L’ortaggio indiano che ha conquistato la cucina ashkenazita per diventare un ingrediente fondamentale della cucina in Israele
La popolarità dei cetrioli in Israele e nella cucina ebraica in genere ha subito una falsa partenza. Nel senso letterale del termine. Fino a non troppo tempo fa, infatti, si credeva che questi ortaggi fossero diffusi in Medio Oriente fin dall’epoca biblica. Tanto che in Numeri 11:5 si legge che i figli di Israele nel deserto, pur rifocillati da Dio con la manna, tra i cibi lasciati in Egitto rimpiangevano proprio i qishuim, tradotti come cetrioli.
Un’operazione analoga si osserva nel mondo latino, dove il termine Cucumis, sempre tradotto come cetriolo, ricorre negli scritti di diversi scrittori romani, da Lucius Junius Moderatus Columella, nel De Re Rustica (circa 64 d.C.), a Plinio il Vecchio, nella Historia Naturalis (c. 77 d.C.), da Apicio, nel De Re Coquinaria (400 d.C.), a Palladio (De Re Rustica, sempre intorno al 400 d.C.). Andando più indietro nel tempo, negli scritti di Teofrasto (300 a.C) si parla di sikyos, mentre nei dipinti murali egiziani ricorrono immagini di ortaggi lunghi e affusolati. In tutti i casi, l’associazione con i cetrioli era data per scontata.
Analisi comparate sul fronte iconografico, linguistico e perfino archeologico, con l’analisi del dna dei semi fossili ritrovati nelle tombe, hanno fatto cadere questo castello di supposizioni. Sia le immagini ritrovate in Egitto sia le descrizioni culinarie o mediche, così come le indicazioni talmudiche farebbero in realtà riferimento a un altro ortaggio, il Cucumis chate, detto anche Cucumis melo. Il melone, insomma.
In particolare, si tratterebbe della varietà detta “serpente” caratterizzata da una particolare forma lunga, sottile e ricurva, ricoperta da una lieve lanugine e consumata prima della maturazione come ortaggio. Gli stessi semi ritrovati dagli archeologi sarebbero di melone, anche se questo ne conferma solo la presenza nell’antichità, non escludendo quella dei cetrioli e di altre cucurbitacee. La cosa curiosa, e che ha contribuito all’equivoco, è che il trattamento riservato a tali ortaggi era in parte lo stesso che sarà poi applicato ai cetrioli, dall’uso nei piatti freddi all’impiego come guarnizione o come base di conserve sott’aceto o in salamoia.
Per ritrovare i cetrioli come li conosciamo oggi si deve aspettare il 500 d.C., epoca in cui il Cucumis sativus appare nelle terre del Mediterraneo. Da qui, prenderà presto la strada delle regioni più settentrionali, dove finirà col soppiantare il melone serpente, ortaggio caduto in disgrazia dopo l’arrivo del cetriolo dall’India e comunque più adatto alle aree calde. In Italia, in particolare, il cetriolo propriamente detto avrà un’indiscutibile diffusione nel 1300, almeno guardando alle testimonianze iconografiche. In particolare, risalirebbe al XIV secolo il Tractatus de Herbis, magnifico manoscritto proveniente dal Meridione italiano, che ne contiene la prima rappresentazione conosciuta in Occidente.
Nel frattempo, i testi di tutto il bacino mediterraneo sembrano rincorrersi nel citare ortaggi appartenenti allo stesso genere, ma sempre più simili al melone o all’anguria che al cetriolo. Nel Talmud babilonese, in particolare, si citano i qishuim e altre cucurbitacee chiamate in causa nella Mishnah, ma si tratterebbe perlopiù di Cucumis melo e non di Cucumis sativa. Allo stesso modo, il termine melafefon, con cui nell’ebraico moderno si indicano i cetrioli, nel Talmud si riferiva molto probabilmente al melone.
Riassumendo e tralasciando le pur affascinanti disquisizioni dei filologi, quello che gli storici hanno concluso è che dei cetrioli non si sarebbe saputo nulla in Occidente almeno fino al VI secolo d.C.. Inoltre, per quanto ci siano diverse prove del loro arrivo dal subcontinente indiano passando dalla Persia, via terra e via mare, le fonti scritte europee medievali sarebbero piuttosto ambigue, quando non ingannevoli.
In compenso, gli scritti medici arabi suggeriscono la presenza di cetrioli in Spagna a metà del IX secolo e in Tunisia all’inizio del X secolo, mentre prove descrittive in arabo li collocano in Andalusia nella seconda metà del X secolo e traduzioni latine da fonti arabe indicano la loro diffusione nell’Italia meridionale nella seconda metà dell’XI secolo.
Le prime varietà arrivate dall’India sono piccole, piene di semi e piuttosto amare, ma nonostante questo gli Arabi se ne innamorano e le portano con sé in Spagna durante l’Alto Medioevo. Gli europei non condividono lo stesso entusiasmo, tanto che nei primi tempi riservano gli ortaggi all’alimentazione animale.
A metà del Cinquecento, dopo circa un secolo dall’arrivo del cetriolo nell’Europa nordorientale, Tartari e Turchi cambieranno le sorti di questo bistrattato vegetale introducendo la conservazione per lacto fermentazione. Nota in Cina fin dall’antichità, questa tecnica prevede l’immersione degli ortaggi in una salamoia di acqua e sale e la sua successiva macerazione in un luogo caldo. Con lo sviluppo di batteri lattici, capaci di trasformare gli zuccheri presenti in natura negli alimenti in acido lattico, l’ambiente diventa così rapidamente acido, rendendo impossibile la moltiplicazione di eventuali batteri dannosi e donando agli alimenti il caratteristico gusto acidulo.
Rivoluzionaria rispetto alla conservazione in aceto di vino (ingrediente non così a buon mercato nel Nord Europa), la lacto fermentazione sarà presto accolta con entusiasmo dalle popolazioni slave ed ebraiche, dal Baltico alla Romania. Cetrioli, rape, cavoli e altri ortaggi conservati in questo modo diventeranno in breve tempo una delle risorse più preziose per popoli abituati a consumare ben pochi ortaggi e quasi mai crudi. Perlopiù grazie agli ebrei provenienti da Ucraina, Russia, Lituania e Polonia, il metodo venuto dalla Cina si diffonderà verso Ovest attraverso l’Europa settentrionale dando vita, tra gli altri, ai classici crauti, tra le verdure più amate della dieta ashkenazita.
Tornando ai cetrioli, questi guadagneranno in breve tempo una solida fortuna proprio grazie alla lacto fermentazione. Perfetti per questo tipo di trattamento, insaporiti con aglio e aneto, i cetriolini diventeranno presto sinonimo di conserva o, anche se il termine è improprio, di sott’aceto. Diventati un simbolo della cucina ebraica dell’Europa orientale, dalla fine dell’Ottocento emigreranno insieme agli ebrei in America. Qui, le famiglie ebraiche continueranno a produrre le loro conserve lasciando fermentare al caldo le verdure in barili che poi saranno riposti al fresco delle cantine. Preziosa risorsa invernale, cetriolini e compagni diventeranno presto anche fonte di reddito, venduti prima dai carretti che passano di casa in casa e poi dalle mille botteghe dei quartieri ebraici di New York.
Fin qui, si è raccontata però solo una parte delle avventure di questo curioso ortaggio e di uno dei suoi possibili impieghi, sviluppato in terre dal clima freddo dove i vegetali non hanno in genere vita facile. Passando alle zone più soleggiate del Mediterraneo, i cetrioli hanno avuto fortuna grazie allo sviluppo non tanto delle tecniche di conservazione quanto per quelle di coltivazione.
Come già detto, le prime varietà giunte dal subcontinente indiano non erano granché adatte al consumo al naturale. Dalla scorza particolarmente spessa e spinosa e la polpa ricca di semi e tendenzialmente amara, i progenitori degli attuali cetrioli difficilmente venivano consumati freschi. Per renderli appetibili senza trattamenti ci sarebbero voluti lunghi processi di selezione fino alla creazione di cultivar più dolci e digeribili.
Tra le varietà oggi più diffuse al mondo, ce n’è una che si distingue per la buccia sottile, che non serve eliminare, la polpa morbida, dolce e succosa, e la buona digeribilità. Nato negli anni Trenta del Novecento nel kibbutz da cui prende il nome, il cetriolo Beit Alpha è il risultato dell’intraprendenza e dell’abilità di Hanka Lazarson. Membro della comunità di immigrati polacchi che nel 1922 fondarono la fattoria collettiva nella Valle di Jezreel, la donna ha documentato nel 1946 la creazione di questa varietà a partire dal cetriolo di Damasco, la cui resa era considerata insoddisfacente. Attraverso un processo di selezione durato anni, nel 1936 era riuscita a ottenere ortaggi caratterizzati da «varietà produttiva, gusto eccellente e resa elevata», dalla buccia sottile e la polpa dolce e succosa.
Da quel momento, il piccolo e morbido Beit Alpha, perfetto per le insalate o le salamoie, diventerà una delle principali colture israeliane, esportato in America così come nel resto del mondo.
Restando in Israele, il cetriolo può essere definito senza difficoltà uno dei pilastri della cucina locale. Nel mare magnum di influenze gastronomiche qui confluite dai quattro angoli del mondo, sarebbe facile perdersi o limitarsi a una visione miope. Come diceva Claudia Roden nel suo Book of Jewish Food del 1996, limitandosi a uno sguardo distratto si finirebbe col parlare di cucina ebraica solo in riferimento a quella di origine ashkenazita e di cibo etnico per tutto il resto, includendo frettolosamente lo street food arabo come i felafel, l’hummus, il babaganoush e la shakshouka tra i piatti israeliani.
Già 25 anni fa, però, la stessa studiosa notava quanto l’apertura alle cucine del resto del mondo stava portando alla creazione di uno stile gastronomico ibrido e internazionale. E se i primi coloni russi o polacchi avevano abbandonato i piatti della diaspora, vuoi per creare uno stacco dalla vita precedente, vuoi per adattarsi al nuovo clima, chi arrivava dai territori del Medio Oriente portava con sé preparazioni della tradizione araba che meglio si prestavano a quanto la terra poteva offrire. Filo conduttore per le diverse comunità era l’impiego di prodotti locali, preparati in modo semplice in pietanze e pasti kasher.
Che fosse Beit Alpha o un altro cultivar, il cetriolo non poteva che emergere tra i protagonisti di questo mosaico di influenze gastronomiche. Stagionali e a chilometro zero, gli ortaggi rappresentano, oggi come ieri, una delle poche certezze della tradizione culinaria israeliana. In particolare, sono i protagonisti di quel capolavoro di gusto, freschezza ed equilibrio nutrizionale che è la prima colazione tradizionale.
Anche se tempi, modalità e occasioni di consumo sono ovviamente diversi, il pasto mattutino servito oggi negli hotel e ristoranti israeliani ricalcherebbe quello che un tempo si preparava nei kibbutzim. Bando, dunque, ai cereali zuccherosi e ai dolci della colazione continentale e via libera alle selezioni di formaggi freschi e yogurt, al pane, alla frutta e, soprattutto, alle verdure. Così come i contadini di inizio Novecento, dopo quattro ore di lavoro all’alba, sedevano a tavola alle nove del mattino per riprendersi dalle fatiche e caricarsi per quelle che ancora li aspettavano, oggi a Gerusalemme come a Tel Aviv a qualunque ora del giorno si può attingere a buffet dominati dalla presenza dei vegetali. Tra questi, gli immancabili cetrioli, protagonisti di un piatto diffuso anche in Turchia e in Iran, ma noto più comunemente con il nome di Israeli Salad. Tagliati a pezzettini insieme ai pomodori, i freschissimi ortaggi sono serviti in un’insalata semplice quanto gustosa.
Israeli Salad
Ingredienti
500 g di cetrioli Beit Alpha
500 g di pomodori
1 cipolla rossa (facoltativa)
1 mazzo di prezzemolo
1 limone
olio extravergine d’oliva
sale
Tagliare i cetrioli prima a metà nel senso della lunghezza e poi ancora a metà, sempre per il lungo, poi ridurli a pezzettini minuti e raccoglierli in un’insalatiera. Tagliare i pomodori a cubetti delle stesse dimensioni dei cetrioli, privandoli man mano dei semi, poi unirli ai cetrioli. Sbucciare la cipolla e spezzettarla come gli altri ortaggi, poi mescolarla nell’insalatiera.
Pulire il prezzemolo, staccarne le foglie e tritarle, poi aggiungerle alle verdure.
Spremere il limone per ricavarne il succo, poi mescolarne 3 cucchiai in una ciotolina con 3 cucchiai di olio e una presa di sale, emulsionare con una forchetta o una piccola frusta a mano e versare sull’insalata. Mescolare con cura e servire l’insalata fredda o a temperatura ambiente, a piacere.
Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.