La recensione del libro di Bruno Osimo, “Primo Levi. Miti d’oggi” edito da Francesco Brioschi
“In tutta evidenza i nazionalsocialisti sono stati i precursori dei reality show”. Apre così il capitolo intitolato appunto Reality Show nel libro Primo Levi. Miti d’oggi di Bruno Osimo, appena uscito per l’editore Francesco Brioschi. I miti d’oggi sono le parole del linguaggio di massa in una disamina aggiornata di quelli che aveva in precedenza selezionato Roland Barthes. Ma c’è di più, perché qui il filtro con cui leggere quelle locuzioni d’uso comune e quotidiano, come lo è reality show, è Primo Levi. O meglio, la lettura di Primo Levi. Dunque siamo in un doppio sogno, un gioco di specchi sensibili come quelli del Luna Park: Osimo legge Primo Levi per riflettere sulla cultura contemporanea e proporre una lettura dei lemmi dell’attuale linguaggio di massa. Wow!
Wow, sì, per usare un’espressione fumettistica, onomatopeica, capace di incarnare lo stupore del lettore (in questo caso) di fronte a un piccolo dizionario dei luoghi comuni interpretato attraverso un filtro decisamente inatteso: la ricerca della felicità. E ancora una volta, cosa c’entra la felicità con Primo Levi? Molto. Moltissimo. “La mia tesi” scrive Osimo nella sua Invece di una premessa, “è che i testi di Primo siano per noi portatori di felicità. Parlo di felicità in senso proprio. La felicità non dipende dalle cose al di fuori di noi, ma dal nostro modo di viverle. E nessuno meglio di Primo è in grado di mostrarcelo”. Perché? Perché la felicità è percepita solo se può confrontarsi con momenti di privazione: “Per dirlo con Čechov, la sazietà è incompatibile con la felicità”, scrive l’autore.
Il gioco si fa duro. Perché il paragone tra il presente e la Shoah in termini di ricerca di senso e felicità è un pugno nello stomaco. Occorre andare a scandagliare i testi di Primo Levi, la sua esperienza tragica nei campi di sterminio e la sua esistenza di sopravvissuto per riportare l’attenzione dell’uomo di oggi su ciò di cui ha bisogno veramente? Lascio la domanda aperta, perché sicuramente la riflessione sulla Shoah implica una ricerca di senso rispetto alla nostra presenza sulla terra, comunque la si voglia intendere e organizzare. Inclusa una critica alla società contemporanea, che poggia in qualche modo anche su modelli esperiti nell’organizzazione nazionalsocialista. Il capitolo sui reality show apre, come tutti i capitoli del volume, con una citazione da Primo Levi. Questa volta il passo è tratto da I sommersi e i salvati in cui viene fotografata la condizione nei campi, migliaia di individui chiusi entro fili spinati, “sottoposti a un regime di vita costante, controllabile, identico per tutti e inferiore a tutti i bisogni”. Ecco, a parte le differenze esplicitate da Osimo, l’autore sottolinea che il passo citato potrebbe contenere regole simili a quelle di un reality. Oppure, i confini del mondo entro cui ci muoviamo, oggi. Per esempio, andando a lavorare in un luogo in cui siamo identificati con un badge (il tatuaggio), facciamo viaggi nella modalità all inclusive, dove veniamo trasportati (deportati) senza alcun obiettivo creativo che vorremmo raggiungere sul posto, piuttosto affidandoci totalmente alle regole imposte dalle compagnie aeree che dettano ogni nostro movimento, incluso quello privato di preparare la valigia (che viene ispezionata). Ci illudiamo così di essere liberi, di dare seguito ai nostri desideri di libertà, (analizzati nel capitolo Bondage), senza capire che stiamo semplicemente colmando un senso di vuoto cercando ulteriori costrizione (il viaggio organizzato, l’itinerario, ma anche le ferie imposte da una struttura): “Primo ci dice che per il prigioniero la libertà ha segnato la fine di un incubo e l’inizio di un altro, per alcuni assai penoso e definitivo: quello del dolore universale”. C’è poi la figura dell’influencer. O meglio, il ruolo che la società attuale attribuisce all’influencer, contemporanei capobranco da imitare per garantirci l’accettazione. Siamo iper connessi, ma sovraccarichi a tal punto di informazioni che abdichiamo alla libertà di scegliere. Abdiachiamo alla libertà di esprimerci, abdichiamo in toto alla libertà.
E poi c’è la memoria. La memoria della lingua, la memoria della storia e quella da tramandare. Quella che si celebra nell’apposita giornata, il 27 gennaio. Una Giornata della Memoria per Osimo spesso caratterizzata più da retorica che da reale riflessione. “La falsità attorno a questa ricorrenza mi disgusta, trovo che sia una violenza inaudita contro le vittime, soprattutto l’uso della parola Olocausto”, scrive nella prefazione. Holocaust è uno dei vocaboli analizzati nel volume, ma qui è importante a contrasto con il lavoro di Primo Levi e la difficoltà di accettarlo e di interiorizzarlo da parte dei lettori (e delle generazioni successive). “La sua grandezza”, scrive Osimo, “sta nell’aver ricucito tutto quello che ha visto e vissuto, ravvisando tracce di Lager nel suo quotidiano e tracce del suo quotidiano nel Lager”. Ecco. La ragion d’essere di questo libro sta proprio qui, nell’intento dichiarato dal suo autore: provare a fare quella doppia lettura proposta da Levi rispetto al nostro quotidiano.