Prelibatezze dolci per Purim tra storie e ricette
Delle orecchie di Haman si parlerebbe per la prima volta in una composizione satirica, Tzachut Bedichuta de-Kiddushin (Una eloquente farsa matrimoniale), scritta nel 1550 da Judah Leone Ben Isaac Sommo, ebreo di Mantova. Ricordata dallo studioso e storico del cibo Gil Marks come la più antica commedia ebraica conosciuta, l’opera sarebbe ispirata da una parte al Midrash e dall’altra alla tradizione della commedia italiana.
In particolare, vi sarebbe riportato un dialogo al limite del surreale incentrato su un equivoco nella lettura delle prescrizioni religiose. Un personaggio rievoca l’impiccagione del crudele Haman nel Libro di Ester e il fatto che nel testo si chieda ai figli di Israele di festeggiare mangiando ha’mahn. Ma come potrebbero gli ebrei, che devono tenersi lontani da ogni empietà, mangiare i resti di un uomo? Gli viene in soccorso un amico, che gli spiega come il testo si riferisca in realtà alla manna (ha’mahn, appunto) e non ad Haman. Meglio ancora, secondo l’uomo il Libro indicherebbe agli ebrei di mangiare sì le orecchie di Haman, ma nella forma di oznei Haman, cioè di dolci preparati con semola finissima stesa sottile, fritta nell’olio e quindi ricoperta di miele. Qualcosa di molto simile, insomma, a una delle descrizioni della manna inviata da Dio agli Israeliti.
Prima di addentrarsi nelle interminabili disquisizioni possibili intorno alle dolci elargizioni divine, vale la pena di ricordare i personaggi principali della storia. Non della commedia cinquecentesca, ma del Libro di Ester, alla base della festa di Purim. Descritta spesso in termini grotteschi, la vicenda è ambientata in Babilonia nel VI secolo avanti Cristo e vede come protagonisti il re persiano Assuero, il malvagio consigliere Haman, il leale funzionario Mardocheo e sua cugina (o nipote, dipende dalle letture) Ester. La fanciulla è diventata la nuova moglie del re dopo che questi ha ripudiato la precedente, la regina Vasti, rea di essere rimasta a divertirsi nel gineceo anziché partecipare a un banchetto di corte.
Alla base della vicenda vi è la sete di potere di Haman, invidioso e geloso di Mardocheo per i favori che gode presso il re e desideroso di vendicarsi dopo che il funzionario si è rifiutato di prostrarsi in sua presenza. In quanto ebreo, infatti, l’uomo rispetta il precetto di onorare solo il proprio Dio. Da qui, la decisione di colpire non solo l’avversario politico, ma anche l’intero suo popolo, facendo emanare un editto dal re che gli dà piena libertà nell’eliminare tutti gli ebrei, all’epoca sotto il regno persiano e accusati di disobbedienza al sovrano. Quello che il losco figuro non ha messo in conto sono le origini ebraiche della nuova regina.
Giunta a palazzo sotto falso nome, Ester non ha rivelato al marito di essere ebrea. Sollecitata dal cugino (o dallo zio, comunque dal suo tutore, essendo lei orfana), la donna prima pare tentennare perché persino lei non avrebbe accesso alle stanze reali senza esplicita convocazione, poi digiuna per tre giorni con l’intero suo popolo, prega e infine trova la soluzione. Portato il marito dalla sua parte, ricordandogli la lealtà di Mardocheo, riesce a far cadere Haman in un tranello e a farlo giustiziare al posto del fedele funzionario. Da qui, la festa di Purim, a memoria della salvezza e al tempo stesso fragilità.
Dei quattro precetti legati alla ricorrenza, almeno due sono riconducibili al cibo. Oltre alla lettura del rotolo di Ester (facendo un gran chiasso per coprire il nome di Haman quando viene citato) e alle offerte ai più bisognosi, per ricordare le vicende narrate nel Libro viene infatti chiesto di donare cibo agli amici (il Mishloach manot) e di consumare un ricco pasto pomeridiano (il Purim seudah), nel corso del quale è consentito, e anzi auspicato, che gli astanti bevano fino a rintronarsi.
Per quanto riguarda gli alimenti che devono comporre il banchetto (preceduto dal digiuno in memoria di quello di Ester), non vi sono indicazioni precise e i menu variano da comunità a comunità. Elemento comune sarebbe una certa predilezione per le preparazioni ripiene, con ingredienti nascosti a simboleggiare i misteri, gli intrighi e le trame alla base del racconto. Questo, tra l’altro, sarebbe un caso della Bibbia in cui lo stesso elemento divino resta solo implicito, non comparendo mai il nome di Dio. Tra gli altri punti di contatto tra Sefarditi e Ashkenaziti ci sarebbe l’usanza di mangiare legumi, in particolare ceci e fave. Anche qui si ricorda Ester, che si sarebbe nutrita di questo cibo per poter osservare la kasherut senza manifestare a corte la propria identità ebraica. Per il resto, vista la scarsità di vegetali freschi e di animali nel periodo ancora invernale, ci sarebbe una gran quantità di prodotti da forno oltre che, più in generale, di dolci. Questi ultimi sono certo degli impareggiabili simboli di letizia e di buona sorte, ma quello che qui colpisce è il tipo particolare di preparazione.
Il riferimento è alle già citate orecchie di Haman, ma anche alle Hamantaschen, letteralmente “tasche di Haman”. Qualcuno a questo punto potrebbe chiedersi se non si stia parlando della stessa cosa. E un rapido giro in Rete ne confermerebbe il sospetto. Che si parli di tasche o di orecchie, l’immagine che compare ovunque è infatti sempre quella dei triangoli di frolla ripiena, di volta in volta, di confettura (soprattutto di prugne), di semi di papavero, di frutta secca o di creme. Basta pensare però alla storiella raccontata all’inizio per chiedersi dove stia l’inghippo. Per Purim non si raccomandava forse di mangiare delle cialde fritte? Pare che, pur senza ancora citare Haman, già in un libro di cucina moresco del XIII secolo proveniente dall’Andalusia si parlasse di pasticcini farciti e fritti chiamati udhun (orecchio in arabo). Più tardi, il commentatore biblico Isaac Abarbanel (1437-1508) avrebbe descritto delle preparazioni analoghe, sempre chiamate orecchie (ozneim), paragonandole alla manna. Non troppo tempo dopo, ecco che quelle stesse orecchie diventano il dolce riconosciuto per la ricorrenza di Purim, con Haman finalmente (si fa per dire) protagonista.
Che la prima citazione riconosciuta provenga dall’Italia potrebbe non essere un caso. Tra Purim e il Carnevale, con le sue brave chiacchiere, bugie o lattughe, sono tanti i punti di contatto, se non altro nel modo di festeggiare il ribaltamento dei ruoli facendo festa contro le convenzioni e travestendosi. Questa usanza, in particolare, secondo Marks sarebbe stata acquisita dagli ebrei italiani proprio grazie alle maschere della commedia dell’arte. Per quanto riguarda le sfoglie fritte, come spesso accade non è possibile stabilire con certezza chi abbia influenzato chi, ma è certo che l’usanza di gustare le orecchie cotte nell’olio e poi passate nel miele abbia velocemente contagiato l’area mediterranea e l’Europa.
Perché vi si parli in termini di orecchie le teorie sono controverse. Secondo un’errata interpretazione dell’usanza dell’Italia medievale di mozzare un orecchio a un condannato a morte prima dell’esecuzione, Haman sarebbe stato mutilato dopo la morte e il dolce ne ricorderebbe la fine. Sul fatto di mangiarselo, ci sarebbero delle perplessità, ma il motivo sarebbe legato all’intento di distruggere il nemico, annientandolo attraverso la raffigurazione di una sua parte o di un suo indumento. Questa spiegazione offre anche la possibilità di parlare dell’altra versione dei dolcetti, spesso ritenuta l’unica possibile per Purim, vista la sua impressionante diffusione in tutto il mondo.
Nate in Germania, le tasche di Haman o Hamantaschen esistevano già nel Medioevo e si presentavano, allora come ora, sotto forma di dolcetti di pasta triangolari farciti con i più diversi ripieni. Uno dei più comuni era quello ai semi di papavero, che prendeva il nome di Mohntaschen, letteralmente “tasche di semi di papavero”. Pare che verso la fine del XVI secolo, influenzati dalla somiglianza tra la parola mohn e Hamohn (Haman in ebraico), gli ebrei teutonici abbiano chiamato i dolcetti con il nome con cui sono ancora oggi indicati.
In seguito, sarebbero arrivate anche le spiegazioni simboliche. Secondo la più improbabile (e anacronistica) delle teorie la forma triangolare avrebbe rappresentato il cappello del cattivo, mentre l’idea della tasca farebbe riferimento indirettamente alle tangenti che il ministro indegnamente riscuoteva. Una spiegazione più mistica vorrebbe che i tre lati (nonché vertici) richiamino il numero dei patriarchi, Abramo, Isacco e Giacobbe, e la loro oscura partecipazione alla sconfitta di Haman. Sempre a proposito di oscurità, tornerebbe il tema già citato della farcitura, celata nella pasta come un simbolo dell’azione nascosta di Dio nel Libro di Ester. Le preferenze alimentari della regina spiegherebbero poi il ripieno più gettonato delle “tasche”, ossia quei semi di papavero (e più in generale quei vegetali) che le avrebbero dato sostentamento a corte senza farle infrangere i precetti religiosi.
C’erano insomma tutte le ragioni perché gli ebrei della Renania e della Germania occidentale portassero con sé questi biscotti nel XIV secolo quando si spostarono verso Est, confermando le tasche di Haman come i principali dolcetti ashkenaziti di Purim. Poi, certo, ogni comunità conservava comunque tradizioni diverse, una tra tutte gli omini di pan di zenzero, ma resta il fatto che nel corso dell’Ottocento gli Hamantaschen si affermarono in tutte le comunità ashkenazite.
Per completarne la diffusione mancava solo il passaggio Oltreoceano. Questo sarebbe avvenuto tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo con l’arrivo in America degli ebrei europei dell’Est e, dopo qualche decennio di diffusione limitata (si fa per dire) alle comunità, con la conquista anche del mercato non ebraico. Nel frattempo, queste stesse prelibatezze avrebbero raggiunto anche Israele, affermandosi sia con il nome di Hamantaschen sia con quello di oznei Haman. Diffusa in particolare tra i Sefarditi e i Mizrachi, memori probabilmente dei dolcetti fritti della loro tradizione, questa denominazione si è oggi affermata un po’ ovunque, portando paradossalmente a dimenticarne l’origine. E mettendo così in secondo piano le orecchie di Haman della scuola italiana e spagnola.
Orecchie di Haman (oznei Haman)
Ingredienti per 6
3 grosse uova
3 cucchiai di olio extravergine d’oliva
3 cucchiai di zucchero
3 cucchiai di liquore (rum o brandy) o succo di arancia o acqua di fiori di arancia
½ cucchiaino di sale
2 cucchiaini di scorza grattugiata di limone (o di arancia) o 1 cucchiaino di cannella in polvere
60 g di mandorle o noci tritate
500 g di farina o 350 g di farina e 150 g di semola fine
olio di semi di arachidi
zucchero a velo
Sbattere leggermente le uova in una larga ciotola, poi unirvi l’olio d’oliva, lo zucchero, il liquore (o il succo o l’acqua), il sale, la scorza (o la cannella) e le mandorle (o le noci) tritate. Aggiungere la farina a poco a poco e sempre mescolando fino a ottenere un composto morbido, poi trasferirlo su un piano di lavoro infarinato e impastare formando una palla liscia. Coprirla con pellicola o con carta da cucina e lasciarla riposare a temperatura ambiente per almeno 30 minuti.
Dividere l’impasto in due parti e stenderlo sul piano infarinato formando delle sfoglie spesse circa 3 mm, poi tagliarle in strisce larghe 2,5 cm e lunghe dai 12 ai 15 cm. Pizzicare ogni striscia al centro e attorcigliarne le estremità.
Friggere le strisce in una padella profonda con abbondante olio di arachidi, girandole su tutti i lati, poi scolarle su carta da cucina e spolverizzarle con abbondante zucchero a velo.
Tasche di Haman (Hamantaschen)
Ingredienti per 6
160 g di burro
120 g di zucchero
1 grosso uovo
3 cucchiai di succo di arancia o panna acida o latte o vino bianco
1 cucchiaino di estratto di vaniglia
sale
600 g di farina
400 g di confettura o crema o mix ai semi di papavero
Montare il burro ammorbidito in una larga ciotola fino a ottenere una crema, poi unirvi lo zucchero, gradualmente e continuando a lavorare per altri 5-10 minuti. Unirvi quindi anche l’uovo sbattendo ancora e aggiungendo il succo, la vaniglia e un pizzico di sale.
Incorporare la farina continuando a mescolare fino a ottenere un impasto morbido, poi avvolgerlo in un foglio di pellicola e lasciarlo riposare in frigo per almeno 2 ore.
Riprendere l’impasto, dividerlo in 2-4 parti e stenderlo allo spessore di circa 3 mm. Tagliarlo con un bicchiere in tanti dischi e distribuire al centro di ognuno un cucchiaino del ripieno scelto.
Sollevare il bordo dei dischetti in tre punti, formando un triangolo e pinzandone con le dita i punti di contatto, in modo da chiudere parzialmente il ripieno all’interno.
Disporre i dolcetti in una o più teglie foderate con carta da forno, poi cuocerli nel forno già caldo a 180° per circa 12-13 minuti, fino a quando saranno dorati. Sfornarli e lasciarli raffreddare, poi spolverizzarli a piacere con zucchero a velo.
Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.