Il magazine The Forward riporta il commento di una lettrice che paragona l’attuale indifferenza verso la tragedia afgana a quella della Germania nazista verso gli ebrei. Un’analisi a partire da questo spunto
Afferma un testimone della tragedia afghana in atto: «nessuno vuole lasciare la propria casa perché non sa se ce la farà a tornare vivo». La retorica del «male assoluto» rischia di non farci comprendere quali e quanti possano essere quei mali “relativi” (tali per l’umanità, non certo per le vittime in quanto tali) che si ripetono nel tempo, con una costanza e delle similitudini rispetto al passato che non possono non inquietare. Beninteso, costanze e similitudini non implicano che il medesimo passato, in quanto tale, si stia ripetendo; semmai, ci dicono che quando un dramma collettivo è in corso, presenta alcune analogie con quelli trascorsi. Dovrebbero bastarci già queste considerazioni di principio per evitare di costruire parallelismi insensati, come anche, di riflesso, relativismi morali di comodo. Poiché invece le due cose si alimentano vicendevolmente nella loro infedele e menzognera raffigurazione del tempo dell’uomo.
Con i parallelismi, infatti, tutto diventa indistinguibile; nei relativismi, invece, posto che vi sia una tragedia incommensurabile da prendere a riferimento, quanto non sia paragonabile ad essa perde di importanza e, quindi, di considerazione. Nella storia dell’umanità non conta il metro con il quale si pretende di misurare distanze e vicinanze tra eventi diversi. Conta semmai la capacità di capire quale sia il filo che lega fenomeni ed eventi tra di loro anche molto diversi. Proprio perché tali sono e tali rimangono. Non c’è bisogno di dire che si equivalgono per concordare che siano comunque importanti per chi ne è chiamato in causa. Tutto ciò, infatti, risponde solo ad un mero schema ideologico e a null’altro. Nella tragedia afghana attualmente in corso – ed usiamo questa espressione solo per richiamare le cose del presente, delle quali siamo informati, poiché l’Afghanistan è almeno dagli anni Settanta del secolo trascorso che vive tra le peggiori tempeste lo scorrere del suo tempo – ci sono molte differenze con le catastrofi europee del Novecento ma anche alcune similitudini. Fare il conto e prendere le misure delle prime ci serve quindi assai poco. Se vogliamo ribadire l’unicità di una tragedia come la Shoah, non c’è alcun bisogno di ricorrere al riscontro delle differenze rispetto ad un qualche tempo assai più prossimo a noi, se non – appunto – addirittura al presente del medesimo Afghanistan.
Dopo di che, detto tutto ciò, rimane comunque qualcosa che dal passato si riflette nel tempo corrente. Avere fatto i conti con lo sterminio razzista degli anni Quaranta, dovrebbe aiutarci a capirci di cosa stiamo parlando. Poiché ciò a cui stiamo assistendo è in parte anche un film già visto. La tragedia dei profughi, ed in essa quella di coloro che fuggono poiché sanno che a tempo brevissimo, qualora non si siano messi in salvo, saranno quasi sicuramente eliminati, ricorda infatti sinistramente alcuni aspetti del nostro passato. Un inciso: i persecutori, di allora come di oggi, usano sempre il medesimo cliché per definire le loro vittime, bollandole di una qualche responsabilità inemendabile, nei confronti della quale si dichiarano legittimi vendicatori. Il meccanismo è il medesimo, ovunque ed in ogni tempo: mettere l’etichetta infamante del “tradimento” su un’intera popolazione – in questo caso quella perlopiù urbana, poco o nulla propensa ad accettare l’oscurantismo di ritorno delle milizie talebane –, dichiararne l’infedeltà a prescindere rispetto ai canoni di un’ideologia totalitaria (la si chiami come meglio si crede, la sostanza comunque non cambia), stigmatizzarla come pericolosa per poi procedere alla sua sistematica repressione, proseguendo con l’annientamento fisico di una parte di essa. Piccola o grande che sia.
All’opinione pubblica mondiale si propalerà quella fiabesca finzione che, nel mentre simula di garantire equità e moderazione delle condotte, al medesimo tempo dichiara che gli eventuali perseguitati lo sono, e lo saranno, solo ed esclusivamente in quanto perseguibili per le loro presunte “colpe”. A volere riaffermare che ciò che si va facendo è, in fondo, un mero atto di “giustizia”; sommaria fin che si vuole ma non meno necessaria per garantire – finalmente – la “sicurezza” del paese. Cos’è, a ben pensarci, un qualche numero di morti, soprattutto se bollati con il marchio dell’infamia e del tradimento, a fronte dell’ordinata esistenza della parte restante della popolazione? Che si tratti di “ordine”, d’altro canto, si incaricheranno di garantircelo i nuovi padroni. Senza ombra alcuna di dubbio. Il loro, beninteso. Poiché stanno definitivamente svuotando un paese di tutte le anime e gli spiriti che in questi ultimi vent’anni si sono invece inventati daccapo per darsi un qualche futuro personale e, soprattutto, offrire una speranza collettiva.
Ripetiamo: siamo in presenza di un meccanismo oliato, del quale la persecuzione dell’ebraismo europeo negli anni del totalitarismo ci restituisce da subito, in controluce, le dinamiche di fondo. Senza che per questo drammi e tragedie, storicamente differenti, in qualche modo si sovrappongano, si riversino gli uni nelle altre, si annullino vicendevolmente. Gli angosciosi tentativi di fuga ricalcano non pochi aspetti dei disperati sforzi di salvarsi, in un qualsiasi modo, degli ebrei durante gli anni del buio nazifascista. Degli uni e degli altri sappiamo, allora come oggi, esclusivamente per il tramite di chi ha potuto documentarceli. Tra crescenti difficoltà, finché le cose non sono diventate impossibili. Nel caso dell’Afghanistan, plausibilmente per non troppo tempo ancora: quando gli ultimi stranieri saranno usciti, in un modo o nell’altro, il sipario calerà definitivamente e, con esso, la notte. Prima di tutto sugli incolpevoli protagonisti di quella calca, di quel mucchio selvaggio, viaggiatori di una nave che si sta inabissando in un ignoto fin troppo noto, quello di una feroce dittatura, civile e sociale prima ancora che politica. Della politica, d’altro canto, e con essa della cosiddetta “moderazione”, delle rassicurazioni di circostanza (non solo dei capi talebani ma anche di un Occidente che ancora una volta si rivela non solo imbelle ma sostanzialmente indifferente, al netto delle sue declamazioni retoriche sui «diritti» universali), degli inviti a mediare (cosa? Come? Soprattutto, con chi?) gli afghani non sanno cosa farsene. Peraltro, neanche gli è giunto qualcosa di ciò, essendo semmai troppo impegnati a cercare di salvarsi. Non c’è spazio per le fantasie in chi ha come unico orizzonte del proprio futuro immediato, quello dietro l’angolo, il preservare un brandello residuo della sua esistenza.
Oggi, come allora, le mani si aggrappano a ciò che le può sorreggere per quel po’ di tempo in cui si cerca di alimentare ancora una residua speranza. Riconoscere che la propria vita si stia trasformando in un incubo è ciò che fa correre dietro ad un aereo già in partenza, così come l’ingegnarsi in improbabili, se non impossibili, tentativi di superare un qualsiasi confine divenuto oramai impenetrabile e invalicabile. La bolgia dantesca dell’aeroporto di Kabul (del resto del paese, oramai sommerso dalla marea talebana, poco o nulla si sa) ci dice questo, non altro. Si tratta, tuttavia, solo della punta di un iceberg.
La questione della vittoria talebana, d’altro canto, non può essere ricondotta al solo tema dell’Islam, che pure non è per nulla estraneo al ragionamento che andiamo facendo. Poiché ad essere entrati (per meglio dire: rientrati) nel mirino dei fondamentalisti sono soprattutto dei musulmani. Anche in questo caso non si colpisce il «diverso» come tale, in quanto potenziale pericolo, ma un’intera società, che va intimidita, angosciata, inibita, silenziata, annichilita. In una sola parola, azzerata. Vale per le minoranze ma si rivolge anche alla maggioranza della collettività: poiché tagliando le gole alle prime si cuce le bocche della seconda.
Quello che a breve ci resterà di una società afghana inghiottita dall’onda lunga del talebanismo, saranno solo quei messaggi nella bottiglia che i naufraghi consegnano non tanto ai contemporanei quanto a coloro che, un giorno, potranno leggerli per raccontare la storia di vittime che sono tali anche e soprattutto perché nessuno vorrebbe ricordarsi di loro quando l’abisso le avrà divorate, una volta per sempre. Ed anche quest’ultima, in fondo, potrebbe essere un’analogia con qualcosa di cui ci siamo riappropriati, in quanto memoria collettiva, solo in questi ultimi decenni.
Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.