…non è un piatto milanese? O meglio, lo è diventato, ma in principio era una ricetta per lo Shabbat
Che il risotto alla milanese sia un piatto, appunto, di Milano, è lapalissiano. Su come, quando e perché lo zafferano abbia incontrato il riso, invece, ci sarebbero alcuni dubbi. La versione che va per la maggiore, ripetuta un po’ ovunque, ha tutta l’aria di essere una leggenda e non fa nulla per sembrare più realistica. Vale comunque la pena di ricordarla, casomai qualcuno se la fosse persa.
Secondo questa storia, riportata in un documento conservato nella Biblioteca Trivulziana, il primo risotto giallo sarebbe stato servito l’8 settembre 1574 in occasione delle nozze della figlia del maestro vetraio belga Valerio Perfundavalle da Lovanio. L’artista, impegnato nella lavorazione della vetrata di Sant’Elena del Duomo di Milano, si appoggiava al talento di un discepolo, addetto alla coloritura dei vetri e con una speciale propensione per lo zafferano, spezia diventata anche il suo nomignolo. Con tanto di battute sul fatto che, prima o poi, l’avrebbe usata perfino nel risotto. Detto fatto, sembra che il giovane si sia accordato con i cuochi incaricati del banchetto di nozze e abbia fatto servire agli ospiti una fumante portata di riso giallo. Il giorno dopo, tutta la città voleva già assaggiare la novità.
Vero o falso che sia, questo racconto daterebbe alla fine del Cinquecento non solo la creazione del risotto così come oggi lo conosciamo, giallo, cremoso e mantecato (il che è tutto da dimostrare), ma anche lo stesso abbinamento del riso con lo zafferano. Messa così, si potrebbe quasi pensare che fino a quel momento la preziosa spezia fosse usata solo per fini decorativi e comunque non alimentari. In realtà, l’impiego dello zafferano per dare gusto e colore ai piatti, di riso e non solo, risalirebbe a tempi ben più lontani e avrebbe trovato sostenitori in Italia ben prima della vicenda sopra narrata.
Modello per gli chef milanesi e dell’Italia settentrionale in genere sarebbero stati gli ebrei sefarditi, giunti nelle regioni del Nord dopo essere stati cacciati dalla Spagna nel 1492 ed esiliati dalla Sicilia l’anno successivo. Questa teoria, condivisa da diversi studiosi del cibo, dallo storico Gil Marks al cuoco e scrittore di cucina Clifford A. Wright fino all’antropologa Claudia Roden, si fonda su diverse considerazioni riguardanti sia le vicende dei diversi ingredienti sia la maniera di cucinarli insieme.
Partendo dal riso, la sua diffusione in tutto il bacino del Mediterraneo sarebbe il frutto di una azione congiunta di Arabi ed Ebrei. Sia Marks sia Roden ricordano che questo prezioso cereale sarebbe diventato parte integrante della dieta degli israeliti già durante il periodo del Secondo Tempio, grazie all’intercessione dei Persiani che lo portarono dal Sud Est Asiatico dove era coltivato da millenni. Nella sua Encyclopedia of Jewish Food, Marks ricorda che in epoca romana il riso israeliano era già diventato una importante voce di esportazione elogiata persino nel Talmud di Gerusalemme. Oltre a esaltarne la produzione locale, vi si ricordava anche che diversi rabbini lo includevano, insieme alle barbabietole, nel piatto del Seder di Pesch. Nei secoli successivi, via via che gli Arabi conquistavano vaste zone del Mediterraneo, vi introducevano anche la coltivazione del riso e le relative tecniche di irrigazione dei campi. Nel decimo secolo, l’Egitto sarebbe stato il più grande produttore di questo cereale al di fuori dell’Estremo Oriente.
Va poi ricordato che di riso non c’era e non c’è una sola qualità, distinguendosi sostanzialmente, allora come ora, tra varietà a chicco lungo, tipiche della cucina persiana e dell’Impero Ottomano, e varietà a chicco corto. Questa seconda tipologia, più adatta a rilasciare amido e ad assorbire i sapori, si sarebbe affermata in Spagna fin dal suo arrivo, diventando velocemente parte integrante della cucina sefardita oltre che la preferita dai suoi cuochi.
Secondo gli storici, l’antenato del risotto sarebbe stato portato in tavola praticamente ogni giorno in molte famiglie ebraiche. Dopo l’espulsione dalla Spagna, ogni comunità avrebbe adottato la tipologia di riso coltivata nei Paesi dell’esilio, così come i piatti tipici della regione in cui si era stabilita, portando a sua volta in dote le proprie tradizioni e ricette.
In Italia, in particolare, la coltivazione e quindi l’impiego del riso si sarebbero affermati tra il Quattro e il Cinquecento, seguendo canali non sempre univoci né lineari. Quello che si può affermare con un buon margine di sicurezza è che nelle regioni settentrionali, in particolare in Piemonte e nel Lombardo-Veneto, l’influenza dei sefarditi in fuga dalla Sicilia e dalla Spagna fu determinante. Al contempo, le stesse coltivazioni di riso, anche se in ambienti non sempre salubri, consentivano un raccolto parallelo che dava da vivere ai suoi lavoratori e agli abitanti della zona oltre che stimolarne l’inventiva gastronomica. Si andava dalle tinche e carpe, pescate prima o durante lo svuotamento delle camere d’acqua, alle anatre e oche, che dopo il raccolto erano lasciate pascolare nelle risaie, fino agli aironi e alle rane. E se con questi ultimi due animali gli ebrei non potevano fare molto senza trasgredire le regole alimentari, con pesci e palmipedi potevano arricchire, come infatti hanno fatto, i propri ricettari, assorbendo le tradizioni della cucina del territorio.
L’influenza, del resto, era reciproca. Secondo quanto riportato da Claudia Roden, che cita a sua volta lo studioso di cucina veneta Giuseppe Maffioli e la sua Cucina veneziana, le stesse limitazioni della kasherut avevano favorito lo sviluppo di una notevole fantasia nello sfruttare i prodotti locali consentiti. Il discorso di entrambi gli scrittori si concentra in particolare sulla cucina del ghetto di Venezia, in cui il riso si arricchiva di tutti gli ortaggi possibili e immaginabili, dai piselli ai carciofi, dalle zucchine agli spinaci, oltre che di pesci e di pollame. Un contributo eccezionale a quella che sarà la cifra distintiva di tutta la cucina veneta, così ricca di risi e risotti preparati con gli ingredienti più diversi.
Poi, certo, la Roden ricorda anche la differenza tra la cottura del risotto all’italiana, ossia unendo al riso il liquido caldo poco alla volta, e quello del pilaf tipicamente levantino, con l’acqua o il brodo aggiunti in un colpo solo. Nonostante questo, tutti gli esperti citati individuano la chiara e diretta influenza di preparazioni tipicamente ebraiche a base di riso e zafferano nella definizione del risotto alla milanese. Per Wright, il suo modello sarebbe stato il Riso col Zafran degli ebrei veneziani, secondo la Roden, la specialità meneghina si rifarebbe a una antica specialità in uso sia nel ghetto di Venezia sia nella comunità di Ferrara.
Entrambi gli esperti suppongono che in origine il piatto fosse più simile a un pilaf che a un risotto, e che probabilmente fosse arrivato a Venezia dalla Sicilia, dove sarebbe stato conosciuto sia tra gli arabi sia tra gli ebrei. A supporto della propria teoria, Wright cita il cuoco rinascimentale Cristoforo da Messisbugo, autore nel 1557 di un ricettario in cui citava il risotto con lo zafferano in quanto pietanza nata in Sicilia, luogo in cui tra l’altro lo zafferano era ampiamente coltivato e impiegato in cucina.
Per quanto riguarda il tipo di cottura, nel suo The Book of Jewish Food la Roden riporta due preparazioni ben distinte, anche se unite dalla tonalità gioiosa e benaugurante dello zafferano. Aprendo una parentesi, va ricordato che questa spezia era una delle principali merci commerciate dagli ebrei medievali e di conseguenza anche una delle più impiegate nella loro cucina, oltre che in campo medico, cosmetico e religioso (Marks ne ricorda la presenza nella Bibbia oltre che nella composizione dell’incenso del Tempio).
Tornando ai piatti, per la Roden abbiamo da una parte il Riz au Saffran e dall’altra il Risotto Giallo di Sabbath, entrambi preparati il venerdì sera per essere consumati nel giorno successivo di festa. Più vicina a un riso pilaf, la prima pietanza citata presenta diverse varianti a seconda del Paese di origine, ma sostanzialmente prevede l’impiego di riso a chicco lungo (tipo Basmati) fatto bollire in acqua o brodo bollente con l’aggiunta di zafferano. Poi, a piacere, vi si uniscono cipolle o altri vegetali saltati con mandorle e uvetta, discostandosi in questo caso nettamente dal piatto milanese.
Il Risotto Giallo di Sabbath, invece, punta direttamente sul riso a chicco corto (la Roden consiglia l’Arborio) e lo tratta in modo molto simile alla tradizione lombarda. Pur senza usare il classico soffritto, prevede comunque la tostatura del riso in un grasso animale (tipo oca) o nell’olio vegetale e quindi l’aggiunta di brodo di pollo bollente, di vino bianco e, a fine cottura, dello zafferano. Certo, il vino non viene ancora sfumato né il liquido bollente è aggiunto a poco a poco, ma i punti di contatto con il risotto propriamente detto sono notevoli. Soprattutto per quanto riguarda l’aspetto finale, comunque cremoso grazie all’amido rilasciato dal riso a chicco corto. Poi, ovviamente, per arrivare al riso giallo alla milanese ci vorranno alcuni altri passaggi, come l’impiego del burro e del formaggio in abbinata al brodo di carne e al midollo. Accostamenti non consentiti dalla kasherut che distinguono nettamente le culture, ma che testimoniano, una volta di più, come le ricette abbiano una vita propria, adattandosi ai luoghi in cui si trovano e alle persone che le preparano. Pur senza dimenticare l’impronta dei loro primi ideatori.
Risotto Giallo di Sabbath
Ingredienti per 4 persone
300 g di riso Arborio
1 l di brodo di pollo
125 ml di vino bianco secco
zafferano in polvere o in stimmi
olio di semi di girasole
sale
Scaldare 3 cucchiai di olio in una larga casseruola antiaderente e farvi tostare il riso fino a quando diventa traslucido, poi aggiungere il brodo bollente insieme al vino e mescolare bene.
Abbassare la fiamma, mettere un coperchio e cuocere a fiamma bassa per 20-25 minuti, fino a quando il riso sarà cotto al dente. Regolare di sale e aggiungere lo zafferano verso fine cottura. Mescolare e servire.
Risotto alla milanese (senza midollo né latticini)
Ingredienti per 4 persone
350 g di riso Vialone
1 cipolla
1,5 l di brodo di carne
125 ml di vino bianco secco
zafferano in stimmi
olio extravergine d’oliva
sale
Versare poco brodo bollente in una tazzina con 16-20 stimmi di zafferano e lasciare riposare. Sbucciare intanto la cipolla, affettarla e rosolarla in 3-4 cucchiai di olio in una casseruola antiaderente per circa 10 minuti, a fiamma bassa per non colorirla.
Prelevare la cipolla, tenerla da parte e versare al suo posto il riso. Farlo tostare a fiamma viva per qualche minuto, mescolando, poi bagnarlo con il vino e lasciarlo sfumare. Aggiungere nuovamente la cipolla, mescolare e bagnare con un mestolo di brodo bollente. Quando è asciutto, unire altro liquido bollente, mescolare e farlo asciugare.
Portare il risotto a cottura aggiungendo sempre il brodo bollente a mestolate e mescolando.
Quando mancano 5 minuti al termine, unirvi anche lo zafferano, filtrando il liquido con un colino, e regolare di sale. Alla fine, il riso dovrà essere al dente con il fondo morbido.
Mettere un coperchio e lasciare riposare il risotto per qualche istante prima di servirlo.
Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.