Hebraica Nizozot/Scintille
La gioia nella tradizione ebraica

La tristezza è la peggiore qualità dell’essere umano. Almeno secondo un rabbino della scuola del Veggente di Lublino.Di contro, la felicità…

Rallegrarsi, gioire, stare lieti, festaggiare… il giudaismo (e non solo la sua versione chassidica) è una tradizione religiosa che conosce e apprezza e insegna la gioia e persino comanda di vivere questa attitudine del cuore nella maggior parte delle sue feste. Due volte in Devarim/Deuteronomio si ordina di essere gioiosi (16,10-11; e ancora vv. 14-15). In Waiqrà/Levitico 23,40, sempre a riguardo della festa di Sukkot, la gioia è elevata a mitzwà, a precetto, per sette giorni. Il Talmud riprende e approfondisce tale precetto: “Rallegrarsi durante una festività è dovere religioso. Come è insegnato a nome di Rabbi Eli‘ezer: Che altro farà un uomo nel giorno di festa se non godere dei beni leciti come mangiare e bere, oppure studiare? E Rabbi Jehoshua suggeriva [per risolvere il dubbio di come allocare il tempo festivo]: dividi la festa, per metà mangia e bevi e per metà studia” (Bavli, Pesachim 68b). Dunque un po’ è joie de vivre e un po’ l’intima felicità di essere in contatto con la Rivelazione, ossia la dimensione più alta dello spirito e il senso più profondo della vita, che gli ebrei attingono attraverso lo studio della Torà e dei maestri. “Nella Tua Presenza è pienezza di gioia” recita Tehillim/Salmi 16,11. Chi poi partecipi a una celebrazione di Hoshannà Rabbà vive in una gioia incredibile, che non si vergogna di manifestarsi in pubblico con il battere i rami di salice, rompendo quel senso di riservatezza e di pudore dei sentimenti religiosi che caratterizza una persona assennata. La gioia di Purim raggiunge infine gli eccessi carnescialeschi che sappiamo (il bere – “che rallegra il cuore dell’essere umano” – è concesso al punto di non saper discernere il buon Mordechai dal perfido Aman!).

Per la tradizione rabbinica il culmine del rallegramento, come mitzwà, si raggiunge nella festa di Sukkot, che è anche chiamata Zeman simchatenu, ossia il Tempo della nostra felicità, chag/festa per antonomasia. Molti commentatori spiegano questa felicità piena e illimitata durante la festa delle capanne perché siamo appena stati perdonati a Kippur, che cade pochi giorni prima; invece la gioia di Pesach (la pasqua) è limitata dalla morte degli egiziani, che pure erano parte della creazione; mentre la gioia di Shavu‘ot (il dono della Torà al Sinai) è limitata dalla consapevolezza che in quell’evento vi fu anche la trasgressione idolatrica del vitello d’oro. Inoltre, circa il rito dell’attingere l’acqua dalla fonte di Shiloach ([Siloe] per purificare l’altare del Tempio, rito che si eseguiva durante la festa delle capanne, la Mishnà afferma: “Colui che non ha mai visto la gioia sul luogo della libagione dell’acqua non ha mai visto la gioia in vita sua! (…) Uomini pii e timorati erano soliti danzare davanti ai sacerdoti e ai leviti con le torce accese nelle loro mani [il rito si compiva alla sera] e cantare inni e salmi. Gli innumerevoli leviti con le arpe, le lire, i cembali, molti shofarim (corni ovini) e gli altri strumenti musicali stavano sui quindici gradini che scendevano dal cortile dei figli di Israele al cortile delle donne… in corrispondenza dei quindi salmi delle salite” (Sukkà V,1-4). Insomma una festa solenne dove il popolo celebrava la ‘bontà’ della Terra e il proprio essere al servizio del Signore: “E attingerete l’acqua con gioia dalle sorgenti della salvezza” (Isaia 12,3). Nessuna sorpresa che l’ultimo giorno della settimana di Sukkot sia chiami Simchat Torà ovvero la festa della ‘Gioia della Torà’, dato che l’acqua è una delle metafore più diffuse per dire la Legge del Signore.

Nella lingua ebraica vi sono molti termini che indicano gioia: ghila, rinà, ditzà (che vuol dire anche danza), chedvà (dalla radice chadà, che significa ‘rifulgere’), tzehalà (con la sfumatura di cantare inni), ‘onegh (riferito allo shabbat) e, naturalmente simchà e sasson, i due termini più usati, specie nel contesto della gioia delle nozze: dopo la felicità teologica, ecco la felicità e i legittimi piaceri coniugali, tra uomo e donna. Nelle barakhot sugli sposi si benedice il Cielo per aver creato questo tipo di gioia-e-felicità che si consuma nel segreto tra gli sposi, mentre “il Signore farà udire nelle città di Giuda e nei dintorni di Gerusalemme voce di gioia (qol sasson) e voce di letizia (qol simchà), voce di sposo (qol chatan) e voce di sposa (qol khallà): la voce di giubilo degli sposi (chatanim) dal loro baldacchino nuziale e dai ragazzi che suonano i loro strumenti musicali al banchetto”. In questa benedizione tutte le sfumature di gaudio sopra menzionate sono come concentrate, perché nella felicità di coppia si riflette la felicità stessa del Santo Benedetto che ha creato l’uomo per la donna e la donna per l’uomo, ed entrambi per il benessere del mondo. Inoltre, in questa berakhà si ricorda che la felicità privata si deve diffondere – come il bene, che è diffusivum sui – e deve contaminare la felicità pubblica cioè la politica (qui evocata dalle città di Giuda e da Gerusalemme). Forse nessuno ha raffigurato quest’aspetto della felicità coniugale meglio di Marc Chagall, quando fa fluttuare le sue coppie di innamorati che si baciano, con galli e capre e violini, sopra gli shtetlach della Russia.

Persino nel pessimistico Qohelet, desolato cantore della vacuità dell’esistenza, la parola ‘gioia’ appare ben diciassette volte! E oggi l’esultanza è il tema centrale dello Yom ‘atzmaut, il giorno dell’indipendenza dello stato di Israele, salutato come mo’ed le-simchà le-gheulà shlemà, una festa gioiosa per una redenzione completa.
La controprova che gioia e letizia sono una qualità costitutiva della spiritualità ebraica è offerta dai frequenti ammonimenti a fuggire la tristezza e quella mestizia interiore che spegne gli slanci e inibisce la fantasia. Nessuna corrente poi ha celebrato l’allegria e i piaceri (legittimi, anzi doverosi) della vita più del chassidismo, che ha fatto della gioia uno dei suoi tratti distintivi. A questo riguardo aneddoti e aforismi sono una marea da cui si può pescare ex abundantia. Rabbi Chanoch di Alexander, un discepolo di Rabbi Simchà [Rabbi Letizia, come nome maschile!] Bunam di Psyshà, della scuola del Veggente di Lublino, insegnava: “La tristezza è la peggior qualità dell’essere umano: essa non è di per sé un peccato, ma nessun peccato indurisce il cuore quanto la tristezza”. Ne consegue che, ebraicamente, esiste non tanto il diritto quanto il dovere di essere contenti.
Ancor più esemplare è quest’episodio della vita di Moshè Teitelbaum, un altro allievo di Ja‘akov Yitzchaq di Lublino (il Veggente): “Quando fu diventato allievo del rebbe di Lublino, Moshè Teitelbaum esaminò il modo di vivere dei chassidim e gli piacque. Egli vedeva come essi erano sempre gioiosi, compivano ogni lavoro nella contentezza d’animo, si muovevano con gioia e nella gioia riposavano, con altissima goia pregavano. Ora, durante un viaggio verso la casa del Rebbe lo assalì un dubbio, ricordandosi che nello Shulkhan ‘arukh è scritto: ‘Conviene all’uomo timorato di Dio nutrire tristezza e afflizione per la distruzione del Santuario’. (…) Arrivato dal Rebbe, questi gli lesse dentro e prevenne la sua obiezione: ‘Perché oggi il tuo volto è afflitto? È vero che nel libro delle leggi è scritto che ogni uomo timorato di Dio deve provare tristezza… Ma conosci la storia del re in esilio? Lungamente andò ramingo, fino a che trovò asilo presso uno dei suoi amici. Questo suo fedele tutte le volte che pensava che il re era stato cacciato dal suo regno non poteva fare a meno di piangere. Ma nello stesso tempo provava gioia che il re vivesse presso di lui. Caro Moshè – lo rincuorò – la Shekhinà ha preso dimora presso di noi. Potremmo forse vivere sempre nell’afflizione?’”.

Massimo Giuliani
collaboratore

Massimo Giuliani insegna Pensiero ebraico all’università di Trento e Filosofia ebraica nel corso triennale di Studi ebraici dell’Ucei a Roma


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