in tutta probabilità, una garanzia di prevedibilità. Non di meno, se si darà una costanza di obiettivi (rafforzamento dell’asse sunnita; mantenimento degli impegni con Gerusalemme; contenimento dell’Iran e del suo progetto nucleare; contrasto mobile e “dialettico” agli eventuali espansionismi di Ankara e Mosca) diverso sarà invece il modo di praticarli, ossia l’approccio e i criteri per sostenerli. Il quadro, per l’appunto, dovrebbe essere maggiormente multilaterale, anche se ciò implicherà lo scaricare una parte dei costi sugli alleati, poiché l’America ha oramai compiuto da diverso tempo la scelta di filtrare e misurare con attenzione ogni intervento, ritenendo l’area mediterranea e mediorientale senz’altro importante ma non tale da sopravanzare l’azione di contenimento della strategia economica espansiva cinese.
Il Sud-Est asiatico è divenuto (ovvero, è ritornato ad essere) per la Casa Bianca il centro d’interesse, anche se non è plausibile pensare che in futuro ne assorbirà tutte le energie. Benché Biden paia disponibile a rinegoziare il ritorno degli Stati Uniti nell’JCPOA, il quadro politico generale è mutato di molto: non c’è garanzia alcuna che gli iraniani si rivelino disponibile ad un’eventuale riconfigurazione, mentre non si potrà non tenere in considerazione il fatto che le sanzioni hanno comunque limitato l’espansionismo iraniano in Libano e nelle aree sciite del conflitto siro-iracheno. La strategia della «massima pressione», voluta da Trump, con l’imposizione di sanzioni e, per l’appunto, con l’uscita unilaterale dall’accordo sul nucleare nel 2018, non sembra comunque avere raggiunto l’obiettivo di far tornare la Repubblica islamica al tavolo delle trattative da una posizione di debolezza. Da ciò, quindi, potrebbe derivare un approccio più morbido di Biden, senza comunque cancellare l’attuale posizione assunta dagli Stati Uniti.
Mentre invece, se il presidente eletto manterrà le promesse, è del tutto plausibile che nel nome del rispetto del diritto internazionale (che è spesso però una foglia di fico sotto la quale coprire altre intenzioni) si eviti l’eccessivo ricorso a sanzioni unilaterali, si privilegino colloqui, mediazioni e quindi concertazioni con gli alleati di sempre, si affermino iniziative pubbliche di scambio e negoziazione. Per ciò che riguarda la triangolazione tra Gerusalemme, Riyad e Ramallah, benché Biden abbia parlato di soluzione dei «due Stati» (in realtà non pienamente smentita neanche da Trump, nonostante chiedesse ai palestinesi un netto ridimensionamento territoriale, riconoscendo le acquisizioni israeliane), caldeggiata quindi dai paesi del Golfo che si rifanno all’iniziativa di pace del 2002 promossa dalla Lega araba e voluta dai sauditi, è del tutto improbabile che le scelte operate da Trump vengano rimesse in discussione. Conterà molto anche quale sarà l’interlocutore israeliano di riferimento. Benché nei prossimi quattro anni è possibile che la stella di Benjamin Netanyahu, uno dei migliori sostenitori della presidenza uscente, declini definitivamente, è al momento difficile capire quale figura della diplomazia e della politica di Gerusalemme possa conquistarsi i favori di Washington. Peraltro pare che lo stesso Bibi, in una recente interlocuzione con il tycoon-presidente, dinanzi ad una richiesta di quest’ultimo abbia risposto: «Presidente, una cosa posso dirti: apprezziamo l’aiuto per la pace da chiunque in America».
Fermo restando, poi, che Biden troverà in Israele un paese che da anni oramai vive una condizione di perenne instabilità politica, di sostanziale fragilità delle sue coalizioni di maggioranza e di assenza, al netto dell’attuale premier, di figure di spicco in grado di sostituirlo nella guida di una società vivace che, tuttavia, a sua volta dovrà scontare gli effetti sociali ed economici di lungo corso della pandemia. L’ambasciata non verrà spostata di nuovo a Tel Aviv benché possa essere aperto un consolato statunitense in Gerusalemme orientale, mentre il rapporto con i palestinesi continuerà a scontare sia la persistente crisi di leadership a Ramallah sia il deficit di legittimazione popolare e democratica delle attuali élite (le ultime elezioni, vinte da Hamas, si tennero ben quattordici anni fa). Mentre la Casa Bianca non potrà non agevolare i passi di ulteriore avvicinamento che intercorreranno ancora tra Gerusalemme e le capitali arabe del Golfo, il rafforzamento di un tale asse sarà comunque ben visto – ancorché se ciò non è mai stato dichiarato apertamente in pubblico – da tutti gli attori sunniti in campo.
Va ancora aggiunto che sul versante degli effetti per i palestinesi, gli accordi di Abramo certificano un insieme di realtà strategiche che esistono già da tempo, tra i quali la marginalizzazione definitiva della stessa «questione palestinese» rispetto all’agenda della geopolitica regionale e il disinteresse di molti Stati arabi in materia; la formalizzazione di relazioni tra Israele e alcuni paesi del Golfo che si sviluppavano da almeno due decenni; la stabilizzazione di un arco di contenimento dell’Iran tra il Mediterraneo e il Golfo Persico. È stato giustamente fatto notare che «gli accordi di Abramo non sono, come alcuni li hanno presentati, una svolta strategica per il conflitto tra arabi e israeliani come furono [invece] gli accordi di Camp David con l’Egitto: la pace fredda egiziano-israeliana ha eliminato il principale problema militare convenzionale per Israele – questa sì una svolta assoluta – mentre l’accordo di normalizzazione diplomatica ha semplicemente formalizzato relazioni esistenti da decenni di paesi che non sono mai stati in guerra [diretta] con Israele».
Un cambio di passo potrebbe invece essere dettato dal metodo: se con Trump prima si annunciava l’accordo quadro, per poi chiedere negoziati, con Biden si tornerà alla più tradizionale concatenazione tra negoziati e successivi accordi. Rispetto ad altre crisi regionali in corso, ed in particolare quella in Siria, in Afghanistan, in Libia e nello Yemen, i margini operativi e di manovra sono molto ridotti. Gli Stati Uniti hanno perso da tempo incisività e determinazione. Un conto è dichiarare, come fa Biden, l’intenzione di rafforzare la presa sul versante negoziale, sul peacekeeping e sul peace enforcement, ed un altro è averne le effettive risorse, negoziando molti passi con il Congresso. Le aree d’influenza, una volta perse, non sono facilmente recuperabili. Semmai Washington dovrebbe esercitare ripetute pressioni sugli alleati chiamati in causa nei conflitti in corso, sapendo però che troverà le loro diplomazie perlopiù recalcitranti.
Comunque, sulla scrivania presidenziale le prime cose che dovranno essere prese in considerazione (al netto dell’emergenza causata dal SARS-CoV-2) sono il rapporto conflittuale con la Cina, le crescenti difficoltà dell’Alleanza atlantica, la ristrutturazione dell’Unione europea, il nuovo legame – da rinegoziare – con il Regno Unito di Boris Johnson, lo scenario africano e mediterraneo laddove Pechino ha molto da dire (e ancora di più da offrire a paesi che, a loro volta, debbono confrontarsi con la lunga scia prodotta dal fenomeno pandemico). Le nomine o comunque le candidature nei posti chiave della nuova Amministrazione al momento privilegiano esponenti dell’entourage clintoniano, lasciando in secondo piano quelli di “osservanza” obamiana. Così nel caso di Anthony Blinken al Dipartimento di Stato, Jake Sullivan come Consigliere per la sicurezza nazionale, Michèle Flournoy al Pentagono (incarico non ancora ufficializzato), Avril Haines a capo dell’intelligence, Linda Thomas-Greenfield ambasciatrice all’Onu e Alejandro Mayorkas, nato all’Avana e figlio di rifugiati, alla protezione civile (Homeland Security). Si tratta di figure che dovrebbero garantire una continuità con la tradizionale politica estera americana così come è venuta affermandosi dalla presidenza Roosevelt in poi, ovvero una miscela tra interventismo e pragmatismo, idealismo e realistico calcolo d’interessi.
Se già Obama aveva contraddistinto e segnato la sua presidenza per l’astensione da una piena visuale internazionalistica, anche a scapito della rete americana di relazioni e alleanze a livello planetario, ora Biden si presenta come uno degli ultimi esponenti politici di oltreoceano con una visione «atlantica», fortemente legata al rapporto con l’Europa occidentale. Con la quale i legami dovrebbero risultare sufficientemente rafforzati, in particolare con la Germania e la Francia, soprattutto in funzione antiturca. Comunque, Biden non è Hillary Clinton: non pare infatti avere interesse a rimuovere Assad e a sostenere quell’opposizione siriana che è oramai egemonizzata dai gruppi jihadisti. Semmai ricorrerà, come già è avvenuto con alcuni suoi predecessori, a politiche di concessione seguite a momenti di restrizione, avendo ad obiettivo prioritario il mantenimento dei presidi statunitensi e il controllo dei giacimenti petroliferi nella Siria orientale e nell’Iraq.
Un ulteriore dossier è quello aperto con un attore sovranazionale, la Fratellanza musulmana, «linea di faglia» nello scontro tra gruppi d’interesse e blocchi di potere in tutto il Medio Oriente. Trump si era decisamente opposto all’Islam politico e, quindi, a due dei suoi maggiori sostegni, il Qatar e la Turchia di Erdogan. Mentre Obama aveva cercato, soprattutto dopo le primavere arabe, forme e canali di interlocuzione, il suo successore si era invece impegnato per includere nella black list delle organizzazioni terroristiche l’intera Fratellanza. Nel 2017, infatti, con il sostegno di Washington, Arabia Saudita, Emirati e Paesi alleati avevano varato il cosiddetto «Qatar ban», con l’obiettivo di isolare il potente Stato del Golfo e le sue numerose emanazioni legate all’Islam politico. Il target strategico parrebbe essere fallito. Ad oggi, c’è chi auspica invece che Biden eserciti pressioni molto più forti su Arabia Saudita ed Emirati per porre fine al blocco, considerato che nell’ultimo anno anche l’amministrazione Trump ha comunque intensificato i suoi sforzi diplomatici per incoraggiare una risoluzione negoziale, rendendosi conto che il conflitto tra due alleati strategici, Arabia Saudita e Qatar, non è nell’interesse degli Stati Uniti. Sarà comunque il tempo, anche quello a breve, a dirci quali siano spazi, obiettivi, risorse e percorsi dell’Amministrazione entrante.
Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.