Un ragionamento sulla violenza a partire dal libro di Galia Oz, in cui l’autrice denuncia le volenze subite da parte del padre (e grande scrittore) Amos
“Nella mia infanzia mio padre mi ha picchiato, imprecato contro e umiliata. La violenza è stata creativa: mi ha trascinato fuori casa e mi ha cacciato via. Mi ha chiamato schifezza. Non una passeggera perdita di controllo e non uno schiaffo in faccia qui e lì, ma una routine di sadico abuso. Il mio crimine ero io stessa, così la punizione non ha avuto fine. Doveva essere sicuro che mi spezzassi”. Il mondo dei lettori, ebrei e non ebrei, è in lutto o perlomeno in subbuglio. E’ appena uscito in Israele un libro che ha già suscitato scalpore. Si tratta di Qualcosa travestito da amore, dove Galia Oz, la figlia di Amos Oz, denuncia le violenze e le umiliazioni subite tutta la vita dal padre, il Dostoevsky israeliano, lo scrittore icona della sinistra, del dialogo e della pace.
Gli altri figli riportano una versione diversa ma ormai il germe del dubbio è instillato. Del resto, Galia non sarebbe la prima figlia a subire in famiglia un trattamento completamente diverso dagli altri fratelli (se qualcuno mi conosce come scrittrice sa che ho appena pubblicato un romanzo dove si parla di queste tematiche). Colpisce soprattutto la fisicità di quelle poche immagini riportate su Haaretz e altri giornali, sulle quali dobbiamo basarci non avendo ancora letto il libro: quel trascinare fuori casa una bambina o una ragazza, il suono degli schiaffi tra le righe, le ingiurie verbali, fino al desiderio di spezzare ogni resistenza, dell’annientamento psicologico. Non mi interessa qui tanto parlare di questa autobiografia che, ripeto, non ho avuto ancora modo di sfogliare; ma di fare una riflessione su quello che sta succedendo in Israele intorno al corpo delle donne. Parlando con un amico che vive a Tel Aviv, a cui chiedevo proprio delle impressioni sulla percezione del volume di Galia Oz presso l’opinione pubblica, mi ha rivelato che in Israele in questo periodo sono caduti molti idoli: personaggi noti del mondo della politica o della cultura sono stati accusati di abusi insospettabili. Uno tra questi ad esempio è l’attore Erez Drigues, coautore con Noa Koler di una serie di successo, amata soprattutto dai giovani, dal titolo Rehearsals, incentrata sul mondo teatrale. Su un website femminista sono uscite le dichiarazioni di quattro donne in passato molestate da Drigues che ha ammesso di aver avuto problemi di dipendenza dal sesso e di avere scritto proprio in Rehearsals un personaggio nella stessa situazione per elaborare i meccanismi psicologici che lo hanno portato a una condotta sbagliata e per “riparare”.
Che Israele stia vivendo, con tempi leggermente sfalsati, il suo “me too”? Anche questo, almeno per quanto riguarda la mia percezione, si è rivelato sorprendente, forse perché noi ebrei in Diaspora vogliamo credere all’immagine di un Israele avanzato, dove la parità tra uomini e donne sia davvero l’ultimo dei problemi. Non ci sono forse soldati e soldatesse? Non parte forse dalla scuola l’educazione alla condivisione di diritti e doveri? Eppure il tema della violenza alle donne, dell’abuso sessuale e psicologico da parte di compagni, fratelli, padri, amici, è uno dei più forti in questo momento e aspetta di venire elaborato adeguatamente. Avevo già notato questa attenzione, questo bisogno di sottoporre l’argomento a un vasto pubblico e di portare alla luce il problema, assistendo ad alcune recenti produzioni teatrali israeliane, perlopiù legate al settore Fringe, cioè al teatro alternativo. Quello che dà voce agli invisibili, che siano gli ebrei etiopi disadattati di Moshe Malka o il teatro in lingua araba di Nazareth o le produzioni che vanno a scavare nelle budella e nelle responsabilità del paese del Teatro di Akko. Già questa divisione tra un teatro ufficiale, Cameri e Habima, di stampo più tradizionale anche se aperto alla nuova drammaturgia, dove le donne ancora non sono però del tutto protagoniste e non hanno un trattamento paritario né come registe né come autrici né oserei dire come personaggi, e teatro di ricerca dove si racconta l’irracontabile, ci dice che esiste una una spaccatura profonda. Di violenza sul corpo delle donne si può parlare, ma nei circuiti alternativi, forse ancora sommessamente. Eppure le voci di autrici e performers sono forti, tutt’altro che sussurranti. Come in Demonstrate di Dafna Silberg, basato su un processo per stupro a una ragazza di sedici anni avvenuto nel 2008, durante il quale una giuria di soli uomini aveva chiesto alla testimone di rivivere il momento. Cioè di dimostrare. Dimostrare che non era stata colpa sua, mimare le posizioni a cui era stata costretta; le si erano rivolte domande sempre più intime e private fino a che la vittima era diventata imputata, colpevolizzata dal sistema giudiziario che la doveva tutelare. La particolarità dello spettacolo di Silberg è che le parti sono invertite e un attore maschio interpreta il ruolo femminile. Ma che maschio è quello che deve “sentire” al posto della donna? Il soldato con cui si condividono gli addestramenti, il figlio di genitori che hanno abitato in kibbutz come Amos Oz e hanno visto nascere e sbocciare il sogno sionista, il sabre che antepone alla delicatezza una forza muscolare? O è il paese stesso che deve mettersi nei panni delle donne, nel loro corpo? Sicuramente non è facile trovare le parole per raccontare una violenza. Lo dice anche Goni Paz in Sweetie, You Ain’t Guilty dove si gioca proprio sull’impossibilità di narrare lo stupro subìto; una performance a metà tra la solitudine di dover tenere questo segreto e l’orrore di condividerlo con una platea di spettatori. Per tutta la durata l’attrice non proferisce una parola, la messa in scena è fatta di immagini anche molto surreali: si legge la storia di Apollo che seduce Dafne e la trasforma in albero (anche qui qualcosa che non può volare come un uccello o comunicare, una cosa muta). Oppure Goni Paz (che ha davvero subito una violenza) racconta, tramite biglietti che sarà il pubblico a leggere, il suo odio verso il violentatore, un ragazzo con la maglietta grigia, che lei vorrebbe uccidere come Uma Thurman in Kill Bill con una spada da samurai.
Anche il silenzio parla e le donne hanno voglia di romperlo, di trovare un linguaggio per raccontare il corpo, la sua vitalità, che non è fermata neanche dalla malattia come nelle performance di Nataly Zuckermann, paralizzata dall’età di dodici anni che vive davanti agli spettatori i limiti ma anche i successi che la sua disabilità le consente (The other body and Practise makes perfect); ma per scoprire anche il dolore che comporta essere chiamate schifezze, essere sbattuta fuori dalla porta come spazzatura o schiaffeggiata come ci dice Galia Oz, seppure in un contesto diverso: certo, lì si tratta di un rapporto padre-figlia. Ma non sono anche queste artiste le figlie del loro paese, di questo Padre morale che è Israele, un padre a volte insensibile, indifferente e abusatore? In questo senso lo spettacolo che fa capire meglio la voglia di raccontare il proprio corpo, di farlo diventare centrale e importante nella ridefinizione dell’identità nazionale è quello di una giovane attrice, Nofar Sela, che ogni sera in Surface diventa lei stessa Israele. Si allunga prendendo la forma che conosciamo dalla carta geografica, chiede di indicare dove stia Gerusalemme o Haifa o il deserto. La performance ha l’obbiettivo di ricostruire un legame emotivo con la geografia del luogo ma non è un caso che questo esperimento di riappropriazione passi attraverso un corpo di donna, autorevole e sensuale, e il potere magico di una creazione artistica tutta al femminile.