Viaggio tra presente e passato sull’isola greca
L’espressione città fantasma difficilmente si associa all’allegria di un luogo battuto dai turisti, inondato dal sole e profumato dal mare. Eppure è difficile togliersela dalla mente mentre si visita Corfù pensando ai suoi trascorsi ebraici. Il capoluogo dell’omonima isola greca che ha ospitato ebrei per oltre otto secoli presenta oggi solo le tracce un po’ sbiadite di questa importantissima presenza passata.
Di una comunità che a inizio Novecento contava circa cinquemila unità su una popolazione complessiva di 25mila, mantenendone ancora duemila fino alla Seconda guerra mondiale, oggi si possono contare solo poche decine di anime. Eppure, quel sole di cui si diceva può ancora illuminarne la memoria, rimasta impressa nella disposizione e nella architettura delle case così come nella segnaletica delle strade. E, ovviamente, nell’unica sinagoga sopravvissuta. Lapidi, insegne e monumenti testimoniano discretamente una lunghissima storia in cui gli ebrei hanno giocato un ruolo importantissimo.
Partiti in sordina nel 1147, data in cui Benjamin di Tudela, visitando l’isola, incontrava un solo suo correligionario, il tintore Giuseppe, gli ebrei arrivarono in gran numero sotto gli Angioini, in parte emigrati volontariamente da Tebe o inviati dalla Sicilia da re Ruggero per introdurre la sericoltura, in parte portati qui con la forza. Entro il XIV secolo pare fossero riusciti a conquistare diversi diritti, tra cui documenti di protezione e l’esenzione da alcune tasse, ma la loro epoca d’oro sarebbe coincisa con il periodo di maggior sviluppo della città, nei quattro secoli cioè in cui Venezia ne aveva il dominio, dal 1386 al 1797. Ancora oggi, quello che più colpisce dell’architettura locale è opera dei veneziani, dalle due massicce fortezze in pietra che dominano la città vecchia, alle alte e strette case a più piani del centro storico, affacciate su un labirinto di strette vie lastricate.
Più ben disposti verso gli ebrei sull’isola che in Laguna, i veneziani traevano senz’altro vantaggio da questo popolo, che prestava loro denaro e riforniva l’esercito oltre a far prosperare l’economia generale operando in alcune delle attività più redditizie dell’epoca. Fondamentali nei rapporti con l’Oriente, gli ebrei esportavano cotone, sale, vino, olio d’oliva, tessuti e opere d’arte, oltre ai preziosissimi cedri coltivati sull’isola, gli etrog tanto ricercati dai loro correligionari per i riti di Sukkot. Tra i meriti della comunità ci sarebbe stato pure il finanziamento di opere pubbliche.
L’armonia non doveva comunque essere completa, soprattutto a causa delle difficoltà di convivenza con la popolazione locale, se nel 1406 fu loro vietato di acquisire terre e imposto un distintivo, mentre nel 1408 furono posti limiti sul possesso dei terreni di valore. Il loro stesso quartiere non piaceva. Gli ebrei abitavano inizialmente su Erisvouni (la Collina Ebraica), oggi conosciuta come Colle Campiello, ma quando dal 1425 si fece strada il progetto di abbattere le vecchie case e includere la zona nelle nuove fortificazioni, furono costretti ad abbandonare le loro abitazioni.
La dispersione della comunità e la vicinanza con i cristiani non piacque a questi che, già irritati dai privilegi concessi dal governo, intorno al 1524 scrissero a Venezia chiedendo che gli ebrei fossero confinati in un quartiere speciale. Sarebbe stato però più come risposta ad attacchi contro la comunità che per soddisfare le richieste dei cristiani che nel 1622 il Doge impose il trasferimento degli ebrei nel cosiddetto ghetto, istituito più a scopo di protezione che di confinamento. Posto vicino alle antiche fortificazioni, questo quartiere speciale ospitava tra l’altro anche diversi cristiani, nonché le loro chiese, e la notte, a differenza dei veri ghetti, non veniva chiuso.
Tra i diversi meriti riconosciuti alla comunità risalta l’eroismo dimostrato nell’aiutare l’isola a difendersi dai turchi nel 1716. Secondo quanto testimoniato dal generalissimo veneziano conte de Schulemburg, dal suo aiutante di campo e dal governatore generale di Venezia, il conte Loredan, gli ebrei di Corfù si distinsero per lealtà e coraggio nel combattere gli invasori, rendendo al governo i servizi più significativi. Già nel secolo precedente, comunque, gli ebrei isolani avevano ottenuto importanti diritti. Oltre alla professione di medico, praticata liberamente da sempre, a differenza dei loro correligionari di altri domini veneziani intorno a metà secolo i corfioti praticavano liberamente la professione di avvocato, mentre in quello successivo, in nome degli antichi privilegi, erano esonerati dal pagamento dei tributi imposti altrove.
Nel frattempo, anche la composizione della comunità era andata mutando. Nel XVI secolo, coesistevano a Corfù due congregazioni, quella dei romanioti, ossia degli ebrei greci, che conservavano l’antico rito bizantino, e quella degli italiani. Nel corso del tempo, e in particolare a seguito delle espulsioni dalla Penisola Iberica di fine Quattrocento, questa seconda comunità aveva accolto anche gli ebrei pugliesi (la comunità che poi avrebbe rappresentato la maggioranza), gli esuli spagnoli e portoghesi nonché diversi ashkenaziti, che finirono a loro volta con l’accogliere il rito sefardita.
A onor del vero va detto che i rapporti tra le due congregazioni non andarono sempre bene. La comunità romaniota godeva infatti di privilegi speciali e si opponeva alla concessione del diritto di residenza permanente agli italiani. Questo attrito non si sarebbe mai sanato del tutto, mantenendo le due parti separate fino alla Seconda guerra mondiale, con non sinagoghe e cimiteri distinti.
A proposito di sinagoghe, delle quattro esistenti prima del conflitto oggi ne è rimasta una sola, la Scuola Greca o Sinagoga Romaniota. La si può trovare superando Porta Reale e raggiungendo il civico 4 di via Velisariou, nel cuore del vecchio ghetto. Chiamato ancora oggi in greco Evraiki, l’antico quartiere speciale è delimitato a nord da via Solomou, a sud da via Voulgareos, a ovest da via Scholembourg e a est da via Palaiologou. Al numero 74 di questa strada, negli anni Novanta sono state riscoperte le colonne di una delle altre tre antiche sinagoghe, tutte appartenenti alla congregazione pugliese.
Risalente nel XVII secolo, il tempio romaniota si presenta come una struttura a due piani in stucco giallo con tetto a due falde. Come nelle sinagoghe veneziane, di cui ricalca anche lo stile architettonico, presenta la sala di preghiera al livello superiore, con una parte per le donne al piano rialzato, oggi non più accessibile. Tevah e aron ha kodesh sono in legno con un colonnato corinzio e sono posti l’uno di fronte all’altro, da ovest a est. Seguendo la tradizione condivisa da veneziani e greci, la Torah viene letta dal pulpito nella parte posteriore del santuario rettangolare, mentre le panche corrono longitudinalmente, in modo che i fedeli non debbano voltare le spalle all’Arca.
All’interno della sinagoga nel 2002 è stata posta una targa che riporta i nomi degli ebrei di Corfù deportati dai nazisti 58 anni prima. Sotto l’occupazione italiana, dall’aprile 1941 al settembre 1943, i circa 2000 ebrei di Corfù erano stati relativamente al sicuro, ma con l’invasione dei tedeschi le loro sorti furono drammaticamente segnate. Dopo gli appelli dell’aprile 1944 ai quali dovevano rispondere presso la Spianada, appena fuori dalla città vecchia, il 9 giugno, circa 1.800 persone furono portate a Kato Plateia (la piazza inferiore) e poi trattenuti nelle vicinanze nella Fortezza Vecchia, dove furono costretti a consegnare i loro oggetti di valore. Da lì al 17 giugno furono tutti trasferiti ad Atene e da lì ad Auschwitz, dove 1.600 furono immediatamente assassinati. Ai pochi rimasti si unirono a Corfù i sopravvissuti provenienti da altri luoghi, in totale 185 anime. Nel 1948 si contavano solo 125 ebrei e nel 1958 appena 85.
A memoria dell’Olocausto, lasciando via Salomou e arrivando in Plateia Neou Frouriou (piazza della Fortezza Nuova), nel 2001 è stato posto un monumento in bronzo. Realizzata dall’artista Georgios Karahalios, la scultura rappresenta un gruppo di nudi, una donna che culla un neonato e un bambino che cerca protezione posando il capo su uomo altrettanto indifeso. Voluto dalla città insieme alla comunità ebraica, il memoriale espone alla base una targa che recita “Mai più per nessuna nazione”.
Tornando alla Scuola Greca, sulla sua facciata è stata posta una lastra di marmo in cui si ricorda Albert Cohen, lo scrittore naturalizzato svizzero-francese nato a Corfù nel 1895. L’iscrizione ricorda che l’autore bambino mosse i primi passi proprio in quel quartiere, dove tra l’altro gli è anche stata intitolata una via parallela a quella della sinagoga, la Koen Alvertou. La storia dell’autore Belle du Seigneur è simile a quella di tanti altri ebrei che tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento furono costretti ad abbandonare le loro case per sfuggire agli attacchi della popolazione. Dopo l’unificazione con la Grecia nel 1864 e il successivo riconoscimento dei loro diritti (già in parte affermati dai francesi con la conquista di Napoleone del 1797), gli ebrei si videro per l’ennesima volta attaccati dai locali. Riprendendo la calunnia del sangue, orrida carta già giocata nel 1856, nel 1891 li si accusò nuovamente di omicidi rituali sottoponendoli a un pogrom che andò avanti per un mese. Per sfuggire al massacro, un quarto della comunità di Corfù fu costretta a emigrare in altri luoghi della Grecia e in Turchia, in Italia, in particolare a Trieste, in Egitto, ad Alessandria, e in Inghilterra.
Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.
Bell’articolo, grazie.
Ho approfondito anche io, da discendente, la storia degli Ebrei di Corfù, realizzando una presentazione sintetica.
https://prezi.com/p/edit/sdlg7u-gjmba/
Saluti,
G. R.