Un ricordo della scrittrice appena scomparsa
È scomparsa lo scorso 16 febbraio, Irit Amiel. Ricordo bene quando mi capitò per le mani il suo libro, Fratture, una raccolta di racconti pubblicati da Keller. Avevo avuto la fortuna di riceverne una copia dall’ufficio stampa. Di quell’autrice, fino a quel momento non sapevo nulla.
Fu una rivelazione, oltre che un pugno nello stomaco. Anzi, no. Non è esatto parlare di pugno allo stomaco, sarebbe riduttivo. La sua scrittura mi aprì lo sguardo a un mondo altro, a un modo diverso di parlare di Shoah. Sprofondava nel vecchio continente, nella sua storia e nella sua cultura, ma sapeva di Israele. Aveva un gusto, un sapore e una luce completamente diversa. In più, il linguaggio: poetico (tra le altre cose, Irit Amiel ha tradotto in ebraico la grande poetessa polacca Premio Nobel Wislawa Szymborska).
Nata in Polonia il 5 maggio 1931 da una famiglia ebraica, Amiel trascorse i primi anni della seconda guerra mondiale nel ghetto Czestochowa e riuscì a salvarsi grazie a falsi documenti ariani, ma perse tutti i suoi familiari, deportati e sterminati nel lager nazista di Treblinka. Lasciata la Polonia nel 1945 per raggiungere clandestinamente la Palestina mandataria, Amiel vi arrivò nel 1947, dopo essere passata per Germania, Italia e Cipro. Da allora ha vissuto in Israele.
Fratture parla degli “scottati”, di coloro che sono stati lambiti ma non divorati dal fuoco della distruzione e si chiede quale possa essere il loro ruolo, fino al presente, calando i racconti nella contemporaneità. Il dolore pervade tutto il libro, con fratture evidenti, insanabili e intime, ma il presente rende tutto possibile, in una vita proseguita ben oltre la guerra, ben oltre la Palestina mandataria e mai senza dolcezza.
Come succede in Lettera al padre, un ritorno nella città natale che inghiottì, alla stazione, i suoi genitori per non riportarli più indietro. In quel racconto scrive: “Siamo arrivati qui per dirvi che avete ben sei pronipoti: uno per ogni milione (di più non ho fatto in tempo), i quali nella vita di tutti i giorno parlano la lingua della Bibbia e delle preghiere che recitavi nella nostra Sinagoga Nuova, e giocano a pallone sulla Terra Santa, il loro paese, sotto la Stella di David che si staglia fieramente sul bianco e blu della bandiera”. Una preghiera, un congedo dai genitori. Che poco dopo continua: “Siamo arrivati qui per raccontarvi che cosa sono riuscita a fare dopo che mi spingesti dal lato della vita attraverso quella piccola fessura in via Przemyslowa. A quel punto avevamo capito che ci era toccato vivere in un mondo spietato in cui nessuno, né il padre né la madre, sarebbe stato in grado di salvare il proprio figlio da una condanna senza scampo. Ma io sono sopravvissuta. Scottata, ho spiegato le vele verso l’oriente. Ho costruito un kibbutz. Ho piantato un albero. Ho partorito figli”.
Dell’esperienza di sopravvissuta, di “scappata”, di scottata racconta anche in Opzioni: “Che cosa fa una ragazzina di dieci anni, rimasta sola in un appartamento a piano terra (in una soffitta, in uno scantinato) abbandonato da Dio e dagli uomini nel bel mezzo della caccia agli ebrei scatenatasi nel ghetto nel quarantadue?” Si procede con l’elenco di varie opzioni, fappunto, fino alla quarta, quella della fuga nel tentativo di salvarsi. Chiede aiuto a chi è fuori dal ghetto ma nessuno è disposto a darle protezione, né gli amici, né chi aveva preso in custodia qualche bene di famiglia. “Dopo questo, Celinka non avrà più niente da imparare sulla natura umana, nemmeno se vivesse cent’anni.Finalmente raggiunge la casa di Andzia”, l’unica persona che dimostra di essere umana accogliendola in casa. Celinka si salverà: “e vivrà, vivrà, vivrà… Lei stessa, i suoi figli e nipoti”, scrive Amiel, che chiude il racconto con una considerazione feroce: “Mentre io, arrivata fino al ventunesimo secolo, sono qui ora chiedermi quale opzione avrei scelto se fossi stata al suo posto, al posto di Andzia o a quello dei signori N”.
Quando uscì, presi a regalare copie di questo libro a tutte le persone che pensavo avrebbero apprezzato la visione di Amiel e a tutti coloro che mi stavano vicini. Un piccolo libriccino giallo, pronto a svelare storie profondamente vere, vissute, sentite e tenute nel cuore per lunghissimi anni. Fratture infatti è del 2009 (in Italia 2010 nella traduzione di Marzena Borejczuk), uscito per i 78 anni dell’autrice. E oggi, beh, vale la pena di (ri)leggerlo.
Irit Amiel, Fratture, Keller editore, pp.133, 13,50 euro