Una lettura di “Hallelujah: Leonard Cohen, a Journey, a Song” il documentario di Daniel Geller e Dayna Goldfine presentato a Venezia
L’essere sintonizzati con il mondo ebraico sarebbe essenziale per comprendere a pieno Hallelujah: Leonard Cohen, a Journey, a Song il documentario presentato fuori concorso all’ultima Mostra del Cinema di Venezia. Questo almeno è quello che afferma PG Grisar su Forward in una recensione che offre una personalissima lettura del lungometraggio.
Secondo il giornalista, per quanto le canzoni e l’autore parlino in modo diverso a ciascuno di noi, il film diretto da Daniel Geller e Dayna Goldfine manderebbe un messaggio più chiaro a chi sa da dove Cohen provenga.
In realtà, nel delineare il background del poeta e cantante ebreo canadese la coppia non sembra temere rivali. Autori di acclamati di documentari come Isadora Duncan: Movement from the Soul del 1988, Ballets Russes del 2005 e The Galapagos Affair del 2013, i due registi sono noti per la meticolosa ricerca d’archivio che accompagna ogni loro lavoro. Come raccontano a Variety, per il film su Cohen sono partiti dall’idea di un amico, lo storico del cinema David Thomson, che suggeriva loro di sviluppare un documentario basandosi su una canzone. La scelta di Cohen e del
suo capolavoro pare sia stata immediata. Ben più lungo è stato invece il processo di realizzazione dell’opera, durato complessivamente sette anni.
Come prosegue Variety, punto di partenza per la ricerca è stato il libro The Holy or the Broken del giornalista musicale Alan Light. Pubblicato nel 2012, il saggio racconta l’insolita traiettoria di Hallelujah, dal rifiuto dell’etichetta discografica CBS di pubblicarne l’album alla trasformazione del pezzo in un inno amato a livello internazionale. Da questa prima illuminazione, i registi hanno preso contatti con Cohen e gli hanno presentato il progetto insieme a una rassegna dei loro lavori. Tempo una settimana, Leonard aveva già dato la sua approvazione al progetto, pare anche per merito del libro di Light, già conosciuto e apprezzato dall’artista.
Secondo Grisar il film limita saggiamente il tempo dedicato alla diffusione planetaria del pezzo e alle sue innumerevoli cover (prima tra tutte quella di Jeff Buckley), per concentrarsi invece sulla storia di Cohen che sta dietro alla nascita della canzone. Per la gioia dei fan e seguendo un’impostazione classica, il documentario alterna interviste realizzate ad hoc ad altre d’archivio (come la chiacchierata tra Cohen e Richard Belzer), filmati di concerti (uno per tutti, la versione di Hallelujah eseguita da Bob Dylan solo dal vivo) a testi inediti come i quaderni in cui il poeta aveva scarabocchiato i versi mai entrati nel testo definitivo. Ed è proprio qui che si distinguerebbe la portata religiosa del processo creativo, con i passi in cui Cohen si domanda ad esempio se il primo verso debba dire semplicemente “David” o “Re David”. Vi risalterebbe la lotta per rendere la canzone più accessibile e la tensione tra il punto di vista biblico e quello secolare.
Tra i materiali più interessanti vi è poi il diario, mostrato velocemente e senza commenti, dove si leggono le quattro lettere del nome di Dio in ebraico affiancate a una pagina di testo che invoca angeli piangenti. Secondo Forward, questa sarebbe la metafora più potente del film per quanto riguarda il dialogo della canzone tra il sacro e l’umano.
Non mancano poi le foto del nonno paterno di Cohen, il talmudista di origine lituane Solomon Klonitsky-Kline, né le testimonianze di un suo amico d’infanzia, del suo rabbino e dei suoi collaboratori musicali. Tutti elementi che per Grisar spiegherebbero la miscela tra virilità e ricerca spirituale molto più della melodia della canzone, mostrandone l’ubiquità e forse persino il significato più profondo.
Secondo Larry “Ratso” Sloman, un giornalista che ha intervistato Cohen diverse volte nel corso degli anni, l’inclinazione del cantautore verso i soggetti ebraici sarebbe coincisa con il compimento dei 40 anni, epoca in cui gli uomini possono cominciare a studiare la Kabbalah, quando canzoni come Who By Fire, così ricche di elementi liturgici, avevano cominciato ad apparire nella discografia dell’artista canadese.
Dal documentario emergerebbe la figura di un uomo desideroso di essere compreso e profondamente colpito dall’insuccesso professionale di Various Positions, l’album del 1984 che conteneva Hallelujah e che la Columbia Records si era rifiutata di pubblicare. Le successive versioni dal vivo, spogliate dalle allusioni bibliche, sarebbero il frutto della delusione di Leonard, che con Sloman sosteneva che la parte su David «non era abbastanza diretta».
Lo stesso successo planetario, dovuto in buona parte alla versione dell’ex Velvet Underground John Cale nell’album tributo I’m Your Fan del 1991 e, soprattutto, a quella di Jeff Buckley in Grace, il suo album di debutto del 1994, sarebbe il frutto di un compromesso in cui a perderci è stato il valore spirituale e religioso originario. Ma mentre Alan Light in The Holy or the Broken riconosceva il merito dello sfortunato giovane interprete, tanto da affermare che se «Leonard aveva scritto Hallelujah, Jeff l’aveva fatta suo», su Forward il povero Buckley viene accusato di avere privato il pezzo della sua grandezza, ebraica e non solo, concentrando l’attenzione, soprattutto nelle esecuzioni dal vivo, sulla sua dimensione più terrena e sensuale.
Lo stesso documentario giungerebbe a questa conclusione, mostrando il brano come il risultato della maturità spirituale raggiunta all’epoca da Cohen. Questa stessa maturità sarebbe evidenziata nella foto di una menorah accanto a una campana buddista scattata nell’alloggio di Cohen presso il monastero di Mount Baldy, a 200 chilometri da Los Angeles. Nonostante una permanenza durata sei anni, dal 1993 al 1999 e l’adesione alle pratiche zen, anche in quella occasione l’artista aveva detto di non cercare una nuova religione né una conversione, dichiarando al mensile statunitense Details che la religione di famiglia già soddisfaceva tutti i suoi appetiti spirituali: «Non ho mai nuotato in altri oceani, sono nato e morirò ebreo».
Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.