Intervista a Donata Levi in occasione della pubblicazione degli atti del convegno dedicato al soprintendente della Lombardia e direttore della pinacoteca di Brera
L’incontro con Donata Levi è ovviamente a distanza. L’occasione per una intervista è la prossima uscita per l’editore Skira del volume, curato da Emanuele Pellegrini, che raccoglie gli atti del convegno tenutosi a Lucca nel dicembre 2018 sul soprintendente della Lombardia e direttore della pinacoteca di Brera, dal 1908 al 1935, Ettore Modigliani. La mia interlocutrice, Donata Levi che attualmente insegna a Udine (Storia della critica d’arte e Museologia, Dipartimento di Studi umanistici e del patrimonio culturale), aveva partecipato a tale convegno con una relazione dal titolo “Leggi razziali e storici dell’arte. Avvio di una ricerca in Italia”. Perché questo tema?
“Ho scelto questo tema perché mi è sembrato che non fosse stato affrontato nel suo complesso il ruolo degli storici dell’arte in relazione alle leggi razziali. O meglio è sempre stato affrontato in maniera episodica e in rapporto a singole esperienze, ma non è stato sufficientemente studiato come fenomeno. Esiste ovviamente una ricchissima bibliografia italiana che nell’ultimo cinquantennio ha approfondito la questione delle persecuzioni, anche in riferimento a singole professioni (avvocati, scienziati) o ambiti professionali (esercito, università, ecc.) e anche ha preso in considerazione (seppur forse in misura minore) la questione del reintegro dei perseguitati nel dopoguerra. A questa ho fatto largamente riferimento e ne ho tratto indicazioni e suggerimenti. Tuttavia, l’impatto delle leggi razziali sul variegato mondo degli storici dell’arte in quanto categoria professionale (seppur non sempre facilmente definibile) attende ancora una trattazione sistematica sulla cui necessità mi è sembrato utile attirare l’attenzione con questo primo avvio di ricerca. La ragione per cui il tema mi sembra importante è che la storia dell’arte da un lato è disciplina nevralgica proprio in un’ottica di esaltazione nazionalistica dell’arte del passato, dall’altro è strumento operativo (e propagandistico) per una celebrazione del patrimonio artistico come scrigno di valori incontaminati”.
Nel suo intervento scrive anche di giovani donne ebree funzionarie nell’amminstrazione delle Belle Arti. Ci può presentare un caso particolarmente emblematico?
“Anche questo è un ambito interessantissimo in cui ovviamente il tema delle persecuzioni razziali s’intreccia con quello delle discriminazioni di genere, specialmente in un ambito come quello della storia dell’arte in cui la presenza delle donne è notevolissima nelle fasi della formazione, anche specialistica, ma non trova poi adeguata rappresentanza ai livelli ‘apicali’ (sia nell’università sia nell’attività di tutela). Ci sono varie fotografie per esempio che ritraggono la scuola di Adolfo Venturi durante visite o trasferte: il numero delle allieve è preponderante. Per quanto riguarda le storiche dell’arte vittime delle leggi razziali, mi hanno colpito i casi di Paola Dalla Pergola, che nel dopoguerra sarebbe diventata direttrice della Galleria Borghese, e di Augusta Ghidiglia, importante studiosa della cultura artistica parmense: all’epoca delle leggi razziali entrambe, quasi coetanee, erano giovani funzionarie. Della prima, entrata da poco nell’amministrazione statale (prima in Calabria, poi nelle Marche), c’è una lettera del novembre 1938 in cui offre in vendita la sua biblioteca e aggiunge: “Sono a Roma dopo aver dovuto lasciare per le recenti leggi, il posto di ispettrice presso la Soprintendenza alle Belle Arti, che avevo da un anno e mezzo raggiunto, Lei sa dopo quali faticosi studi. Ora penso di andare altrove a cercare lavoro”. Ancora più emblematico il caso di Augusta Ghidiglia, che prima ancora di essere perseguitata per motivi razziali, fu discriminata per questioni di genere: pur avendo vinto il concorso per ispettore nel 1934, dato che i posti per le donne erano limitati, fu assunta solo come “salariata con funzioni ispettive”.
Essere storici dell’arte significa avere diversi ruoli nella tutela e salvaguardia del patrimonio artistico, come pure nel campo dell’insegnamento, dalle scuole secondarie alle Accademie, alle Università. Quale è stata a suo parere l’incidenza delle persecuzioni fra professori funzionari di ruoli meno prestigiosi di quelli dei Soprintendenti e direttori di Musei?
“Non lo so con esattezza. Proprio per questo il mio contributo al volume su Modigliani ha come sottotitolo: “Avvio di una ricerca”. Quello che sono riuscita a raccogliere, da fonti edite e inedite, sono frammenti di storie dimenticate, lacerti di un tessuto che andrebbe ricostruito con indagini sistematiche sui ruoli organici della scuola e dell’università. Anche in questo settore si tratta di un terreno accidentato perché, specialmente negli atenei, vi era tutta una serie di incarichi temporanei, di contratti a termine, di modalità di volontariato che peraltro sfuggono a rilevazioni nazionali e andrebbero individuati con spogli nei singoli archivi”.
La storia di Ettore Modigliani è una storia unica tra i perseguitati dal regime fascista. Prima ancora dell’espulsione a seguito delle leggi razziali, è cacciato da Milano nel 1935 per un violento diverbio con il gerarca De Vecchi a proposito della proprietà del Cenacolo vinciano (episodio su cui tornerò in un prossimo articolo). Quindi ha subito una doppia mortificazione che non gli ha tuttavia impedito, una volta finita la guerra, di tornare a Milano e riprendere con grande energia la cura del patrimonio milanese disastrato dalla guerra. Ma come hanno reagito altri funzionari dell’amministrazione statale? E quali furono le reazioni dei colleghi alla loro cacciata dal Ministero dell’Educazione Nazionale?
“È ancora una questione da mettere meglio a fuoco, ma l’impressione, anche per quanto riguarda gli storici dell’arte, è quella di un silenzio assordante, come del resto avvenne in tutti gli ambiti, professionali e non. Questo, credo, sia il nucleo tematico essenziale che impone interrogativi anche sull’oggi, a prescindere dal fatto che allora si trattava di un provvedimento di un regime dittatoriale: come fu possibile la pacifica e incondizionata accettazione delle leggi razziali, per quali meccanismi è possibile in generale per una società l’assuefazione a situazioni di fatto che dovrebbero risultare ripugnanti per la coscienza civile del singolo individuo. Per quel che riguarda i colleghi al Ministero o nell’università degli storici dell’arte perseguitati non sono riuscita a reperire fino ad ora prese di posizione particolari, neppure a livello di comunicazione privata. Del resto, ne parla esplicitamente anche Modigliani nelle sue memorie con un atteggiamento di superiore sarcasmo, menzionando la sua espulsione da numerose accademie e associazioni che fino a qualche anno prima lo avevano accolto per acclamazione. Un caso fra tutti mi è sembrato significativo perché vede protagonista uno storico dell’arte che, militante di Giustizia e Libertà, avrebbe anche patito il carcere per il suo antifascismo e addirittura avrebbe organizzato nell’ambito della lotta partigiana l’assistenza ai perseguitati ebrei, Cesare Gnudi. Ebbene, negli ultimi giorni del 1938, quando venne chiamato a dirigere la Galleria Estense al posto di Augusta Ghidiglia, peraltro nominata a ricoprire quel ruolo solo pochi mesi prima, Gnudi in una lettera privata a Rodolfo Pallucchini non fa parola dell’estromissione della collega, con la quale aveva collaborato, ma sa solo esprimere il suo entusiasmo per una promozione forse inaspettata”.
Un’ultima domanda, a proposito del Ministero, guidato in quegli anni da Giuseppe Bottai, figura controversa e recentemente indagata dagli studi. Bottai è certamente una figura centrale nella storia della legislazione artistica. E’ con lui che vengono emanate le leggi fondamentali per il patrimonio artistico, archeologico, architettonico e paesaggistico che sono state in vigore per diversi decenni, nonostante le molte polemiche. Si circonda di studiosi importanti quali Giulio Carlo Argan, Roberto Longhi e Cesare Brandi che erano certamente al corrente delle idee del regime e che pure non fecero nulla per dissociarsi dalle scelte antisemite del loro Direttore generale. Le chiedo, che ruolo avrebbero potuto svolgere? E c’è una assonanza con altri ambiti, quali quello scientifico o quello giuridico?
“Anche in questo caso è difficile rispondere. Cesare Brandi – giustificando molti anni dopo l’operato suo, di Roberto Longhi e di Carlo Giulio Argan – ricordava: “[…] noi avevamo l’impressione, stando lì, di fare tutto il bene che fosse possibile. Di cercare di evitare dei disastri […] per le opere d’arte, con quei gerarchi stupidi e ignoranti, che ci fosse almeno lì, al Ministero, un nucleo di persone coscienti che non prendessero decisioni a vanvera […]”. Su questa trincea si attestarono, forti di un sapere tecnico considerato indipendente dalle ideologie, ma nello stesso tempo non facendo parola, se non forse nel privato della propria coscienza, del delitto della discriminazione razziale. Non credo sia possibile esprimersi su che altro ruolo avrebbero potuto svolgere in quella specifica situazione e non resta che prendere atto di un’amara considerazione che Norberto Bobbio faceva a proposito del comportamento che gli intellettuali italiani in generale avevano avuto nei confronti del regime fascista e che si può forse, per traslato, applicare anche al fenomeno della persecuzione razziale: “Di fronte al processo di trasformazione dello Stato, la cultura accademica non eccedette nell’inneggiare né si ribellò; accettò, subì, si uniformò, si rannicchiò in uno spazio in cui poteva continuare, più o meno indisturbata, il proprio lavoro””.
La partecipazione ebraica alla formazione e alla vita culturale dell’Italia post-risorgimentale trova espressione nel contributo dato alla tutela del patrimonio artistico e della storia dell’arte, simboli stessi del Belpaese con cui gli italiani ebrei, o israeliti come si usava dire in quella generazione, si identificarono pienamente. Cittadini che, dopo la promulgazione delle leggi razziali, si trovarono di colpo espulsi dal consesso civile. Traditi, come tradita fu la disciplina della storia dell’arte. Ministero e università, luoghi deputati alla cultura, si risolvono in arene del potere nonché del silenzio di comodo per autotutela, dove l’interesse personale prevale sul senso del dovere – un’offesa alla storia dell’arte – come a ogni disciplina – che può forse esser oggi di monito.
Storica dell’arte, ha lavorato presso la pinacoteca di Brera e la soprintendenza alle Belle arti di Milano.