Come si trasforma nella tradizione ebraica il paradiso da luogo della perfezione iniziale, ormai perduta, in luogo della perfezione finale a cui tendere?
In persiano antico la parola pairidaeza indica un giardino cintato o verziere. Da qui l’ebraico pardes e il greco paradeisos, dal calco del quale l’italiano paradiso e l’equivalente in molte altre lingue. Se pensiamo al giardino nella tradizione ebraica non può che venire in mente per prima cosa il gan beEden, il magnifico giardino in Eden dove vengono posti Adam e Chavà dopo la creazione. Gan viene tradotto dalla Bibbia dei Settanta, prima versione greca dell’originale ebraico, con paradeisos, lo stesso termine con cui, per esempio, in età ellenistica sono descritti i leggendari giardini pensili di Babilonia. Sulla scorta dell’etimologia, in ogni caso, il paradiso è un luogo concreto e reale, giardino o prato che risplende in un’eterna primavera e in cui la natura prodiga generosamente i propri doni: fonti d’acqua e ruscelli, fiori e frutti, tiepidi venti che fanno stormire le foglie e canti di uccelli che sembrano richiamarsi l’un l’altro. Il paradiso, che nei secoli ha assunto significato religioso, è diventato un luogo centrale nell’immaginario cristiano, ma suoi equivalenti in cui i defunti virtuosi godono di beatitudine prolungata o addirittura eterna compaiono in numerose altre tradizioni. Prima tra tutte quella ebraica, da cui d’altronde quella cristiana scaturisce prima di procedere verso direzioni nuove.
Come ha notato Giovanni Filoramo, l’immaginario paradisiaco esprime un ritorno, più o meno definitivo, a una condizione iniziale di perfezione. Quello che accade dopo la morte, quindi il futuro, si lega così al passato remoto che precede la civiltà, lo spazio mitico di cui Bereshit/Genesi disegna i contorni quando descrive la vita dei primi uomini che per il proprio sostentamento dipendono completamente dalla divinità. L’Eden è un luogo di perfezione iniziale, una remota età dell’oro dalla quale gli uomini vengono esclusi per cominciare il cammino che li vede protagonisti nello spazio e nel tempo, cioè nel mondo e nella storia. Tuttavia, come si trasforma nella tradizione ebraica il paradiso da luogo della perfezione iniziale, ormai perduta, in luogo della perfezione finale a cui tendere? E’ un percorso affascinante che, sviluppatosi nel corso di molti secoli, cercheremo di sintetizzare.
“Sono pur brevi i miei giorni della vita: lasciami, affinché io possa rasserenarmi un poco prima di andare là, in quel luogo da cui non si torna, verso le regioni di oscurità e ombre di morte. Terra tenebrosa come caligine in cui è ombra di morte, di confusione caotica, che se anche apparisse qualche luce, sarebbe caliginosa”. Con questi termini Giobbe descrive l’oltretomba, luogo di tenebre, caos e fumo, una realtà debole e sfuggente che in alcuni passi del Tanakh viene chiamata Sheol. In questo mondo dove non esiste luce, le anime dopo la morte sembrano condurre un’esistenza larvale, incerta e misera. Con la morte si rompe l’unità psicosomatica, il soffio vitale si spegne, lasciando persistere solo un infimo strascico di vita, ombra della vita vera ormai terminata. Dio non si interessa alla sorte di queste ombre, che non è stabilita sulla base del comportamento tenuto in vita bensì indifferenziata, senza un sistema di premio per i giusti e punizione per gli ingiusti. L’oltretomba di Giobbe ricorda da presso quello di Omero, popolato da ombre fiacche che si trascinano nel rimpianto della vita che hanno perduto per sempre. In un passo struggente dell’Odissea l’anima di Achille descrive a Odisseo l’Ade come luogo “dove fantasmi privi di mente han dimora, parvenze d’uomini morte”.
Nel Tanakh lo Sheol viene citato eppure mai descritto nei dettagli. Secondo Isaia le ombre dei morti, private di energia, non parlano ad alta voce ma “sussurrano e bisbigliano”. Più avanti nel libro il profeta descrive la morte e l’arrivo nello Sheol del re di Babilonia, ingiusto ed empio dominatore di popoli. “Tu dicevi nel tuo cuore: salirò in cielo, al di sopra delle stelle del Signore alzerò il mio trono”, e invece adesso “i vermi ti ricoprono”: “Venne gettata nello Sheol la tua gloria”, nel paese delle ombre impotenti. L’oltretomba è luogo in cui le differenze tra potenti e umili, giusti e ingiusti scompaiono, non un luogo di sofferenza o addirittura pena dei sensi come l’Inferno dantesco. Ancora con le parole di Giobbe, colpito duramente dalle prove del Signore, “là gli empi abbandonano ogni velleità di violenza; là riposano coloro che sono spossati. I prigionieri riposano tranquilli insieme, non sentono più la voce dell’aguzzino. Piccolo e grande è là tutt’uno, e lo schiavo è libero dal padrone”.
Tuttavia perfino nei passi più antichi del Tanakh, secondo la critica biblica, si trova traccia di meccanismi di premio per gli uomini giusti e punizione per gli ingiusti, anche se questi riguardano il futuro nella vita e non quello dopo la morte. I giusti sono ricompensati con un’esistenza lunga e pacifica, con la prosperità economica e, non meno importante, con una numerosa discendenza. Va specificato che la civiltà del Tanakh, pure diversificata, non corrisponde a un’epoca individualista come la nostra, ma si contraddistingue per la forte unità di ogni singolo con il proprio gruppo famigliare e tribale, con cui ciascuno condivide in massima parte memorie, orizzonti, prospettive e sorte. Lo stesso concetto di felicità individuale è stemperato perché lo è quello di individualità.
In questo contesto i defunti, appartenenti a un regno di oscurità, sono temuti; di essi si parla poco e superficialmente. Lodare Dio, da parte di queste ombre, è cosa inutile perché non saranno ascoltate. Il dio degli ebrei è infatti “Dio dei vivi”, non dei morti, come viene spesso ripetuto. Non fa eccezione la storia di Saul e della negromante, raccontata nel primo libro di Samuele, quando il re di Israele di fronte al campo dei filistei in armi viene assalito dal terrore. Saul si rivolge a Dio senza ottenere risposta, chiede allora ai servi di cercare una donna che sia in grado di evocare gli spiriti. I servi accompagnano il re, nascosto sotto mentite spoglie, da una negromante a En Dor, a cui Saul chiede di richiamare lo spirito di Samuele per mezzo di sortilegi. “Dimmi che cosa hai visto”, chiede il re. “E la donna a Saul: vedo uno spettro che esce da sottoterra […] allora Saul comprese che era Samuele e si piegò con la faccia a terra e si prostrò”. Samuele però rimprovera Saul di disturbare il suo riposo: “Perché dunque interroghi me dal momento che il Signore si è allontanato da te e ti è divenuto avversario?”. Saul perderà presto il regno e la vita: “Domani”, continua Samuele, “tu e i tuoi figli sarete con me” insieme a molti dei figli di Israele uccisi dai filistei in battaglia. Ed è naturalmente proprio quello che succederà.
Alcuni profeti parlano di una futura età dell’oro per meglio stigmatizzare la decadenza del presente. È in questo contesto che si sviluppa la speranza messianica, tesa verso un futuro in cui sarà rinnovata l’indipendenza politica di Israele, segno di ritrovata perfezione e di una felicità sulla terra che dal popolo ebraico si trasmette all’umanità intera. Non è questo il luogo per soffermarsi sull’origine del messianismo e sulla figura del messia, che la tradizione antica ritiene verrà preceduto da terribili sofferenze, guerre e catastrofi e che diventerà centrale in era volgare presso l’ebraismo rabbinico e il cristianesimo. In ogni modo, secondo il profeta Michà, con il futuro ritorno degli esuli a Gerusalemme tutti i popoli si muoveranno seguendo le vie del Signore, “spezzeranno le loro spade per farne delle vanghe e le loro lance per farne delle falci; nessun popolo alzerà più la spada contro un altro e non inizieranno più l’arte della guerra”. Regnerà la pace non solo tra uomini, ma anche tra gli uomini, gli animali e la natura tutta, secondo un celebre passo di Isaia che echeggia la descrizione del giardino dell’Eden: “Allora dimorerà il lupo con l’agnello, si coricherà il leopardo con il capretto, il vitello e il leone staranno insieme e un ragazzino li guiderà. La mucca e l’orso pascoleranno insieme, insieme giaceranno i loro cuccioli; e il leone come il bue mangerà fieno, il neonato giocherà sulla tana del serpente, sul cavo del basilisco il lattante appena svezzato metterà la mano”. Violenza e sopraffazione scompariranno, mentre la giustizia trionferà sulla terra “piena della conoscenza del Signore”, verrà instaurata ovunque equità sociale, i malati saranno guariti e la natura offrirà spontaneamente i propri frutti. Il tempio di Gerusalemme, di cui la visione di Ezechiele descrive minuziosamente i dettagli, verrà ricostruito. In questo quadro, su cui converge buona parte della letteratura profetica, non c’è tuttavia traccia di immortalità concessa agli uomini. Dio darà loro una vita lunga, come afferma ancora Isaia: “Non vi sarà più in futuro un vecchio che non abbia compiuto tutti i propri giorni, poiché il giovane morirà a cento anni, e il peccatore sarà maledetto a cento anni”. Nessun cenno, invece, alla sorte dei giusti morti prima dell’era messianica. Che cosa li attenderà?
Per provare a rispondere a questa domanda occorre tenere presente il progressivo sviluppo dell’individualismo e quello conseguente di un principio di retribuzione personale, correlato cioè alle azioni compiute e non esclusivamente al contesto sociale di appartenenza. Nella futura età dell’oro, riporta Geremia, “non si dirà più: ‘I padri hanno mangiato frutta acerba e i denti dei figli ne sono stati impastati’. Ognuno morrà per il proprio peccato, chiunque mangerà frutta acerba avrà lui stesso i denti impastati”. L’uomo giusto vivrà, l’ingiusto morrà, specifica Ezechiele, e questo vale anche per il figlio giusto di un padre ingiusto, che dunque è responsabile delle proprie azioni e su questa base viene premiato o punito: “E voi dite: ‘Perché il figlio non sopporta le conseguenze delle colpe del padre?’. Ma il figlio ha agito secondo giustizia e diritto, ha tenuto presenti i miei statuti e li ha seguiti: egli vivrà. La persona che commette colpa, essa morrà: il figlio non sopporterà le conseguenze della colpa del padre, e il padre non sopporterà le conseguenze della colpa del figlio: la giustizia del giusto resterà su di lui, la malvagità del malvagio resterà su di lui”.
La risposta di Geremia e Ezechiele è di grande novità, eppure si scontra con un fatto che non si può eludere: la sofferenza che patiscono spesso i giusti e il benessere degli ingiusti. Il problema del giusto che soffre è messo a tema, in modo differente, da Qohelet, Giobbe e in alcuni salmi. Il salmo 37, per esempio, parla di “malvagi che prosperano”, ma che “presto appassiranno come l’erba e seccheranno come il verde di un prato”. Dunque la fortuna che arride in vita all’ingiusto è apparente, e secondo il salmista non mette in dubbio la prospettiva di responsabilità individuale e il meccanismo di premio e punizione connesso: alla fine la giustizia trionfa e il malvagio viene punito. Qohelet riflette sull’inconsistenza dei beni e sulle futili convinzioni degli uomini, dubitando in passi oscuri dell’efficacia della giustizia divina. Giobbe, infine, vive l’esperienza del giusto tormentato da sofferenze che non riesce a spiegarsi in un testo ricchissimo di suggestioni e motivi che non è qui possibile esplorare. Alcuni salmi, infine, esprimono chiaramente la speranza dei giusti di essere riuniti a Dio dopo la morte: “Il Signore riscatterà la mia persona dallo Sheol”, dice il salmo 49, “perché mi prenderà con sé”.
Siamo alle soglie di una rivoluzione che presto porterà a applicare il principio della retribuzione non solo e non tanto in vita, quanto dopo la morte. Di conseguenza la divinità estenderà il proprio dominio non più soltanto sui vivi, ma anche sui defunti. Ma si tratta di una storia ancora lunga; per seguirla dovremo dire qualcosa dell’ellenismo, con la sua forza di penetrazione ideologica e culturale anche nel contesto ebraico, sulla letteratura apocalittica che fiorisce nel periodo del secondo tempio, per giungere infine all’idea di paradiso dei rabbini nell’età della Mishnà e del Talmud. Nel II secolo e.v. rabbi Jacob dirà: “Questo mondo somiglia a un’anticamera rispetto al mondo a venire; prepàrati nell’anticamera, affinché tu possa entrare nella sala del banchetto”. Sui circa sei secoli che separano il triste luogo delle ombre descritto da Giobbe dal festoso banchetto di rabbi Jacob dovremo ancora soffermarci presto.