Una mostra al Jewish Museum di New York
Circa 50 opere che ne raccontano l’intera carriera e una selezione di scritti psicanalitici, alcuni mai mostrati al pubblico, costituiscono il materiale della mostra Louise Bourgeois, Freud’s Daughter, in corso al Jewish Museum di New York. Una scelta inedita quella del curatore Philip Larratt-Smith che ha voluto porre l’attenzione sul complesso e ambivalente rapporto della Bourgeois con la psicoanalisi freudiana.
Un rapporto intenso, combattuto, discontinuo, necessario e anticonformista. A raccontarlo sono proprio gli scritti psicanalitici che, insieme ai diari personali tratteggiano una Bourgeois scrittrice oltre che artista. Come spiega il curatore Larratt-Smith, “Gli scritti psicoanalitici della Bourgeois ricalibrano profondamente la nostra comprensione della sua traiettoria artistica e degli impulsi motivazionali. Non spiegano o demistificano la sua arte, ma piuttosto rappresentano un corpus indipendente di scritti che mostrano le doti letterarie di Bourgeois e sottolineano il suo impegno duraturo con l’analisi. Evidenziano la centralità del suo stallo edipico come nucleo traumatico della sua organizzazione psichica. E complicano la narrazione del trauma della prima infanzia di cui ha spesso parlato”.
Alla fine degli anni ’40, Louise Bourgeois cerca di bilanciare le sue ambizioni di artista e i suoi doveri di madre e moglie con grande difficoltà. Soffre di disturbi come insonnia, agorafobia, pensieri compulsivi e impulsi aggressivi e suicidi. Nel 1951 la morte del padre la fa poi sprofondare in una grave depressione, così nel 1952 decide di entrare in analisi con il dottor Henry Lowenfeld, un ex discepolo di Freud e, come Bourgeois, un emigrato dall’Europa. La sua analisi continuerà per i successivi 33 anni, più intensamente dal 1952 al 1966, e in seguito in modo discontinuo fino alla morte di Lowenfeld nel 1985. Il metodo scelto dall’artista è quello dell’immersione totale. Legge la letteratura psicanalitica, Freud, Melanie Klein, Karen Horney, Anna Freud, Hélène Deutsch, Marie Bonaparte, Otto Rank, Wilhelm Reich e Wilhelm Stekel, tra gli altri, sospendendo nei primi cinque anni di lavoro anche la sua produzione artistica: non fa nessuna mostra personale dal 1953 al 1964, e si ferma quasi completamente dal 1955 al 1960.
Di contro, trascrive i sogni e prende nota dei processi di cambiamento durante il lavoro analitico, lasciando una vasta documentazione delle sue riflessioni che è stata scoperta nella sua casa di Chelsea nel 2004 e nel 2010. Una scoperta interessante che ha spinto i critici a mettere in relazione le sue opere d’arte e questi scritti privati, così come a cercare una qualche forma di coerenza tra la ricerca e l’utilizzo della parole come strumento terapeutico e le dichiarazioni pubbbliche dell’artista. Un esercizio probabilmente finalizzato alla sola critica. Perché se è vero che Louise Bourgeois diffidava delle parole e non credeva nella possibilità di guarigione attraverso il parlare così come è vero che ha sempre sostenuto che fare arte le dava accesso all’inconscio, e che la sua arte non richiedeva alcuna esegesi verbale, è altrettanto vero che quello psicanalitico è un lavoro parallelo che a volte ha addirittura sostituito la produzione visiva.
Questi scritti per Bourgeois avevano molteplici funzioni: erano uno strumento per affrontare la seduta di analisi; avevano un valore terapeutico per calmarsi e liberarsi dall’ansia; costituivano la misura del lavoro che aveva già fatto, e più in generale delle forme, dei processi e delle motivazioni; le permettevano di definire le sue emozioni con più precisione fissandole nel tempo. Rappresentano un contributo originale non solo al campo della psicoanalisi ma anche a quello del femminismo. Forniscono una prospettiva unica su temi come la formazione dei simboli, il romanticismo familiare, le identificazioni materne e paterne, il lutto e la malinconia, la sublimazione. Ovvero, i temi che Bourgeois ha affrontato come artista. Emerge allora chiaro l’obiettivo dell’esposizione, che mostra come il fare arte e la psicoanalisi non fossero per Louise Bourgeois attività distinte bensì punti di un unico percorso, tanto che a volte è difficile definire dove finisca l’una e inizi l’altra.
Questa mostra inquadra un momento specifico attraverso la lente del complesso di Edipo, che è sia la pietra angolare della psicoanalisi freudiana sia il nucleo traumatico dell’organizzazione psichica dell’artista. Che ha lavorato a lungo sul suo rapporto con la figura paterna, non solo reale, ma anche putativa come è stata quella di Freud, di cui critica la visione della sessualità femminile, secondo Bourgeois totalmente incompresa come la personalità dell’artista creativo. L’elaborazione psicanalitica dunque tocca anche il padre di quella stessa disciplina, nella relazione complessa con Luoise Bourgeois mentre lei stessa elabora la relazione con il proprio padre biologico.
Un doppio carpiato. In effetti l’intera esposizione ha il sapore di un tuffo acrobatico, ma è molto interessante il lavoro proposto dal curatore che si sofferma sullo spazio relazionale di un triangolo amoroso decisamente originale, quello tra psicanalisi, Louise Bourgeois e produzione artistica, alla luce della figura del padre. Che, tornando all’immagine del tuffo, è quasi una meditazione sul rapporto tra spinta dei piedi, altezza del trampolino e amore per la bellezza da parte del tuffatore (che cercherà l’armonia nel movimento necessario a raggiungere l’acqua), con l’allenatore nel cuore. O forse vale la pena di semplificare, alleggerire. Perché in realtà questa è una mostra sull’amore. Con tutte le contraddizioni che questa parola porta con sé. Come scrivono i curatori, chiamare Bourgeois “figlia di Freud” significa invocare filiazione e resistenza, somiglianza e dissenso, e sottolineare l’importanza centrale della psicoanalisi nella realizzazione della sua misteriosa e idiosincratica produzione artistica.
La mostra è visibile al Jewish Museum sino al 12 settembre 2021.
Straordinaria artista sincera e provocatoria.sconcertante coraggiosa guerriera del suo inconscio. Cruda.