Sede di fiorenti comunità sin da tempi antichissimi, oggi conta un unico ebreo rimasto a Kabul. Ma un ricco patrimonio culturale
Nel mentre l’Afghanistan sembra precipitato in una bolgia dantesca il destino, estremamente incerto, della sua popolazione, a partire da quella urbana, è al centro dei pensieri dei tanti. La presa del potere da parte dei talebani è contrassegnata non solo dal ricorso alla forza e alla violenza ma da un orizzonte dove la tutela dei diritti umani elementari, a partire dalla condizione delle donne, è messa a serio rischio. Se non a repentaglio. Difficile, in un tale stato di prostrazione collettiva, porre mente e pensiero al destino delle cose, ovvero degli oggetti che, anche in quel Paese, ne raccontano la storia millenaria. Tra di essi, ciò che rimane dell’ebraismo, quand’anche ciò sia pur solo una testimonianza del passato.
L’Unesco, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura, in questi giorni ha lanciato un appello per la protezione del patrimonio culturale dell’Afghanistan. «Tra gli eventi in rapida evoluzione e vent’anni dopo la deliberata distruzione dei Buddha di Bamiyan, un sito patrimonio dell’umanità» viene accoratamente richiesta «la conservazione della ricchezza e del deposito culturale dell’Afghanistan nella sua diversità, nel pieno rispetto del diritto internazionale, e l’adozione di tutte le precauzioni necessarie per risparmiare e proteggere il patrimonio culturale da danni e saccheggi». L’Afghanistan, sottolinea l’Unesco, ospita un’ampia gamma di siti che sono parte integrante della storia e delle identità regionali, oltre che importanti per l’umanità. Tra di essi la Città Vecchia di Herat, il Minareto, i resti archeologici di Jam, il paesaggio culturale e i resti archeologici della valle di Bamiyan, nonché diversi musei tra cui il Museo Nazionale di Kabul. Ovviamente tutti di nuovo a rischio, di qui ai prossimi tempi. Degli ebrei, e con essi di ciò che ne testimoniava l’altrimenti millenaria presenza, è rimasto non molto. Ma neanche troppo poco. Quale sarà il destino delle testimonianze di un tale insediamento?
Ad onore delle cronache, se ci riferiamo alle persone, si è parlato, ancora recentemente, dell’esistenza di un solo ebreo, Zablon Simintov, di professione già commerciante di tappeti e ristoratore, di origine turkmena, che presidia i locali, estremamente modesti, dell’antica sinagoga di Kabul. Ciò che restava della comunità ebraica locale aveva peraltro abbandonato definitivamente il suolo patrio ai tempi dell’invasione sovietica del 1979, ricostituendosi in Israele e nei paesi di lingua inglese, a partire dagli Stati Uniti. L’Afghanistan un tempo ospitava alcune decine di migliaia di ebrei, benché il vero numero non sia mai stato definito. Molti di essi vivevano a Herat, una città oasi lungo l’antica rotta commerciale della «via della seta». Quel numero era già sceso a meno di cinquemila entro la metà degli anni Cinquanta, quando la società ebraica subiva i lunghi e corposi effetti delle restrizioni esercitate sulla libertà di residenza, di movimento, di espressione del culto e di professione imposte dalle autorità succedutesi nel tempo, ossia quelle che dalla fine della Prima guerra mondiale, una volta venuto meno la residua influenza britannica, avevano dato vita al Regno dell’Afghanistan, a sua volta succeduto all’Emirato, costituito nella prima metà dell’Ottocento. Una forte influenza sul paese, infatti, era stata esercitata dalla propaganda nazista, nella sua capillare opera di penetrazione nel mondo arabo e in quello musulmano. La descrizione degli ebrei come di un pericolo per la collettività, «agenti bolscevichi», quindi al soldo di Mosca, aveva pesato nell’applicazione di grande parte nelle limitazioni delle quali erano stati fatti oggetto nel corso del tempo. Quando i talebani salirono al potere una prima volta, nel 1996, dopo anni di guerra tra il governo nazionale, le truppe sovietiche e i combattenti mujaheddin sostenuti dagli americani, ciò che restava della popolazione ebraica del paese era quindi ridotta ad una cifra irrisoria. Ulteriormente ridimensionatasi, di fatto a quel punto arrivò all’azzeramento. Con l’inizio del nuovo secolo, del vecchio insediamento erano rimaste solo due persone, Simintov e Ishaq «Isaac» Levin, che vivevano entrambi nei locali attigui alla sinagoga di Kabul, dentro la cornice del pesantissimo controllo dei fondamentalisti che fecero scontare loro anche alcuni periodi di detenzione. Peraltro, i due intrattenevano rapporti tra di loro estremamente conflittuali, arrivando a denunciarsi vicendevolmente alle autorità. Levy, oramai molto anziano, viveva perlopiù di aiuti e carità mentre Simintov, finché gli è stato possibile, ha continuato a vendere tappeti e preziosi. Durante il primo governo talebano, la Torah della sinagoga della capitale era stata confiscata. Levy è morto nel 2005 per cause naturali. La sua salma è stata portata in Israele e sepolta sul Monte degli Ulivi a Gerusalemme il 2 febbraio 2005. Simintov, che aveva annunciato la sua intenzione di trasferirsi definitivamente in Israele, dove ha moglie e due figlie, dopo Yamim Noraim, le festività del primo autunno, al momento è ancora a Kabul.
Ma facciamo un passo indietro, non fermandoci solo alla cronaca più recente. La comunità ebraica afghana risale a circa 1.500 anni fa, lasciando tracce di sé a partire dal VIII secolo dell’era volgare. Ciò dicendo, è bene lasciarsi alle spalle le diatribe e le polemiche trascinatesi nel tempo rispetto alla possibile origine da tribù israelite perdute, la qual cosa retrodaterebbe invece l’insediamento di altri mille anni prima. Infatti, le comunità ebraiche dell’Afghanistan moderno facevano risalire i loro inizi all’esilio assiro (720 a.e.v.) e all’esilio babilonese (560 a.e.v.). Tuttavia, al netto del racconto che scioglie la storia nella mitologia, non vi sono riscontri archeologici certi che possano accreditare tali ipotesi. Afferma Irena Vladimirsky, ricercatrice, specializzata in storia dell’Asia centrale presso l’Achva Academic College d’Israele: «Ci sono solo poche fonti testuali che menzionano la presenza degli ebrei sul territorio dell’Afghanistan moderno prima dell’VIII secolo. Consistono principalmente di commenti biblici e responsa inviati dai saggi delle accademie talmudiche in Babilonia. Vari testi religiosi in arabo ed ebraico raccolti dal caraita Yaphet ben Heli de Bassora nel X secolo menzionano che la “Terra d’Oriente” è abitata da comunità ebraiche. La “Terra d’Oriente” durante il Medioevo (VIII-XIV secolo) era associata alla regione del Khorasan (letteralmente la “Terra del Sole”) e corrispondeva all’Afghanistan settentrionale, alle regioni limitrofe dell’Iran nord-orientale e alle parti meridionali dell’Iran. Parliamo quindi dell’Asia centrale. Anche i commentari biblici del rabbino Sa’adia Gaon, del caraita Daniel Al Qumisi e di Japheth ben Heli identificavano il Khorasan come la regione in cui furono esiliati gli ebrei. Questi commentatori testimoniano una fiorente comunità ebraica nella regione. El-Hadj Mohammed el-Idrisi, storico musulmano (1099-1166), menziona anche le comunità ebraiche nelle città di Ghaznah e Naisabur nel suo lavoro sulle tavolette storiche della dinastia Beni-Djellal. Le fonti medievali fanno riferimento a diversi centri ebraici in Afghanistan; i più importanti si trovavano nelle città di Merv, Balkh, Kabul, Nishapur, Ghazni e Herat». In buona sostanza: se la presenza ebraica è appurata dal 700 e.v., precedentemente non si hanno riscontri sufficientemente veridici.
Nella stratificata società afghana del tempo, una parte degli ebrei occupava alcuni ruoli legati al commercio del cuoio e dei derivati delle pecore karakul, così come le funzioni di prestatori di denaro e di piccoli proprietari terrieri. Ad Herat, luogo di transito commerciale, esiste ancora un cimitero ebraico ed alcune testimonianze, peraltro in rovina, dell’antico insediamento comunitario. Di fatto la città, collocata nella parte occidentale dell’Afghanistan, era in diretto collegamento con l’Iran. Si sa che circa duecento famiglie di Meshhed, in Iran, a seguito delle conversioni forzate alla religione islamica si trasferirono ad Herat tra il 1839 e il 1840. I nuovi immigrati contribuirono a rafforzare le istituzioni ebraiche locali e, più in generale, la vita ebraica afghana. Per gran parte del XIX secolo e per la prima metà del XX secolo, Herat è stata la principale comunità ebraica in Afghanistan.
Nel 1978, a seguito di scavi archeologici condottivi, furono scoperte quattro sinagoghe, tutte situate nelle sezioni Bar Durrani e Momanda della città vecchia, un’area precedentemente nota come Majalla-yi musahiya, ovvero Mahall-i-Jehudiyeh, il «quartiere degli ebrei». Le sinagoghe erano conosciute come Mulla Ashur, Yu Aw e Gul, mentre la quarta era senza nome. Dal 1978 la sinagoga Mulla Ashur è stata utilizzata come «maktab», una scuola elementare musulmana per ragazzi. L’edificio precedentemente noto come sinagoga Gul è stato convertito in una casa di preghiera musulmana ed è ancora conosciuto come la Moschea Belal. Solo la sinagoga Yu Aw è stata conservata per la maggior parte delle sue caratteristiche originali. È costituita da un edificio in mattoni di fango a due piani con fondamenta in mattoni cotti e un cortile interno. L’Arca della Torah è costruita nel suo muro occidentale, di fronte a Gerusalemme. L’architettura di tutte e tre le sinagoghe mostra una chiara influenza persiana. Testimonianze del 1100 e.v. riferiscono inoltre della presenza di un quartiere ebraico a Kabul, le cui porte venivano chiuse al calar della notte e riaperte all’alba. Quando nel 1500 la dinastia indiana Moghul adottò l’Islam sciita, l’Afghanistan e l’Asia centrale rimasero ancorate all’osservanza sunnita. Sta di fatto che una tale bipartizione comportasse per le vivaci comunità ebraiche della grande regione una rescissione dei legami di reciprocità, da allora vincolati dall’appartenenza delle terre di insediamento all’una o all’altra grande corrente islamica.
Una comunità piuttosto fiorente era quella di Ghur (altrimenti traslitterata con Ghor e Ghowr). La scoperta nel 1946 di un cimitero ebraico nella città testimonia del’esistenza di un numeroso e attivo insediamento. Ghur si trova nella regione montuosa dell’Afghanistan orientale. Ancora Irena Vladimirsky: «Le prime lapidi risalgono al 752-753 e l’ultima data al 1012-1249. Le iscrizioni sulle lapidi sono in ebraico, aramaico e giudeo-persiano, una lingua con elementi di persiano medievale e contenente componenti ebraico-aramaiche, scritte in caratteri ebraici e parlate dai membri della comunità locale. Le lapidi riportano non solo nomi e date, ma anche titoli e funzioni comunali. Il titolo di “Alut” fu conferito ai giudici; il titolo di “Hakham” si riferiva a insegnanti o rabbini. Gli insegnanti della comunità e coloro che guidavano le preghiere pubbliche erano generalmente indicati come “Melamed”. Altri titoli, come “Zaken” e “Yashish” sono stati dati agli anziani della comunità e alle persone illustri. La comunità ebraica di Ghur aveva una corte rabbinica, una sinagoga e scuole religiose per bambini e ragazzi. In seguito all’invasione mongola della regione all’inizio del XIII secolo, i membri della comunità fuggirono o furono costretti a convertirsi all’Islam».
Fin qui le ricostruzioni attraverso lo scavo archeologico e la documentazione sopravvissuta al tempo. Quel che si sa di certo è che nel 1700 alcuni ebrei afghani, che avevano servito nell’esercito di Nadir Shah Afshar, scià di Persia e fondatore della dinastia degli Afsharidi (conosciuto anche come «Napoleone di Persia» o con il titolo di «secondo Alessandro Magno»), si stabilirono a Kabul svolgendo il compito di guardie del tesoro imperiale. Dalla metà del XVIII secolo, il regno afghano fu governato dalla dinastia Durrani che cercò di impedire il diffondersi dell’influenza occidentale, e soprattutto britannica, sulla società afghana. Ciò portò quindi al relativo isolamento della comunità ebraica locale. Ricorda al riguardo Vladimirsky: «Il costume tradizionale ebraico era simile a quello della popolazione musulmana ad eccezione del turbante nero, indossato da tutti gli uomini ebrei. Secondo una tradizione, il turbante nero era considerato un segno di lutto per la distruzione del Tempio di Gerusalemme. Altri, tuttavia, ritengono che gli ebrei fossero costretti a indossare turbanti neri come segno di distinzione dalla popolazione musulmana. Molti ebrei afghani erano attivi nel commercio del cotone e della seta, specializzandosi nel processo di tintura. Fare la tintura – che viene prodotta dai corpi essiccati dell’insetto cocciniglia e dell’indaco – aveva reso le mani degli artigiani di colorazione blu, facendo credere a molti che questa fosse una caratteristica degli ebrei dell’Afghanistan. Gli ebrei autoctoni usavano l’ebraico per la liturgia e gli studi religiosi, mentre il giudeo-persiano era la lingua principale per l’uso quotidiano. Ci sono alcune differenze tra la forma scritta del giudeo-persiano e i suoi dialetti parlati. Inoltre, c’erano distinzioni nette tra il dialetto di Kabul e quelli parlati in altre comunità. Ad Herat, ad esempio, gli ebrei parlavano almeno tre idiomi principali: il principale dialetto giudeo-persiano era usato dagli ebrei di origine afghana, mentre gli immigrati di Meshhed e i loro discendenti preferivano il loro dialetto locale originario, così come quelli provenienti da Yezd, altro città in Iran, hanno continuato a usare le proprie espressioni vernacolari».
Su quanti fossero gli ebrei afghani a lungo si è molto discusso, tanto più riferendosi o considerando l’arco di tempo a noi più prossimo, quello che inizia con il 1900. Alcuni fonti hanno parlato della presenza, all’epoca, di quarantamila elementi suddivisi in una sessantina di comunità. Secondo ricerche ritenute maggiormente attendibili, si ritiene invece che non superassero i diecimila componenti. Anche sul numero di comunità territoriali la discussione non è terminata. L’ipotesi maggiormente accreditata ne conteggia una quindicina, alcune delle quali – inoltre – di temporanea esistenza, quindi estintesi in tempi piuttosto brevi. Molto ruotava intorno ai commerci, ai trasporti e alla distribuzione delle merci: dove le attività erano fiorenti, la comunità si stabilizzava e cresceva; dove invece le cose andavano diversamente, l’insediamento poteva deperire nel giro di un paio di generazioni. In sostanza, oltre a Herat e Kabul le città di maggiore presenza ebraica erano Balkh, Gazni e Kandahar. La caratteristica diffusa dell’ebraismo afghano, nella prima parte del Novecento, era il suo sostanziale conservatorismo, non essendosi ancora confrontato con i fenomeni della modernità sociopolitica, le trasformazioni culturali e i cambiamenti economici invece già introdotti in altre parti dell’Asia. Contava in ciò il fatto che il paese fosse stato un’area di influenza britannica ma non avesse subito un processo di colonizzazione diretta. I rapporti infra-ebraici riguardavano quindi soprattutto quelli intrattenuti con i correligionari dell’Iran, dell’India e di quei territori dell’Asia centrale limitrofi al Regno afghano. Molto oltre, non potevano andare, per gli oggettivi vincoli della realtà in cui si trovava ad interagire.
Benché le relazioni infra-afghane tra le diverse tribù e i distinti clan siano spesso sfociate in contrasti e conflitti, all’interno del cui reticolo gli ebrei rischiavano di pagare pegno quand’anche non fossero stati responsabili, la prima grande crisi antiebraica della quale si preserva memoria si registrò, in età contemporanea, all’inizio degli anni Trenta. Il motivo scatenante furono le frizioni tra l’Unione Sovietica e l’Afghanistan, quando alcune decine di migliaia di rifugiati sovietici si riversarono nel paese. L’arresto e l’invio coatto di molti di questi in Urss o in Cina si riflesse anche sulla comunità ebraica: gli ebrei sovietici che erano riparati in terra afghana, accusati di spionaggio, opera di sovversione e propaganda e quant’altro, vennero perlopiù arrestati. Di fatto, questo iniziale episodio diede avvio ad un’intensa campagna antiebraica che si tradusse in violenze ripetute. Fu quindi imposto di trasferirsi obbligatoriamente a Kabul ed Herat, secondo la logica, alimentata dalle autorità, per la quale gli ebrei non potevano essere originari del settentrione del Paese allora confinante con le repubbliche sovietiche, dovendosi quindi raggruppare in unità urbane più facilmente controllabili.
Sta di fatto che già alla fine del 1933 quasi tutti gli ebrei delle città del nord vi erano stati espulsi, perdendo le loro case e venendo derubati delle proprietà. Continuarono quindi a vivere prevalentemente a Kabul e Herat, in un regime di crescenti restrizioni nei riguardi del loro lavoro e del commercio. Nel 1935, secondo la Jewish Telegraph Agency, agli ebrei afghani furono imposte le cosiddette «regole del ghetto», che ne vincolavano ulteriormente l’autonomia civile e sociale: esclusione delle donne dai mercati, divieto di residenza in prossimità delle moschee e di cavalcare i cavalli (animale indispensabile per muoversi nei lunghi tratti che dividevano un insediamento urbano dall’altro), vestizione secondo criteri che risultassero compatibili con l’immediata identificazione di chi li indossava. Peraltro, la comunità ebraica afghana stava conoscendo un accelerato processo di immiserimento, incrementato dall’emarginazione civile e dalla stigmatizzazione istituzionale. In questo quadro di crescenti vincoli e difficoltà, nel 1935 ad Herat, la città con il più numeroso insediamento ebraico, scoppiarono disordini originati da una banale disputa tra due giovani, di cui uno ebreo. Ben presto si diffuse la voce che quest’ultimo intendesse convertire con la forza il suo antagonista musulmano al giudaismo. La comunità sciita locale scese in piazza, manifestando violentemente, imbracciando le armi e saccheggiando le proprietà ebraiche.
La prassi dei pogrom fu ulteriormente incentivata, negli anni successivi, dal governo di Mohammad Hashim Khan. Il primo ministro afghano, che governò dal 1929 al 1946, proseguì nelle politiche di modernizzazione urbana ed amministrativa già disposte dai suoi predecessori. I target interni del governo afghano si concentravano sul rafforzamento dell’esercito e sul sostegno dell’economia, compresi i trasporti e le comunicazioni. Entrambi gli obiettivi richiedevano assistenza straniera. Preferendo non fare affidamento sull’Unione Sovietica o sulla Gran Bretagna, Hashim si rivolse quindi alla Germania nazista. Già nel 1935 esperti e uomini d’affari tedeschi avevano creato fabbriche e progetti idroelettrici su invito del governo afghano. Minori aiuti furono offerti anche dal Giappone imperiale e dall’Italia fascista. I nazisti consideravano gli afghani, al pari degli iraniani, come popolazioni «ariane». Anche per questa liaison tra Kabul e Berlino, le restrizioni nei riguardi degli ebrei andarono aumentando, fino a giungere al punto di costringerli, nelle aree urbane in cui erano di fatto imprigionati, a lavorare perlopiù come lucidatori di scarpe. A fronte di questo degrado, una parte della comunità ebraica cercò di espatriare nell’India britannica dove, tuttavia, venendo classificati in base ai passaporti di proprietà, erano respinti oppure deportati – in quanto considerati dei «sovversivi», collusi con gli indipendentisti indiani – in Russia, quando possibile. Alla conclusione della Seconda guerra mondiale, nel mentre l’intera area stava vivendo le trasformazioni e le convulsioni anti e postcoloniali, l’emorragia della comunità ebraica locale proseguì. Una parte di essa, perlopiù clandestinamente, si trasferì ancora in India per poi recarsi nella Palestina mandataria o negli Stati Uniti (ed in particolare nel distretto del Queens, a New York). Se nel 1948 vivevano in Afghanistan ancora circa cinquemila ebrei, tre anni dopo fu permesso ai rimanenti di opzionare tra il mantenimento della cittadinanza o l’emigrazione. Si trattava del primo permesso ufficiale di espatrio, posto che precedentemente la quasi totalità delle uscite dal territorio nazionale era avvenuto in maniera illegale o comunque irregolare. L’attività sionista era peraltro rigorosamente vietata nel paese. L’immigrazione in Israele fu quindi concessa solo dal 1951.
Negli anni Sessanta, ognuna delle tre principali comunità ancora attive in Afghanistan – ovvero Kabul, Herat e Balkh – aveva un «Hevrah» (un consiglio di comunità), che si occupava dei bisognosi, delle sepolture, rappresentava la comunità nelle questioni legate alle autorità ed era responsabile del pagamento delle tasse. Dal 1952 gli ebrei erano esentati dal servizio militare ma dovevano invece pagare una tassa speciale (har bieah). Di fatto, a quel punto, il gruppo che residuava proseguì nell’espatrio. Alla fine degli anni Sessanta, quindi, l’insediamento ebraico era oramai ridotto a trecento elementi che, nella quasi totalità, avrebbe abbandonato il paese in concomitanza con l’invasione sovietica.
Attualmente, almeno diecimila cittadini israeliani sono di origine afghana. Più che di una diaspora dell’ebraismo di quei luoghi, è meglio parlare, a questo punto, di un assorbimento progressivo del ceppo afghano dentro le nuove comunità di appartenenza, trattandosi oramai di un’antica storia di eremitaggio, snocciolatasi per tutto il Novecento.
Alcune voci, per nulla riscontrate, parlano della possibile esistenza in Afghanista di alcune centinaia di ebrei, in parte convertitisi all’Islam ed in parte professanti il proprio credo in segreto. Una sorta di marranesimo contemporaneo, se così fosse. Ma a dovere dare credito solo al riscontrabile, ciò che resta, umanamente parlando, è pari alla cifra di una persona. E null’altro.
Ciò che va comunque considerato, parlando di uomini e cose, soprattutto dinanzi alle drammatiche immagini di questi giorni, è che l’Afghanistan è un vero e proprio crogiuolo etnolinguistico. I pashtun costituiscono la componente più importante, con circa il 38% della popolazione. Come sottolinea Elisa Giunchi: «Di origine indoeuropea, il gruppo vive nel sud, nel sud-est e nel sud-ovest del paese ed è diviso in tre gruppi principali: i Durrani, noti prima della metà del Settecento come Abdali, i Ghilzai e i Pashtun dell’est. Popolazioni ghilzai vivono anche al nord. Appartengono al gruppo pashtun, infine, i Kuci, nomadi che si spostano stagionalmente tra Pakistan, Iran e Afghanistan approfittando di confini tradizionalmente porosi. I Pashtun si riconoscono in un codice etico che dà preminenza alla vendetta, all’ospitalità e all’onore, sono di fede sunnita e vivono per lo più in strutture tribali e acefale, caratterizzate da forme decisionali orizzontali, le jirga. La loro lingua, il pashto, è una delle due lingue ufficiali del paese, insieme al dari». I tagiki sono invece il 25% della popolazione. «Di lingua dari, di fede sunnita e di cultura persiana, questo gruppo è concentrato nel Badakhshan, a Kabul e Herat, nel Kohistan e nella valle del Panshir; si tratta di popoli sedentari dediti all’agricoltura, al commercio e all’artigianato, che tendono a definirsi in base all’appartenenza regionale. Nel nord del paese vivono etnie sunnite che appartengono al ceppo linguistico uralo-altaico, principalmente gli Uzbeki (6%) e i Turkmeni (3%). A nord-est ritroviamo i Nuristani, popoli di origine indoeuropea convertiti all’islam sunnita nell’Ottocento e precedentemente noti come ‘kafiri’ (infedeli). Nel sud-ovest vivono popoli nomadi, tra i quali i Beluchi, che parlano una lingua indo-europea, e i Brahui, di lingua dravidica. Le ampie pianure centrali dello Hazajarat sono abitate dagli Hazara, di probabile origine turco-mongolica e di fede sciita. Questo gruppo – che costituisce il 19% della popolazione afghana, e che parla un idioma vicino al dari, l’hazaraji – è in larga misura dedito all’allevamento e nelle città costituisce un sottoproletariato oggetto di discriminazioni diffuse che solo in parte sono state corrette nel periodo successivo alla disfatta talebana. I Qizilbash, anch’essi di fede sciita, di discendenza probabilmente turkmena e di lingua dari, costituiscono invece l’élite urbana a Kabul e Herat grazie al loro alto livello di istruzione. Sono sciiti, infine, anche i Wakhi, nel nord-est, e i Farsiwan, a ovest».
Qualsiasi discorso sull’ebraismo afghano, ossia sul suo fantasma, non può quindi esulare da questo preciso contesto, nel quale i pashtun hanno sempre esercitato un ruolo di primazia, di fatto costituendo il nucleo intorno al quale si è determinata l’aggregazione che ha portato all’attuale Stato, fino alle settimane scorse Repubblica islamica e da adesso Emirato islamista. Se la componente pashtun – già chiamata «afghana» dai persiani – rimane il fulcro di una società e di territorio per lungo tempo attraversati da mercanti, soldati, predicatori, avventurieri e quant’altri, nell’Ottocento le politiche di unificazione portate avanti dall’emiro Abdur Rahman hanno fatto sì che ampi territori abitati da altre popolazioni entrassero a fare parte della comunità nazionale. Con diversi gradi di lealtà, posto che la continuità amministrativa e politica, al pari di quella spaziale e geografica, dell’Afghanistan rimane a tutt’oggi un enigma. Il destino di quel che resta dei siti ebraici è quindi una pedina dentro questo più ampio, e feroce, gioco delle parti.
Negli ultimi vent’anni, anche in ragione di una politica di valorizzazione culturale, si era provveduto a restaurare, con il ricorso a finanziamenti pubblici e privati, il patrimonio archeologico e dei beni culturali. I siti ebraici avevano quindi ricevuto particolare attenzione come parte di una più ampia spinta alla ricostruzione dell’identità nazionale. Si trattava di ripristinare punti di riferimento culturali di ogni tipo e rendere in qualche modo maggiormente plausibili le affermazioni per il quale il paese si stava incamminato verso una democrazia pluralistica. Il restauro della sinagoga Yu Aw è stato finanziato in parte dall’Aga Khan Trust for Culture, una fondazione svizzera, attiva nel mondo musulmano, che l’ha descritto in un opuscolo come parte di uno sforzo per «celebrare, ripristinare e mantenere la presenza e l’identità culturale dell’Afghanistan nel mondo moderno». C’è chi adesso ricorda che «non più tardi dell’anno scorso, c’era un senso di speranza che il lavoro di restauro dei siti del patrimonio ebraico potesse richiamare gli ebrei afgani dalla diaspora. “Stiamo preservando questa, la loro storia affinché possano tornare”, aveva detto ad Al Jazeera Ghulam Sakhi, che era stato assunto dal Ministero della Cultura per occuparsi degli edifici ebraici a Herat. “Questa proprietà appartiene a loro e possiamo tenerla al sicuro solo fino al loro ritorno”».
Con i talebani di nuovo al potere, le speranze sono ritornate al grado zero. La miscela di intolleranza, fondamentalismo, iconofobia e teocrazia congiura contro qualsiasi ipotesi in tal senso. Se tra il 1996 e il 2001 avevano permesso ai Sikh di professare, sia pure con restrizioni, il loro credo, lasciando a Simintov la possibilità di mantenere aperta la sinagoga di Kabul, nulla ora concederanno per proseguire, anche solo in misura minore, nella tutela del patrimonio ebraico. Al panorama di disarticolazione sociale e civile del presente si aggiunge, da adesso, anche quello della possibile, se non probabile, distruzione delle testimonianze del tempo passato.
Da un lettore mi viene appropriatamente segnalato quanto segue: “La dinastia moghul non si convertì allo sciismo ma per un breve periodo di tempo coincidente con il regno di Akbar, la dinastia addottò un sincretismo particolare tra le religioni presenti nel subcontinente col tentativo di superare le tensioni sociali in una società multiculturale. Un esperimento breve e fallimentare a cui seguì il ristabilimento dell’hanafismo”. Lo segnalo a mia volta come postilla e integrazione al testo dell’articolo.