Una lezione su fundraising e volontariato nella vita ebraica
Il vero motore di ogni comunità ebraica sono da sempre i propri iscritti e partecipanti. Le istituzioni sono portate avanti da uomini e donne che dedicano tempo e denaro al servizio della collettività: c’è chi ricopre ruoli istituzionali, chi ha un occhio di riguardo per la sicurezza, chi organizza attività culturali o di aggregazione, chi sacrifica il riposo della domenica per aiutare il prossimo e, più in generale, chi si prodiga per l’ebraismo mettendo da parte interessi individuali e guadagni. In aggiunta, c’è sempre anche chi è disposto a sacrificare una parte dei propri risparmi a vantaggio degli altri. Senza questi volontari le comunità ebraiche, per come le conosciamo oggi, non esisterebbero, o avrebbero una forma completamente diversa.
La Parashà che leggeremo questo Shabbat ci parla anche di questi argomenti: a una prima lettura non si direbbe, ma nasconde importanti insegnamenti sullo sforzo collettivo, necessario ancora oggi per la creazione e la sopravvivenza di ogni ambiente ebraico.
Fundraising e vita comunitaria
La Parashà di Terumà è dedicata all’enunciazione delle regole per la costruzione del Mishkan, il santuario smontabile che accompagnerà il popolo ebraico durante gli anni della peregrinazione nel deserto. Le istruzioni che Mosè riceve da Dio per la costruzione del Tabernacolo sono molto precise e dettagliate: occorre utilizzare i materiali giusti, dare loro la forma e la dimensione corretta, e abbellire ogni oggetto nel modo indicato. Bisogna essere attenti e precisi, far quadrare tutto, perché questa sacra struttura rappresenterà il centro della vita spirituale del popolo e sarà il simbolo della presenza divina sulla Terra.
Fin qui sembrerebbe un gioco da ragazzi, ma la vera difficoltà deve ancora arrivare e ha poco a che fare con le istruzioni date da Dio e molto a che vedere con la volontà del popolo. In tal senso, l’incipit della parashà è esplicativo: Dio si rivolge a Mosè dicendo “Parla ai figli d’Israele, che raccolgano per me un tributo. Lo raccoglierete da chiunque sia generoso di cuore” (Esodo 25,2). Non viene istituita una tassa obbligatoria, o pretesa una somma specifica, la richiesta è che i materiali per la costruzione del Tabernacolo vengano raccolti grazie alle offerte spontanee della popolazione. Nota Rabbi Klayman in un commento alla parashà che nessuno terrà traccia delle donazioni, non è importante segnare chi ha donato e quanto, tutti sono invitati a dare, ciascuno secondo le proprie possibilità.
Il nome della parashà si riferisce proprio a questo concetto: Terumà significa “contributo”. A fare la differenza nella costruzione del Tabernacolo sarà questo, l’atto del dare. Osserva Rav Sacks nell’articolo “The Gift of Giving”, che in questa raccolta voluta da Dio non si dà peso al valore economico della donazione di ciascuno, non è importante la qualità dei materiali donati per la costruzione del Santuario. Il significato spirituale del Tabernacolo è legato alla sua opera di costruzione, che è stata possibile grazie a tutti coloro che hanno avuto la volontà di dare e di darsi: “quando le persone si spendono volontariamente per gli altri e per una causa sacra, è lì che risiede la presenza divina”.
Per questo, il Tabernacolo sarà di tutti, di chi ha donato il gioiello più splendente e di chi non ha potuto donare altro che la propria forza lavoro, apparterrà a ogni ebreo in egual modo. È questa la caratteristica che permette al Tabernacolo di poter essere considerato la dimora di Dio, come infatti è scritto nella stessa parashà: “E mi faranno un Santuario, ed Io avrò sede in mezzo ad essi” (Esodo 25,8).
Il volontariato
La costruzione del Mishkan è stata resa possibile, non unicamente dalle donazioni libere, ma anche grazie al lavoro. Gli ebrei hanno contribuito alla costruzione del Tabernacolo in più modi, fa notare Ovadyah Sforno nel suo celebre commento biblico. Il popolo ha risposto all’appello di Mosè presentandosi con tutti i materiali necessari per lo sviluppo del progetto di Dio: oro, argento e rame, tessuti e filati di vari colori, lino e pelli di animali, olio per illuminare, pietre per costruire; ma, soprattutto, capacità tecniche e forza lavoro, da mettere a disposizione per la creazione di un luogo unico nella sua sacralità.
È esattamente per questo motivo che ogni ebreo doveva considerare il Mishkan come fosse casa propria, perché ognuno nella costruzione del Santuario ha messo concretamente le mani, mettendo a servizio della causa il proprio tempo e le proprie fatiche.
Rav Alberto Sermoneta afferma a tal proposito sul sito della Comunità Ebraica di Bologna che, nella costruzione del Tabernacolo, così come in ogni comunità ebraica moderna, “c’è invece bisogno che tutti scendano in campo a lavorare. Il verbo asé/asù usato proprio dalla Torà, vuol dire “fai/fate”; è l’azione di lavorare che prevale su tutto il resto”.
La costruzione è stata quindi portata a termine grazie al lavoro di esperti artigiani, e il materiale procurato grazie alle donazioni del popolo. Mosè, su indicazione di Dio, aveva chiesto di donare e nessuno si è tirato indietro, aveva chiesto di lavorare e tutti si sono prodigati. Quali che fossero gli impegni giornalieri, gli oneri e le responsabilità di ciascuno, tutti si sono offerti volontari per fare la loro parte nella costruzione del Tabernacolo. Così il Mishkan, riconosciuto come la dimora del Signore, si è rivelato qualcosa di più: esso è anche la prova concreta di cosa può nascere dalla collaborazione e dal lavoro benevolo di una collettività.
Questo è il ritratto di come dovrebbe essere una comunità ebraica ancora oggi, dinamica e interdipendente: ognuno partecipa come può, e la responsabilità del prossimo e del gruppo è condivisa. Nessuno dovrebbe sentirsi in difetto per aver fatto o dato poco, nessuno dovrebbe sentire di aver più diritti per aver fatto o dato tanto. Perché qualsiasi membro della comunità dipende dagli altri, contribuisce quando può e riceve quando ha bisogno.