La testimonianza di Elsa Bernstein, internata a Terezín nella Casa delle celebrità
“Sempre più spesso mi chiedo cosa sia determinante per l’essere umano: il carattere o la religione? Il carattere è sempre innato, la religione viene trasmessa. Così potremmo dire che è il carattere ad andare alla ricerca del proprio credo e non il credo a trovare il carattere che più gli è proprio. Ogni religione invecchia, alla fine non è altro che una buccia appassita destinata a cadere. E quando il terreno del tempo torna ad essere adeguatamente fertile, il nocciolo, così liberato, può dare vita a nuovi germogli lasciando lo spirito sempre uguale a se stesso, al di là della sua vecchia o nuova veste religiosa”. Poche pagine prima invece si legge: “Dopo un meritato riposo pomeridiano, la serta al concerto dell’associazione di musica da camera. Händel e Bach”. O anche: “Il pomeriggio sono invitata dal professor Loewy al primo piano, ci siamo incontrati una volta dagli Hirsch. (…) Vengo accolta con un calore che mi fa bene, ricevo un bicchiere di vero tè, l’ospitalità è davvero eccellente nella casa delle celebrità“. Forse questa ultima loculzione, casa delle celebrità, avrà fatto da indizio per capire dove siamo. Il luogo in cui vengono scritte queste parole e quello in cui avvengono i fatti narrati è il campo di concentramento di Terezín. L’autrice è Elsa Bernstein, internata in quella che veniva chiamata appunto Casa delle celebrità, un edificio del campo che ospitava personaggi di spicco della società dell’epoca a cui era riservato un trattamento particolare. E di cui la Bernstein fornisce un ritratto spietato nel suo La vita come dramma. Memorie dal campo di Terezín, appena pubblicato in Italia per l’editore Elliot nella traduzione di Claudia Crivellaro e a cura di Rita Blake e Birgit Kiupel.
Spietato, sì. Perché a leggere quelle parole si subisce uno shock. La vita dell’alta società sembra continuare, pur nelle ristrettezze e nelle difficoltà della nuova sistemazione, tra rituali e convenzioni dal sapore austro-ungarico: incontri di lettura, conferenze, concerti e perfino il cabaret, accanto a qualche passeggiata in giardino o all’apertura dei pacchi ricevuti per Natale. I fatti narrati, le parole e i toni lievi lasciano il lettore sbigottito a chiedersi se quel che sta leggendo sia effettivamente vero e non, piuttosto, una finzione letteraria.
Il campo di Theresienstadt serviva alla propaganda per dire al mondo che le condizioni di vita dei deportati erano buone, addirittura che Hitler aveva regalato una città agli ebrei. Era una ex fortezza costruita tra il 1780 e il 1790 a 60 chilometri da Praga, dove venivano deportati soprattutto bambini, artisti e intellettuali tra la fine del 1941 e il 9 maggio 1945. Sono stati internati in quello che abitualmente veniva definito ghetto oltre 150mila persone, molte delle quali solo in transito per raggiungere i campi di sterminio di Auschwitz e Treblinka. Ma proprio perché Terezin doveva servire a gestire l’opinione pubblica, all’interno del ghetto le condizioni di vita per gli internati nella Casa delle celebrità erano migliori rispetto a quelle di altri campi di concentramento. Erano personaggi di spicco del mondo della cultura oppure donne divorziate (spesso forzatamente) da uomini ariani con ruoli più o meno importanti nella politica del Reich o persone segnalate dal consiglio della comunità ebraica. Vivevano in camere a più letti ma insieme ai famigliari, potevano suonare, fare spettacoli, tenere conferenze, incontrarsi tra di loro, magari per leggere insieme o bere un tè. C’erano poi le celebrità di serie B, che godevano di minori privilegi, e gli internati semplici. A dare una parvenza di normalità, nel ghetto c’era un ufficio postale (si poteva inviare e ricevere posta), una banca che batteva la moneta locale (la cosa di ui c’era meno bisogno a Terezín, come commenta Bernstein), qualche negozio. Nel campo sono morte 35.440 persone e 88mila sono state deportate.
Il libro di Bernstein è dunque un documento eccezionale. Perché dal punto di vista storico e documentale, fotografa una realtà di cui si parla poco. Perché è stato scritto durante gli anni di internamento a Terezín come diario personale e come testimonianza per i famigliari da un ospite della casa delle celebrità. Perché l’autrice è una scrittrice e drammaturga (nota per le sue opere firmate con lo pseudonimo maschile di Ernst Rosmer), e anche in queste pagine raggiunge la profondità letteraria di un romanzo. O forse di una pièce teatrale.
La vita come dramma infatti è un titolo dalle molteplici sfaccettature. Narra l’esperienza di aver vissuto in una bolla spazio-temporale, in una realtà aliena alla storia, all’interno di un campo di concentramento. Come in una messa in scena, in cui non vengono mai meno l’ironia né la profondità, in una scrittura densa quanto aulica. In effetti Terezín è spesso stato definito come una colossale menzogna e una terribile messa in scena, lo si vede per esempio nei documentari di Jan Ronca e quello a cura di Michele Bongiorno con la supervisione di Ruggero Gabbai, basato su una raccolta di testimonianze. E sempre la forma documentaristica fu utilizzata all’epoca dei fatti dai nazisti stessi a scopi propagandistici. Venne girato da Kurt Gerron, un regista ebreo olandese, insieme ad attori ebrei, tutti internati, che avevano l’obbligo di mostrare quanto stessero bene a Terezin. Kurt Gerron venne poi deportato ad Auschwitz e assassinato.
Elsa Bernstein animava un salotto letterario a Monaco prima della Guerra, suo padre era un musicista collaboratore di Wagner e amico di Franz Liszt e il marito, molto più anziano e scomparso già nel 1925, era un avvocato e consigliere di giustizia progressista, contro la guerra e a favore dell’uguaglianza. Ebreo, si considerva aconfessionale, tanto che il loro matrimonio fu celebrato solo con il rito civile. Elsa, di origini ebraiche, era stata convertita al protestantesimo insieme ai genitori e alla sorella, ma a Terezín era stata internata in quanto ebrea. E in questo libro c’è tutto di lei. Si rintracciano elementi della sua biografia, della società colta pre bellica, della tensione spirituale che l’ha animata sempre. Il testo infatti richiederebbe più di una lettura: è denso, sia nella scrittura sia nei continui riferimenti letterari e filosofici così come ai fatti contemporanei. Che a poco a poco entrano nella narrazione, fino alle prime notizie che arrivano da Auschwitz e alla presa di coscienza, anche se parziale, di quanto stava accadendo intorno a lei. Il libro si chiude con le commoventi pagine relative al viaggio, l’ultimo, per ricongiungersi, dopo la liberazione del campo di Terezín, con la figlia nella città di Amburgo. Morirà lì nel 1949.
Si parla del libro con la traduttrice Claudia Crivellaro al Centro culturale Primo Levi il 3 maggio alle ore 18.45 su Facebook e Youtube