Arriva in libreria il promanzo di Gila Almagor. La recensione
Lei è Gila Almagor, splendida signora del teatro e del cinema d’Israele, che dal 1956 non ha smesso di incantare gli spettatori e di mietere successi, in patria e all’estero. Interprete poliedrica e di rara intensità, nel corso della propria carriera Gila Almagor non ha disdegnato brevi ma significative incursioni anche in altri territori, principalmente in ambito letterario. Il suo primo libro – L’estate di Aviha, uscito nel 1985 – è, infatti, una delle opere letterarie più iconiche della cultura d’Israele. Finalmente, dopo esser stato tradotto in undici lingue e aver conosciuto un’eccellente elaborazione cinematografica nel 1988, questo piccolo gioiello arriva anche in Italia, annunciandosi come una delle novità più rilevanti dell’anno. Esce, infatti, oggi in tutte le librerie italiane, grazie a un notevole lavoro di traduzione e curatela da parte di Paola Maria Rubini e alla lungimiranza di Acquario Libri, un piccolo editore indipendente che ha saputo riconoscere l’indiscutibile valore di questa storia. Che è, prima di tutto la storia di un’infanzia, di una vita, quella di Aviha – dietro la quale si cela la stessa Almagor – ma è anche la storia di una nazione colta nel suo faticoso divenire.
Di norma le classificazioni commerciali attribuiscono a L’estate di Aviha un target di lettori giovani, “dai dieci anni in su”, scrive lo stesso Istituto per la traduzione della letteratura ebraica. Sicuramente, sotto molti aspetti, questo libro ha saputo raccontare a generazioni di studenti israeliani il passato dei loro nonni, del loro Paese. Non a caso è stato inserito ormai da tempo nei programmi scolastici. Tuttavia, basta sfogliare le prime pagine del volume per accorgersi quanto una simile definizione sia limitante, non esaurendo per nulla la ricchezza e la complessità delle sue sfumature. Prima di essere l’autobiografia di un personaggio pubblico celeberrimo e amato, prima di essere un racconto per ragazzi, L’estate di Aviha è, infatti, una grande testimonianza della Seconda Generazione della Shoah, la quale ci appare ancor più potente e tragica perché vissuta da una bimbetta di dieci anni. Aviha-Gila, che porta impresso nel proprio nome bizzarro il legame con un padre mai conosciuto, deve, infatti, affrontare la solitudine, l’abbandono, la povertà. Ma soprattutto la malattia mentale della madre, Henya, una ex-combattente sopravvissuta alla Shoah, che, alla pari di molti superstiti, nell’Israele degli anni ’50 non trova accoglienza e comprensione. Al contrario, è derisa e insultata: Partizonke, la chiamano i bambini del quartiere. Nello stesso modo è derisa e insultata Aviha, cui la madre ha rasato totalmente il capo infestato dai pidocchi. Nel gesto della madre di Aviha riconosciamo lo stesso terrore allucinato della nonna che nel racconto Eliminazione di Savyon Liebrecht taglia maldestramente i boccoli della nipotina, perché così si eliminavano i parassiti nei lager. Nel suo disagio psichico rivediamo l’incapacità di uscire dall’esperienza della Shoah, che molti hanno provato. Nell’isolamento di entrambe quel vincolo di destino comune tra madre e figlia che si ritrova nelle opere di molte autrici di Seconda Generazione. “Ho succhiato il dolore col latte di mia madre”, scriveva Nava Semel.
Aviha, però, mostra subito la propria unicità, rifiutando di rassegnarsi a un ruolo di outsider che sembrerebbe già segnato. La ricerca del padre negli occhi di un misterioso vicino di casa e il primo difficoltoso interesse per l’arte ne sono una prova. Nulla è facile per lei. La ragazzina attraversa tutte le tappe del dolore e del rifiuto e, sebbene, il cammino sia ancora lungo e impervio, sappiamo che la sua sorte sarà di diventare infine Al-magor, “senza paura”. È la stessa autrice a spiegare la scelta del proprio cognome in una splendida intervista realizzata per la traduzione italiana da Fiammetta Martegani, corrispondente da Israele per L’Avvenire, e scaricabile con codice QR.
Se, come credo, anche voi vi innamorerete di Aviha, non abbiate paura: la sua vicenda non termina con l’ultima pagina di questo libro, ma prosegue in un secondo volume intitolato Etz ha-domim tafus. Chissà se presto il ciclo potrà essere compiuto. Noi speriamo di sì.
Gila Almagor, L’estate di Aviha, traduzione di Paola Maria Rubini Acquario Libri, 12 euro
Sara Ferrari insegna Lingua e Cultura Ebraica presso l’Università degli Studi di Milano ed ebraico biblico presso il Centro Culturale Protestante della stessa città. Si occupa di letteratura ebraica moderna e contemporanea, principalmente di poesia, con alcune incursioni in ambito cinematografico. Tra le sue pubblicazioni: Forte come la morte è l’amore. Tremila anni di poesia d’amore ebraica (Salomone Belforte Editore, 2007); La notte tace. La Shoah nella poesia ebraica (Salomone Belforte Editore, 2010), Poeti e poesie della Bibbia (Claudiana editrice, 2018). Ha tradotto e curato le edizioni italiane di Yehuda Amichai, Nel giardino pubblico (A Oriente!, 2008) e Uri Orlev, Poesie scritte a tredici anni a Bergen-Belsen (Editrice La Giuntina, 2013).