Il vicepresidente Pence e un gruppo di senatori repubblicani all’ultima battaglia per non certificare la vittoria di Biden. Con quali speranze?
Mentre è arrivata un’altra bocciatura agli ultimi tentativi di Donald Trump di ribaltare il risultato delle presidenziali, con la bocciatura da parte del giudice federale del Texas Jeremy Kernodle dell’azione legale del deputato repubblicano Louie Gohmert, e di altri suoi colleghi di partito, per costringere il vicepresidente degli Stati Uniti a cambiare i voti del collegio elettorale quando il 6 gennaio presidierà la sessione del Congresso chiamata a ratificare l’esito delle elezioni, ulteriori terreni di conflitto ancora si stanno manifestando. Dodici senatori repubblicani hanno infatti annunciato che contesteranno il conteggio dei voti del Collegio elettorale quando mercoledì il Congresso di Washington si riunirà in sessione congiunta per la conta formale dei voti.
Si tratta nei fatti di un adempimento rituale, che dovrebbe sancire la vittoria di Joe Biden attraverso una sorta di presa d’atto. Tuttavia, nel clima ancora acceso che caratterizza l’operato degli organismi rappresentativi e legislativi, i senatori ricorrenti chiedono che il Congresso «nomini immediatamente una Commissione elettorale, dotata di piena autorità investigativa e di accertamento dei fatti, per condurre una revisione di emergenza di dieci giorni dei risultati elettorali negli Stati contesi». Una volta conclusa un tale riesame, ai singoli Stati spetterebbe il diritto di valutare le conclusioni della commissione e la facoltà di convocare «una sessione legislativa speciale per certificare una modifica del loro voto, se necessario». L’iniziativa è stata sottoscritta da un gruppo di senatori repubblicani “ribelli”, tali poiché continuano ad andare contro le indicazioni del leader della maggioranza del Grand Old Party al Senato, Mitch McConnell, il quale ha invece chiesto di non appoggiare una mossa che, non avendo i numeri effettivi per passare, avrebbe come unico risultato quello di causare una profonda spaccatura all’interno del partito.
Quale sarà quindi il ruolo del vicepresidente degli Stati Uniti Pence, in questa lunga pochade che terminerà solo il 20 gennaio, con il giuramento di Joe Biden e il suo definitivo ingresso alla Casa Bianca? Dietro le ultime diatribe, combattute strenuamente da un coeso nucleo di veri e propri guastatori, si cela l’intenzione di trasformare il ruolo essenzialmente cerimoniale di Pence – che presiede la certificazione e apre le buste dei voti dei collegi – nella possibilità di giudicare il merito degli stessi voti e quindi la loro validità, eventualmente sostituendo voti dati a Biden con voti da assegnare a Trump. Mai si era visto negli Stati Uniti un così sofferto interregno dal momento della proclamazione del vincitore, con le elezioni di novembre, a quello del suo effettivo accesso alle funzioni presidenziali. I mesi tra novembre e gennaio, tradizionalmente, da sempre costituivano il ponte della transizione, quello in cui si passava non solo da una presidenza uscente ad un’altra ma si garantiva la continuità delle funzioni delle massime istituzioni, a partire proprio da quelle elettive.
Trump, con le sue intemperanze, ha invece rotto una lunga consuetudine che nessun suo predecessore aveva ancora messo in discussione. Ancorché i trascorsi trapassi si fossero consumati comunque a malincuore. Negli Stati Uniti, come in qualsiasi democrazia – infatti – la delegittimazione dell’avversario è una prassi che si può esercitare in campagna elettorale, non dopo la sua conclusione e ancor meno con la proclamazione definitiva dei risultati. In quanto, qualora invece essa continui, è destinata ad erodere non tanto la credibilità del vincitore bensì dell’istituzione stessa che esso è chiamato a ricoprire con il suo mandato. La quale, beninteso, non è solo l’esercizio di una volontà politica di parte ma, nel medesimo tempo, anche dell’unità di una nazione. La sovranità non riposa nel dettato ideologico di una sola componente, ancorché essa possa risultare prevalente attraverso il principio maggioritario, bensì nella sintesi di interessi ed identità distinte.
Per tradizione, se la legalità nell’azione degli ordinamenti pubblici negli Stati Uniti riposa nel loro pluralismo, di cui la Corte Suprema rimane l’ultimo e quindi il massimo garante, la perfomatività della loro azione si innerva nell’azione dell’esecutivo. Che deve porsi in carico anche il problema di garantire, con la concretezza dei suoi atti, quegli aspetti strategici di coesione sociale senza la quale il rischio di implosione potrebbe essere dietro l’angolo. Per questo, se le presidenze sono quasi sempre la posta sia di un confronto politico che elettorale serrati, a tratti spregiudicati, una volta che l’uno e l’altro si sono conclusi esse tornano a costituire un presidio di legittimità. Ossia, non sono solo un organismo di parte – quella vincente – bensì un’istituzione comune, rappresentante degli interessi maggioritari. Non per questo coloro che ne ricoprono l’incarico debbono essere scialbi ed incolori. Nella tradizione americana, infatti, rappresentanti del popolo caratterizzatisi per un’impronta molto personale non sono mai mancati. Dalle figure maggiormente carismatiche, come Roosevelt, Kennedy e Reagan, a quelle di profilo più istituzionale, come Eisenhower o Bush padre.
Donald Trump, per parte sua, si è invece connotato da subito per una marcata divisività. Per questa precisa ragione è stato prima votato e quindi eletto, poi sostenuto a lungo durante il suo mandato, da un buon numero di americani. Ha quindi perso di misura, raccogliendo comunque intorno a sé un rilevante seguito elettorale. Che è divenuto consenso politico non tanto rispetto ad un preciso programma ma nei confronti di uno stile di comportamento e, non di meno, di una immagine che ha saputo proiettare su una grande parte del pubblico americano. È fin troppo facile riconoscere che se il voto negli insediamenti metropolitani e di una parte delle minoranze sia nei fatti andato verso i democratici, quello prevalente nei grandissimi spazi rurali e nelle città di piccole e medie dimensioni è invece stato spesso intercettato dai repubblicani. Beninteso, anche negli Stati Uniti le cose non si spaccano in due come si fa con una mela. Tuttavia, le faglie di separazione, se non di rottura, si sono rivelate ancora una volta nette. In molte occasioni.
Da quando Trump è risultato sconfitto dall’esito del pronunciamento elettorale ha quindi spostato la battaglia dall’impossibile obiettivo del mantenimento della presidenza, con un secondo mandato che gli è stato invece rifiutato, a quello di generare ed alimentare un duplice mito: quello di una falsa sconfitta, presentata come il frutto di uno scippo di investimento popolare personale e, al medesimo tempo, quello dell’illegittimità del procedimento di nomina del suo avversario Biden al vertice della Casa Bianca. Tutta l’azione della presidenza uscente, d’altro canto, si era già caratterizzata del suo per questo meccanismo mediatico e comunicativo basato sull’auto-investimento: un leader sempre vincente per un popolo risorgente. Due facce della stessa medaglia. Il significato dello slogan «Make America Great Again» si inscrive dentro questa dinamica emotiva, prima ancora che programmatica, per cui nessun contendente potrebbe rappresentare la collettività, essendo egli stesso parte del problema e non della soluzione come, invece, Trump si presenta a prescindere da qualsivoglia riscontro. E Trump ottiene assensi non malgrado il responso della realtà ma prescindendo da esso, ovvero coltivando il bisogno, condiviso da molti elettori, di rifuggire dalla morsa dei fatti laddove essi costituiscano un orizzonte inappagante. Lo standard prevalente, per intenderci, è quello delle narrazioni mitografiche dei circuiti televisivi. Anche per questa ragione il tycoon è moderno, ovvero in sintonia con i timori e le speranze di una parte dell’elettorato stesso, trasformato in pubblico di una gigantesca rappresentazione mediatizzata.
Dopo la chiusure delle urne, e il pronunciamento del loro responso, si è quindi immediatamente aperto un conflitto, che sta durando ancora adesso, non tanto su chi debba sedere sulla massima poltrona degli Stati Uniti quanto su quali possano essere i terreni dei confronti politici più importanti per il quadriennio a venire all’interno del Paese. La convinzione del presidente uscente è infatti che il suo avversario sconti una debolezza costituiva, destinata a condizionarne molte mosse. La speranza, quindi, è che non riesca a dare risposte convincenti a molti dossier aperti sui tavoli dell’esecutivo. Il tema del furto di voti, ossia dei brogli sistematici, che non ha ottenuto nessun riscontro positivo da parte delle molte autorità pubbliche chiamate in causa, dei singoli Stati, come di quelle federali, si è alimentato da sé, in piena autonomia.
Si tratta essenzialmente di un conflitto politico che Trump da tempo non ha aperto non solo contro Biden ma nei confronti di tutto l’establishment, inserendosi con abilità nelle sue contraddizioni e cercandone di capitalizzare a proprio beneficio le non poche défaillance. Lo ha nutrito di una carica a tratti quasi eversiva, che ha comunque destabilizzato gli altrimenti abituali equilibri che regolano il funzionamento delle istituzioni federali. Di fatto il periodo della transizione, che si apre tradizionalmente nei primi giorni di novembre, una volta designato il presidente eletto, e si chiude il 20 gennaio dell’anno successivo, con il suo giuramento e la successiva entrata in carica, è stato quasi completamente disatteso. All’interno dell’arco di tempo di poco più di due mesi, infatti, di prassi si consuma il trapasso da un’Amministrazione all’altra, con la trasmissione di tutti i dossier più importanti, così come delle informazioni strategiche, dagli uomini della presidenza uscente a quelli della presidenza entrante. Si tratta di un transito delicato, che influisce sull’efficacia e l’efficienza dell’azione della nuova Amministrazione così come sulla continuità dell’azione degli esecutivi.
Fino ad oggi, una ripetuta conflittualità, tradottasi in palese indisposizione, quale quella concretamente manifestatasi tra gli uomini di Trump e quelli di Biden, non si era mai verificata nei fatti. Quanto meno, non con le presidenze che si sono alternate e succedute dal dopoguerra, ossia da Truman in poi. La scelta deliberata di ostacolare la trasmigrazione di dati e funzioni con una successione di schermaglie sul merito delle informazioni da fornire si inscrive, a pieno titolo, non tanto in una infantile ripicca nei confronti del vincitore delle ultime elezioni presidenziali quanto nella scelta calcolata di manifestare e continuare a ripetere, nei confronti del grande pubblico americano, il mantra della illegittimità della presidente entrante. La posizione sulla quale Trump, una volta uscito dalla Casa Bianca il 20 gennaio prossimo – plausibilmente senza partecipare alle procedure ultimative di galateo istituzionale previste proprio per quel giorno, con il saluto tra i due presidenti – manterrà per il resto di tutta la durata della sua opposizione nei confronti dell’amministrazione democratica.
Un tale modo di procedere, non solo irrituale ma anche sostanzialmente destabilizzante, è nello stile e nella natura medesima del tycoon. Ben sapendo che esso si incontra con la crescente diffidenza che una non indifferente parte di elettori americani nutrono verso le istituzioni centrali e federali. La capacità di Trump rimane infatti quella di coniugare governo ed opposizione in una sola persona, attraverso la sua incoronazione a leader politico non dei repubblicani ma di una destra alternativa, che nel populismo metallico sviluppa il suo rifiuto di ogni forma di mediazione che non sia quella costituita dalla presenza del leader onnisciente e carismatico. In questo, la carica anti-istituzionale di Trump non si è per nulla stemperata, giocandosi semmai sul logoramento non solo degli avversari interni ed esterni al suo partito di riferimento ma anche di una parte delle istituzioni in quanto tali. Delle quali, a più riprese, ne ha dichiarato la vetustà, lasciando intendere che nuovi equilibri potrebbero determinarsi qualora proseguisse la sua corsa, anche all’opposizione. Nei confronti di quasi tutto come di quei tanti che non dovessero riconoscersi nella sua leadership auto-referenziata. Che in fondo piace ai molti insoddisfatti. Non solo negli Stati Uniti.
Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.