Isaac Herzog e Naftali Bennett: ritratto del neoeletto presidente e di Naftali Bennett, a capo di un governo che tiene insieme forze molto distanti tra di loro
Due presidenti per Israele. Il primo, Isaac Herzog, alla presidenza dello Stato, in quanto «Nesi HaMedina», dal 9 luglio, quando si concluderà il mandato di Reuven Rivlin. Il secondo, Naftali Bennett, a quella del Consiglio dei ministri, quindi «Rosh HaMemshala», un’espressione che indica, nel linguaggio giurisprudenziale, il “capo” di qualcosa, nello specifico dell’esecutivo. Due figure molto diverse per due profili altrettanto distinti. Il primo è un ruolo esclusivamente istituzionale. Come tale, è sia una funzione di garanzia che di preservazione. Garanzia di supervisione, negli stringenti limiti di quanto la Legge fondamentale del 1964, emendata solo in misura minore da successive integrazioni (nel 1968), prevede – soprattutto – con la garanzia di conservazione dei simboli dello Stato e della sua legittimità di principio. Dietro il secco ed agro linguaggio dei giuristi e dei padri costituenti, tuttavia, si cela un universo di significati. Se i poteri del presidente dello Stato sono estremamente contenuti dal punto di vista formale, sul piano sostanziale è chiamato a vigilare rispetto ad una materia gigantesca, a tratti quasi indefinibile: la congruenza, di condotte e deliberazioni negli organismi costituzionali, tra carattere «ebraico» dello Stato d’Israele e sua concreta declinazione democratica. Poiché Israele non ha una Costituzione formale – soprattutto per l’opposizione, in origine, dei partiti religiosi – ma senz’altro un diritto costituzionale, estrinsecato dal sistema delle Leggi fondamentali.
Non si cade quindi in errore se si ritiene che il ruolo del presidente dello Stato non sia per nulla “notarile” (verificare, attestare e registrare la regolarità delle altrui deliberazioni: per una tale funzione c’è anche e soprattutto la Corte suprema d’Israele, «Beit HaMishpat HaElyon», comunque abituata ad intervenire anche nel merito, svolgendo la sua funzione di contropotere giurisprudenziale), bensì di natura sostanziale, ovvero sospeso tra scelte degli organismi deliberativi – a partire dal parlamento – e indirizzo di legittimità istituzionale. La qual cosa, per l’appunto, non richiama esclusivamente le ratifiche formali bensì l’aderenza di fondo tra le scelte del momento, esercitate dai soggetti istituzionali preposti a statuire (partendo dalla stessa Knesset) e lo spirito di principio che ha indirizzato la formazione e la costituzione dello stesso Stato d’Israele, dal 1948 in poi. Il presidente d’Israele ha un potere di esortazione che, in un sistema di poteri reciprocamente contemperati, non è mai lo stentoreo vagito di un inane bensì il calco della voce autorevole di una collettività. Nella sua carica, infatti, si condensano molti elementi: sovranità (dello Stato); legalità (delle istituzioni); rappresentatività (della collettività). Piaccia o meno, una democrazia rappresentativa funziona così. E i diversi vagli di legalità, legittimità e aderenza ai principi democratici (ovvero rappresentatività, equità e rispetto dell’unità nella diversità, così come in altro ancora) non sono mai una perdita di tempo; piuttosto costituiscono l’essenza stessa dello stare insieme. Per questo si parla, nel caso del presidente dello Stato, di Alta magistratura: non è chiamato solo a ratificare ciò che già esiste bensì a garantire la coesione di Israele. La qual cosa, tanto più oggi, in età di globalizzazione, presenta molte accezioni. Per nulla definite una volta per sempre.
Yitzhak “Bougie” Herzog, noto anche come Isaac Herzog, l’undicesimo presidente dello Stato d’Israele, al pari dei suoi predecessori sarà quindi chiamato a tali funzioni. Della sua biografia politica già si è detto in queste pagine. Gli analisti, ma ancora di più i suoi detrattori, spesso per mero calcolo d’interesse, hanno messo in rilievo il suo lungo curriculum politico: membro per più legislature della Knesset, ripetutamente ministro, leader dell’opposizione alla maggioranza di governo (una figura, quest’ultima, nel sistema di poteri israeliano – che è simile a quelli di radice anglosassone – sospesa tra funzioni di verifica, di rettifica e di controproposta), per poi diventare, nel 2018, presidente dell’autorevole Agenzia ebraica per Israele. Un trampolino di lancio, quest’ultimo, verso quelle mete potenziali che legano Israele alla Diaspora (e viceversa). Chi non conosce, o si rifiuta di comprendere, quali siano i compositi legami che intercorrono nel mondo ebraico, risolverà il tutto con un’alzata di spalle. Si tratta, nel qual caso, del rifiuto della complessità di una democrazia matura, a tratti quindi anche contraddittoria, qual è Israele. Non di meno, è il medesimo caso di chi non voglia comprendere l’irrisolto legame tra Diaspora e Stato d’Israele, riducendo il tutto al gioco di influenze reciproche e a null’altro.
Detto questo, a garanzia invece della lettura del disegno dei fatti, il pedigree di Herzog, in quanto espressione di una leadership aschenazita – per intenderci, banalmente: “degli ebrei europei” – è incontrovertibile: figlio di Chaim Herzog, quest’ultimo nato a Belfast, già sesto presidente d’Israele, tra il 1983 e il 1993 (due mandati, con Begin, Peres, Shamir e Rabin come capi dei rispettivi governi), nipote di Yitzhak HaLevi Herzog, già rabbino capo in Irlanda e poi, dal 1937, in tale carica e veste, nella Palestina britannica, parrebbe chiudere il cerchio di una sorta di dinastia laica e secolarizzata. Quella, per l’appunto, degli Herzog. Per più aspetti coincidente con la storia d’Israele. Almeno fino agli anni Settanta del secolo trascorso. Non è un caso, quindi, se la sua candidatura abbia raggiunto la cifra ragguardevole di ventisette parlamentari sottoscrittori e di ottantasette votanti (su centoventi deputati elettori). Superando abbondantemente, e al primo turno, quella dell’antagonista Miriam Peretz, espressione della società civile israeliana. La convergenza bipartisan, tra sinistra e destra, di assensi sul nome di Herzog può essere letta in diversi modi, Quindi, anche come una “rivalsa” dell’articolato mondo laburista, ancora ben ramificato nella società nazionale; ovvero, in quanto sodalizio di reciprocità della società “legale” (i politici, che scelgono a propria garanzia un loro omologo) di contro alla società reale, quella dei cittadini, che forse avrebbe preferito altrimenti; inoltre, nella sua essenza di staffetta tra l’uscente Reuven Rivlin, del Likud, e l’entrante Herzog, laburista, esponenti di due culture politiche tradizionali che, da sponde pure opposte, hanno comunque fatto parte della storia israeliana; ed ancora, come la garanzia che a futuri governi, legati perlopiù all’asse del centro-destra, a tratti molto radicale, corrisponda un riequilibrio di poteri di garanzia di segno politico diverso. Le possibili interpretazioni, tra di loro per nulla alternative, a questo punto si sprecano. Rimane il fatto che Isaac Herzog conosce perfettamente il lessico politico, il linguaggio istituzionale e la grammatica delle mediazioni che Israele richiede per attivare gli organismi istituzionali che le appartengono. Quanti ne contesteranno la presidenza, diranno che è manifestazione anacronistica di vecchi equilibri, quelli di élite auto-referenziate, destinati quindi a riprodursi da sé; coloro che invece ne apprezzeranno il magistero, batteranno il tasto della sua vocazione a trovare delle sintesi, cercando, in tutti i modi, di fare brillare le tante mine che si frappongono al raggiungimento di mete condivise, a partire dalla coesione sociale.
Un obiettivo, quest’ultimo, al quale non potrà sfuggire la seconda figura presidenziale, quella che demanda a tutt’altro istituto, ovvero al governo. Licenziato in queste ore, allo scadere dal mandato del premier incaricato, Yair Lapid. Già Benjamin Netanyahu, come si ricorderà, aveva tentato di raggiungere una tale meta, in quanto leader del partito di maggioranza relativa, il Likud, che alla Knesset conta a tutt’oggi trenta seggi su centoventi. Non c’era riuscito, com’era abbondantemente prevedibile, poiché da almeno due anni tutte le bocche da fuoco, non solo delle opposizioni di sinistra ma, ad un certo punto, anche della sua stessa parte politica, erano rivolte contro la sua medesima persona. Per dodici anni presidente del Consiglio (oltre ad un precedente mandato), ora registra il suo inevitabile declino, non meramente politico. Molti ne avevano chiesto la testa, non essendo più disposti ad assecondare una premierato che sempre più spesso sembrava assumere tonalità cesaristiche e bonapartiste. Al netto delle stesse vicende giudiziarie che accompagnano il premier uscente.
Il nuovo governo, che si presenta alla verifica dei voti parlamentari – con la solita, risicata maggioranza dei sessantuno seggi, ossia poco più della metà dell’emiciclo – è il risultato di un febbrile bricolage che unisce liste di destra, a tratti radicale, con il centro e la sinistra. Ben pochi sono disposti a scommettere sulla sua durata, trattandosi di una “coalizione refrattaria”, il cui collante è quello di dare un calcio a Netanyahu. Non di meno, il complesso equilibrio parrebbe ora essersi ricomposto. Quanto meno per i tempi a venire. La coalizione di governo, messa insieme da Yair Lapid (del partito Yesh Atid, con diciassette seggi) comprende ben otto partiti: gli stessi centristi di Yesh Atid e di Blu e Bianco (otto seggi), con i laburisti (sette seggi) e la sinistra di Meretz (sei seggi), insieme ai partiti nazionalisti di destra Yisrael Beiteinu (sette seggi), New Hope (sei seggi) e Yamina (sei seggi, dopo l’uscita di due eletti). Per la prima volta, un partito arabo-israeliano – i conservatori islamisti di Ra’am (quattro seggi) – partecipa ufficialmente alla formazione di un esecutivo dello Stato ebraico. L’accordo prevede che fino al settembre del 2023 il primo ministro sia Naftali Bennett, di Yamina, che poi dovrà lasciare l’incarico al leader di Yesh Atid, Yair Lapid. La coalizione dovrà comunque ottenere la fiducia dal Parlamento israeliano. Il voto è previsto per la prossima settimana.
Le trattative per il nuovo governo erano cominciate dopo le ultime elezioni, lo scorso 23 marzo che, come quelle precedenti, non avevano avuto un chiaro vincitore: nonostante il Likud fosse risultato di gran lunga il partito più votato, non aveva infatti ottenuto abbastanza seggi per formare un governo, nemmeno con l’aiuto dei suoi tradizionali alleati. Il nuovo dicastero dovrebbe quindi assegnare ad otto donne un incarico ministeriale, alla laburista Merav Michaeli, figura oramai di primo piano del firmamento politico nazionale, la presidenza della commissione costituzionale e il seggio nella commissione per la nomina dei giudici nonché un ministero ad un arabo-israeliano del Meretz. Si può stare certi che, al netto della suddivisione degli incarichi ministeriali, oggetto di una lunga, defatigante contrattazione, quel che ne deriverà sul piano programmatico, oltre a sancire l’esclusione definitiva di Netanyahu dal premierato, sarà una navigazione a vista su una serie di dossier tanto importanti quanto destinati a non creare da subito le condizioni per spaccare il fragile accordo. L’attenzione sarà quindi orientata tanto sul rilancio economico quanto sull’uscita definitiva dalla pandemia, mentre rimarranno ai margini i temi della “pace” con i palestinesi – quindi delle negoziazioni sullo status dei territori contesi – così come la ricontrattazione dei rapporti con l’Amministrazione Biden che, pur riconfermando la tradizionale reciprocità con Israele, ha già riaperto i canali di mediazione con l’Iran, oramai l’avversario più temibile per Gerusalemme. Rimane da capire se il carisma radicale di Ayelet Shaket, esponente di Yamina, già ministro della Giustizia ed alter ego di Naftali Bennett, sia destinato a conoscere nuovo fulgore, magari in attesa che gli attuali equilibri, troppo fragili per garantire da subito una migliore probabilità di certezza anche per i tempi a venire, possano eventualmente frantumarsi, dinanzi alle possibili polarizzazioni su argomenti facilmente polarizzanti. Come di dice in questo casi, chi vivrà avrà modo di vedere (e riscontrare).
Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.