Storia del gustoso piatto, dalla Persia agli Stati Uniti d’America
Trovare l’origine delle polpette è un’impresa ardua. Più facile sembrerebbe seguire la storia del nome, cercando una coerenza con la preparazione. Ma è proprio qui che iniziano i guai. Restando in Italia, il termine polpetta sembra avere fatto la prima comparsa ufficiale a metà Cinquecento nel libro Banchetti compositioni di vivande, et apparecchio generale
di Cristoforo di Messisbugo, cuoco al servizio dei duchi di Ferrara. Pubblicata postuma nel 1549 a Venezia e rieditata poi più volte con alcune modifiche con il titolo di Libro Novo, l’opera non è solo una preziosa testimonianza di quelli che erano gli usi alimentari alle corte dei signori del Rinascimento, con la puntuale descrizione di menu e portate delle occasioni più importanti, ma anche un ricettario in parte ancora oggi consultabile.
Così, dalla serie di piatti puntualmente spiegati si estrapolano diverse informazioni anche su ingredienti e lavorazioni già in uso al tempo. Imbattendosi a un certo punto anche in alcune ricette di polpette. Fantastico, verrebbe da pensare. Ma l’entusiasmo si placa velocemente, quando ci si accorge che le polpette, per Cristoforo, sono “fette sottili”, ottenute da carne tagliata e quindi battuta col coltello. A queste fettine si sovrappongono odori, spezie e aromi molto vicini a quelli che usiamo ancora oggi, cucinando poi qualcosa di molto più simile a uno spezzatino che a quelle palline di carne in salsa che tanto amiamo.
Non troppo diversamente vanno le cose andando leggermente indietro negli anni e leggendo il Libro de arte coquinaria di Maestro Martino, che parla a sua volta di polpette, ma sempre in termini di fettine di carne, questa volta avvolte intorno agli ingredienti e i sapori più vari. Un procedimento non troppo diverso da quanto descritto nei ricettari regionali italiani dei primi del Novecento, quando con polpette spesso si intendono ancora gli involtini. Già nei decenni precedenti, comunque, Pellegrino Artusi nella sua Scienza in cucina parlava tranquillamente di polpetta per indicare un piatto di famiglia, spesso preparato con gli avanzi della stessa carne cotta (pur non escludendo l’impiego della polpa cruda), accuratamente pestata o tritata e quindi impastata con pane, formaggio grattugiato, uova e spezie.
Da questo si deduce che la preparazione in sé fosse già ampiamente conosciuta e diffusa, ancor prima, si pensa, di prendere il posto dell’involtino. Del resto, pare che già nella Roma antica del primo secolo Marco Gavio Apicio fornisse nel De re coquinaria una ricetta, indicata come “isicia omentata”, dove la carne trita, mescolata a pane, uva, pinoli e vino e insaporita con spezie, veniva avvolta nella rete di maiale (omento) e quindi cotta in tegame.
Ma dove sarà mai andata a finire questa ricetta e tante sue simili, nei secoli successivi? E perché un trattato apparentemente tanto completo come quello del Messisbugo pare trascurarle? Una possibile risposta è che, trattandosi di preparazioni popolari, forse non avessero sufficiente dignità da comparire in un manuale teso a istituire un banchetto principesco. Poco convincente, questa spiegazione spinge a rileggere con più attenzione le pagine del trattato cinquecentesco. Ed è così che finalmente ci si imbatte nell’illuminante paragrafo intitolato A fare vivanda alla Hebraica, di Carne. Nelle righe che seguono, si legge di una raffinata preparazione a base di carne di vitello pestata finemente, condita e quindi divisa in quattro parti per essere poi avvolta a palla intorno ad altrettanti tuorli d’uovo rassodati. Una volta modellate, le sfere sono cotte in un brodo allo zafferano insaporito con erbe e noce moscata.
La presenza di questa pietanza racconta molte cose. Una di queste è la posizione occupata nel XVI secolo dalla comunità ebraica, si suppone nell’area ferrarese e mantovana in cui operava Cristoforo da Messisbugo, tanto influente da trasmettere le proprie ricette ai cuochi di corte. L’altra informazione è sul tipo stesso di preparazione, che in altre versioni dell’opera sembra sia indicata con il nome di albondiga.
E qui tutto dovrebbe farsi più chiaro. Già, perché le albondigas, ieri come oggi, sono la versione spagnola delle nostre polpette, evidentemente arrivate in Italia con gli ebrei scacciati dalla penisola iberica a partire dal 1492. Per quanto fossero certo già conosciute nelle cucine italiane, queste golose palline di carne trita in salsa avrebbero presto acquisito una loro identità tipicamente ebraica, riconoscibile dall’uso di particolari ingredienti e dall’estrema fantasia nell’assemblarli. Come ricorda Claudia Roden nella sezione del suo Book of Jewish Food dedicata a kofta, albondigas, almondegos, meatballs e polpette, quello che rende ebraiche queste pietanze non è tanto il loro prestarsi a essere preparate anche con un giorno di anticipo o la possibilità di rendere più morbida la carne kosher, quanto l’infinita gamma di aromi e di spezie che sono in grado di assorbire. Ricordando che ogni comunità della diaspora possiede una propria particolarissima versione delle polpette, la studiosa di origini egiziane ricorda quanto sia qui determinante l’impiego delle verdure, dai porri alle melanzane, dal sedano agli spinaci. E non solo per preparare la salsa di accompagnamento, ma anche per comporre lo stesso impasto di carne. Sulle ragioni di questa aggiunta, che si somma alla presenza di pane, matza, farina o riso nel dare corpo al composto, gioca un ruolo fondamentale anche il bisogno. Dove la carne era poca, insomma, la si doveva rinforzare con qualche altro ingrediente più a buon mercato, così come l’eventuale laboriosità della ricetta sfruttava quello che in certe situazioni era l’unica ricchezza a disposizione, ossia il tempo.
Concentrando l’attenzione sulle origini del piatto, nell’Encylcopedia of Jewish Food, Gil Marks ritiene che le albondigas fossero state portate in Spagna nel Medioevo dagli Arabi, che le avrebbero acquisite a loro volta dai Persiani ai tempi della loro occupazione. Prova di questa derivazione sarebbe lo stesso termine kofta, nome con cui in diverse aree musulmane si indicano le polpette e che probabilmente deriva dal persiano kufteh, che significa pestato. Giunte in Spagna, le deliziose palline avrebbero preso il nome spagnolo-ladino di albondigas direttamente dall’arabo al-bunduqa, che vuol dire nocciola e che farebbe quindi riferimento alle piccole dimensioni della preparazione. A differenza di quanto pare avvenuto in Italia, il termine con cui ancora oggi sono indicate le polpettine di carne pestata si era già ampiamente affermato già nel XIII secolo, tanto che un anonimo libro di cucina moresco dell’Andalusia lo citava riportando una ricetta molto simile a quelle ancora oggi in uso.
Al di là delle questioni filologiche, comunque, le albondigas sono state subito accolte con entusiasmo dai sefarditi, che le hanno fatte proprie al punto da trasformarle, secondo gli storici, in un elemento così distintivo dell’appartenenza all’ebraismo da essere usate perfino dall’Inquisizione per smascherare i finti convertiti. Una volta lasciata la penisola iberica, questi stessi ebrei avrebbero portato con sé anche le polpette, adattandole agli ingredienti e alle tradizioni proprie di ciascuno dei Paesi che li avrebbe accolti, sia al di qua sia al di là dell’Oceano.
A questo proposito, e senza intraprendere un viaggio infinito tra le infinite varianti possibili, è curioso notare quanto un piatto come le polpette al sugo rosso, che in America viene tradizionalmente associato agli italiani, specie nell’improbabile abbinamento con gli spaghetti, si sia forse affermato anche grazie al grande afflusso di ebrei dall’Europa. A questi va attribuito senz’altro la passione per l’intingolo dal gusto dolce acidulo, dato da una parte dal pomodoro, che dall’Ottocento aveva preso il posto della salsa agra che prima avvolgeva le polpette, e dall’altra dallo zucchero, tipico della cucina ebraica delle festività.
E alle feste, in effetti, le polpettine sono da sempre legate, tanto da comparire nei menu delle principali ricorrenze, da Rosh Hashanah a Pesach. In una delle loro trasfigurazioni, sono considerate persino un piatto con cui, almeno i bambini, possono spezzare in digiuno di Yom Kippur. È il caso delle ngozzomoddi, le polpette della tradizione giudaico-romanesca. Dalla forma allungata e l’intingolo rosso, sono preparate con carne trita di pollo mescolata con farina di matza o pane ammollato nell’acqua e uova. La loro particolarità, oltre all’uso della carne bianca e alla forma allungata, è quella di essere cotte a mo’ di kofta, senza una soffrittura preventiva, in una salsa preparata con pomodoro, cipolla o aglio, carote e sedano. Quest’ultimo ingrediente, determinante, viene usato non tanto come odore ma come ortaggio, tagliato com’è a striscioline, sbollentato e poi aggiunto in tegame durante la lunga cottura sul fuoco dolce.
Polpette alla giudia con gli spinaci
Ingredienti
500 g di carne di manzo macinata
300 g di spinaci
500 g di passata di pomodoro
brodo vegetale
1 panino raffermo
un uovo
noce moscata
1 spicchio d’aglio
olio extravergine d’oliva
sale
pepe in grani
Pulire e lavare gli spinaci, poi cuocerli in una casseruola coperta con la sola acqua rimasta sulle foglie dall’ultimo risciacquo e una spolverizzata di sale. Farli intiepidire leggermente, strizzarli con le mani e tagliuzzarli grossolanamente.
Ammollare il panino, spezzettato e privato della crosta, in qualche cucchiaio di brodo o di acqua, poi scolarlo, strizzarlo bene e spezzettarlo. Riunire la carne in una terrinetta con gli spinaci, il pane, l’uovo, una grattugiata di noce moscata, una presa di sale e una macinata di pepe. Mescolare bene, poi riporre in frigo a rassodare.
Sbucciare lo spicchio d’aglio e tritarlo, poi rosolarlo in una larga padella con qualche cucchiaio d’olio senza farlo scurire, aggiungere quindi la passata e portarla a lieve ebollizione. Regolare di sale e di pepe macinato, abbassare la fiamma e lasciare sobbollire unendo, se serve, poco brodo.
Prelevare il composto di carne e spinaci con un cucchiaio e modellare le polpette con le mani inumidite formando tante palline uguali. Disporle quindi in padella con il sugo, mettere il coperchio e lasciarle cuocere per circa 30 minuti, a fiamma bassa, unendo se serve poco brodo e voltandole eventualmente una sola volta, delicatamente. Togliere dal fuoco e servire.
Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.