La kabbalah, il misticismo ebraico, il dagherrotipo e le tecniche fotografiche del mitico Nadar. Nello sguardo di un artista che gioca con il tempo
C’è un personaggio decisamente curioso che ha fatto capolino al Contemporary Jewish Museum di San Francisco con una mostra, ormai in chiusura, dal titolo altrettanto curioso: Predicting The Past. Il nome dell’artista è Shimmel Zohar e la sua arte sarebbe quella di veggente del passato… Eppure si scoprirà che il suo talento non è affatto da sottovalutare. A parlarne è un bellissimo articolo sulla rivista The Atlantic a firma Lawrence Weschler, che ha proposto un adattamento dal suo ultimo libro, This Land: An Epic Postcard Mural on the Future of a Country in Ecological Peril. All’autore era stato chiesto da Gravity Goldberg, curatrice del museo, di scrivere un saggio su Shimmel Zohar per il catalogo della mostra. Incuriosito dal titolo e dal nome dell’artista (ma anche da quello della curatrice), Weschler incontra un terzo personaggio ancora, il signor Stephen Berkman, presentato da Gravity come colui che aveva portato a conoscenza del museo l’archivio Zohar.
La vicenda poi si intreccia come in un romanzo di Garcìa Màrquez, fino ad assumere i tratti surreali di un dipinto di Salvador Dalì. Weschler viene accolto in un luogo assurdo dal signor Berkman, un artista, ma anche un accumulatore seriale che nel suo giardino conserva oggetti di ogni genere e tipo e nel suo laboratorio lo fa in maniera ancor più ossessiva. La sua vita fino a quel momento è catalogata in quel caos indecifrabile a chiunque non ne sia l’artefice stesso e alle domande – viene da dire quasi innocenti – di Weschler che tenta di sciogliere nodi essenziali circa la produzione artistica che comporrà la mostra, Berkman risponde con i fatti salienti della propria storia. Intrigante, ma anche un po’ buffa, come il suo aspetto: “Berkman si è rivelato un tipo bassino con dei basettoni sconcertanti e un contegno scherzoso e amabile. “Dundrearies”, dice, seguendo il mio sguardo. Cosa? “Il nome tecnico di questo tipo di basette. Molto popolare in epoca vittoriana”. I suoi penzolavano ben oltre le clavicole, dando a Berkman l’aspetto di un gioviale gnomo da giardino”, si legge. Poi il nostro gnomo srotola la sua vita: “Sono nato nel 1963, a Syracuse, New York” quindi la famiglia si è trasferita in California. Ebrei osservanti, figli di immigrati dalla Lituania in fuga dai pogrom nei primi del ‘900, i genitori erano attenti a mantenere le tradizioni. La madre scriveva libri per bambini e il padre era un contabile che aveva come clienti diversi artisti famosi (“per esempio, Joan Baez, che divenne un’amica di famiglia e per il mio bar mitzvah mi regalò una maglietta della Rolling Thunder Revue”).
Poi la passione per la fotografia. A dieci anni gli venne regalata la sua prima macchina fotografica e da allora non ha mai smesso non solo di scattare ma anche di sviluppare e stampare le sue foto. Anzi, calandosi negli anni pionieristici di quest’arte, aveva assunto nientemeno che Nadar come padre putativo della sua espressione artistica. Sin da giovanissimo studiava come ricreare obbiettivi fotografici che potessero scattare foto come gli apparecchi in uso alla fine dell’800 finché, ormai all’Università, esperto conoscitore del dagherrotipo, allestì la sua camera oscura per sperimentare direttamente il processo di sviluppo e stampa messo a punto proprio da Nadar, a base di collodio a umido con lastre di vetro.
Ebbene, quella vita ottocentesca, fatta di scoperte sensazionali per la fotografia, è diventata reale, almeno dal punto di vista artistico: il signor Berkman, con i suoi basettoni, e la sua compagna, complice totale dei giochi spazio temporali e artistici dello gnomo, vive nel presente ma lavora più o meno nel 1870.
Non basta. Il suo avvicinamento alla fotografia ha coinciso con un rinnovato interesse per l’ebraismo, che aveva invece abbandonato. A dire il vero dell’ebraismo gli interessava soprattutto una dimensione culturale e in particolare quella degli shtetl prima della Seconda Guerra Mondiale. C’è anche una ragione mistica, però. “L’uso delle lastre in vetro nella fotografia ha anche colpito una corda specificamente ebraica, o meglio ebraico- mistica – cabalistica – in me, proprio nel periodo in cui stavo approfondendo la cultura dello shtetl. Vale a dire, la rottura dei vasi di vetro all’inizio della Creazione”. A fronte di questa dichiarazione, scatta un interessante scambio di battute tra i due.
L’intervistatore: “Una questione importante per i cabalisti del XV secolo, specialmente quelli riuniti intorno al grande Rebbe Isaac Luria in Palestina, era come Dio avrebbe potuto creare qualsiasi cosa, dato che era già ovunque e non c’era spazio per nient’altro – un enigma che risolvevano suggerendo che appena prima della Creazione, Dio aveva inspirato, per così dire, attraverso un processo chiamato tsimtsum, assentandosi da una porzione del suo cosmo, dove aveva allestito una sorta di apparato costituito da 10 grandi vasi di vetro interconnessi, nei quali avrebbe poi puntato la luce travolgente del suo potere e della sua benevolenza come primo passo nella Creazione – solo che qualcosa andò disastrosamente storto. I vasi di vetro non riuscirono a contenere la pura intensità dell’ondata di luce e si frantumarono in miliardi di piccoli frammenti che andavano alla deriva nell’abisso oscuro – tutto questo è un altro modo di pensare alla Caduta, una Caduta che in qualche modo lasciò anche Dio ferito, così che non poteva più riparare le cose da solo. Allora è diventato il lavoro degli esseri umani, attraverso il tikkun olam, una sorta di azione contemplativa per aiutare a riparare il mondo”.
L’artista: “Sì, giusto. Così forse puoi vedere come il processo del collodio – questa attività devozionale quasi alchemica che mescola i temi della luce e del buio e del vetro e della rottura – possa aver fatto rima con alcune di quelle mie altre crescenti ossessioni”.
Naturalmente la prova stava nel ritrarre il suo ospite in modo da mostrargli l’alchimia preziosa di un’immagine che piano piano si materializza su una lastra trasparente… Magie.
Di magia ce n’è tanta in questa storia. E l’indagine sul passato, come suggerisce il titolo dell’esposizione da cui siamo partiti, comincia ad avere un significato più chiaro. Un uomo di questo tempo, vive in uno più remoto, raccontando il presente come una predizione passata. Di questo sanno le foto seppiate in mostra al museo californiano, così come di questo sa il resoconto di una giornata con Berkman e Weschler. Bene, ma di Zohar e degli Zohar Studios, così ben raccontati nel percorso espositivo? Come e quando Berkman sarebbe entrato in contatto con quel materiale? Le risposte sono laconiche, imprecise, finché alla constatazione e successiva semplice quanto quasi risentita domanda di Weschler: “Il catalogo inizia con una processione di immagini notevoli: Dove le hai trovate? Qual è la loro storia?”, il nostro gnomo risponde: “Non li ho ‘trovati’, esattamente. Questo libro è il mio omaggio al lavoro dello studio Zohar e all’immaginazione storica“.
Beh, basta così. Come aperitivo, basta così. La cena poi è lunga, prosegue con portate eleganti quanto ironiche, a base di ingredienti accostati a sorpresa, sapori inediti eppure noti… e comunque non si arriva al dessert, perché un alone di mistero resta su Berkman-Zohar e soprattutto su quell’arte magistralmente definita come immaginazione storica. Che in forma fotografica mette in scena davvero una magia. E se prendiamo le parole della prima parte di quell’espressione: “omaggio al lavoro dello studio Zohar” a questo punto viene spontaneo aggiungere una semplice preposizione articolata, per leggere così: un omaggio al lavoro dello studio DELLO Zohar…
È nata a Milano nel 1973. Giornalista, autrice, spesso ghostwriter, lavora per il web e diverse testate cartacee.