Quella degli ebrei patavini «è una storia di integrazione fortissima e continua, anche nei periodi più difficili: una comunità piccola ma “resiliente”, che dialoga con le istituzioni, il mondo della cultura e le altre autorità religiose
Padova non è stata certo scelta a caso come capofila della Giornata della Cultura Ebraica 2021. Sul fronte dei dialoghi, tema di quest’anno, la città veneta è sempre stata in prima fila, con una comunità da secoli impegnata in confronti costanti con i suoi concittadini. Del resto, come ha dichiarato la sua vicepresidente Gina Cavalieri in occasione della presentazione dell’evento, quella degli ebrei patavini «è una storia di integrazione fortissima e continua, anche nei periodi più difficili. La nostra è una comunità piccola ma “resiliente”, che dialoga con le istituzioni, il mondo della cultura e le altre autorità religiose».
Ottima quindi l’occasione offerta dalla Giornata (che in questo caso sono giornate, visto che si parla anche di martedì 12 e domenica 17) per approfondire alcuni degli aspetti di questa integrazione attraverso gli incontri in programma, ma anche per concedersi una passeggiata nei luoghi che hanno segnato la lunga storia degli ebrei a Padova.
Se il primo pensiero va all’ex ghetto, esempio purtroppo ineliminabile di un periodo comunque difficile della vita comunitaria, volendo seguire lo sviluppo della comunità è necessario uscire dal centro storico e avvicinarsi alle sponde del fiume Baccaglione, su quel ramo oggi noto come tronco maestro. Nel punto segnato dal Ponte San Leonardo, in zona Savonarola, si trovava uno dei primi insediamenti di ebrei, presenti in città, pare, fin dal XIII secolo. La zona disegnata dalle vie Savonarola, San Pietro, Campagnola, Wiel e Canal offre un’immersione in un tempo antico fatto di case basse in mattoni o allegramente dipinte come quelle di via Savonarola, con fascinosi portici e stradine lastricate. Si tratta di un quartiere residenziale lontano dai classici percorsi turistici se non per l’appuntamento che ogni domenica si rinnova proprio grazie alla comunità locale. Tramite il Museo della Padova Ebraica, infatti, è possibile accedere attraverso visite guidate al più antico dei cimiteri ebraici cittadini, quello di via Wiel (già Borgo Zodio), datato 1527. Accanto, nell’attigua via Campagnola, ce n’erano altri due, fondati nel 1653 e nel 1754, mentre nel 1820 ne fu fondato uno in quella che oggi è via Canal.
Le tombe conservate nel piccolo ma suggestivo cimitero di via Wiel offrono una prima, preziosissima testimonianza dell’importanza ricoperta dagli ebrei padovani. È qui, infatti, che si ammira la tomba di Meir Katzenelnbogen, il cosiddetto Ma ha-Ram di Padova, celebre talmudista considerato santo sulla cui lapide si riconosce il bassorilievo di una gatta (katze) accovacciata. Accanto, è stato sepolto suo figlio Samuel, pure lui rabbino talmudista. Nello stesso cimitero si trova anche la sepoltura di Asher Levi Meshullam, o Anselmo del Banco, banchiere padovano che nel 1510 diventò virtualmente il capo della comunità veneziana e che nel 1516 rappresentò la Comunità nel tentativo di dissuadere il Collegio dall’istituzione del ghetto. Altra lapide da segnalare è quella di Abram Catalan, medico padovano che durante la peste del 1630-31 fu incaricato assieme ad altri medici ebrei di vigilare sulle condizioni di vita nel ghetto, prendendo le misure necessarie per contenere il contagio. E di medici e medicina non si può non parlare quando si affronta il lato ebraico di Padova. Non a caso, l’appuntamento di martedì 12 presso il Museo della Padova Ebraica sarà proprio “Insieme per la cura: le religioni di fronte alla malattia”. Si prosegue così un dialogo che piace immaginare ininterrotto fin dall’epoca in cui l’antica Università di Padova iniziava ad accogliere tra i suoi studenti anche quelli di religione ebraica.
Siamo nel Cinquecento, e in città la comunità aveva già raggiunto una certa importanza, pare anche grazie alla politica di relativa apertura dei Carraresi, sostituiti dal 1405 dai Veneziani, a loro volta in qualche modo favorevoli alla presenza ebraica, pur fra mille e a volte drammatiche contraddizioni. A dirla tutta, fin dalla fondazione dell’Ateneo nel Duecento c’era stata notizia di proficue collaborazioni tra ebrei, studenti e docenti. E se è vero che per molti secoli i medici ebrei non avevano potuto prendere la laurea, questo non aveva impedito loro di esercitare. Né di offrire, in un dialogo fertile e preziosissimo, apporti fondamentali allo sviluppo della scienza, medica e non solo. Per fare solo un paio di esempi, già nel 1255 Bonacasa traduceva in latino i Principi generali di medicina di Averroè (1126-1198) con il titolo di Colliget, mentre nel 1480 giungeva a Padova da Candia il medico, filosofo e traduttore Elia del Medigo (1455-1492/3), ritenuto il più autorevole interprete israelita della filosofia aristotelico averroista del XV secolo in Italia, oltre che grande conoscitore dell’opera di Mosè Maimonide. Non va dimenticato poi che in città vissero, tra gli altri, personalità come Yehuda Mintz Ha-Levi (1405-1508), rabbino della comunità per 47 anni nonché talmudista che ebbe tra i suoi allievi anche molti nobili cristiani, e don Yitzhak Abrabanel, (1437-1508), celebre commentatore e poeta.
Tornando alle faccende accademiche, grazie a dispense papali e a bolle imperiali che aggiravano i divieti, anche prima che la cosa diventasse ufficiale non erano mancate le lauree agli studenti ebrei. Che comunque, nel Cinquecento, avrebbero ottenuto questo diritto a Padova prima che altrove. Il tutto non senza ingiuste vessazioni, che vanno purtroppo ricordate. Come la tassa da pagare alle corporazioni studentesche al momento della conclusione degli studi e, ben più odiosa, l’abitudine degli studenti cristiani di medicina di appropriarsi dei cadaveri presso i cimiteri ebrei per dissezionarli. Questo nonostante la Comunità pagasse una tassa per impedire l’abuso e la stessa Serenissima fosse intervenuta per limitarlo.
La presenza di tanti studenti, oltre che di commercianti e di prestatori, provenienti dal Nord Europa così come dall’Italia o dalla Spagna, giustifica il concentrarsi della comunità in zone più centrali rispetto a quella sopra indicata. Per avvicinarsi da una parte all’Università e dall’altra alle piazze adibite al mercato, i diversi gruppi ebraici si distribuirono tra la zona di Porta Altinate, dove abitavano gli italiani, e quella di San Canziano, dove si insediarono i tedeschi e gli spagnoli. Dopo la guerra della Lega di Cambrai contro la Repubblica Veneta e i conseguenti assedi dal 1509 al 1513, anche la comunità italiana si trasferì accanto alle altre, a ridosso cioè di Piazza delle Erbe. Quando nel 1603 giunse da Venezia l’ordine di istituire un ghetto, questa zona diventò l’unico luogo in cui gli ebrei di Padova potevano risiedere. Le sue quattro porte, rigorosamente chiuse la notte e controllate da una guardia cristiana e da una ebrea, si trovavano, a ovest e a est, alle due estremità dell’attuale via San Martino e Solferino, a nord all’imbocco di via delle Piazze, accanto alla chiesa di San Canziano, e a sud in via dell’Arco all’angolo con via Marsala.
La visita a quello che un tempo era stato un luogo di costrizione e che oggi è uno dei quartieri più allegri e affascinanti del centro storico inizia pochi metri dopo lo stretto imbocco di via San Martino e Solferino da via Roma, dove fino al 1797 si trovava la porta di levante. Percorsi pochi metri sotto i portici e lungo la stradina lastricata, svoltando a destra su via delle Piazze si giunge velocemente al primo dei luoghi storici del ghetto, ossia a quella che era la cosiddetta Sinagoga Grande, di rito tedesco. Il palazzo è facilmente riconoscibile perché è dipinto di un bel rosso acceso, ma anche perché sul portone del civico 26 si trova una iscrizione in ebraico che segnala l’indirizzo come Beth Tefilah, Casa della Preghiera.
Ora sede del Museo della Padova Ebraica, inaugurato nel 2015 e visitabile la domenica o su prenotazione negli altri giorni tranne il sabato, questo palazzo a partire dal 1525 aveva ospitato una delle tre sinagoghe del quartiere, inizialmente al pian terreno e in seguito a quello superiore. Ancora oggi, guardando in alto al primo piano, vi si distingue una sporgenza al centro delle quattro grandi finestre nell’ala di sinistra. Si tratta della parte interna dell’aron della Sinagoga Tedesca, inaugurata 1682. Quando nel 1892, nel pieno del periodo d’oro della comunità padovana, i riti furono unificati, la Sinagoga Spagnola e quella Italiana furono chiuse per confluire in questa, che iniziò a seguire il rito italiano. Questo, almeno, fino al 14 maggio del 1943, data in cui i fascisti la incendiarono, distruggendo non solo la sala di preghiera ma anche gran parte dell’edificio, che sarebbe stato restaurato solo nel 1998.
Tornati su via San Martino e Solferino e percorso qualche metro, guardando in alto sulla sinistra sarà facile notare al primo piano un loggiato cinquecentesco con tre alte finestre protette da grate e incorniciate da graziose colonnine bianche. Sotto, una lapide ricorda gli ebrei europei, italiani e padovani vittime delle deportazioni nella seconda guerra mondiale. Ai tempi del ghetto, questo edificio già ospitava la Sinagoga Italiana, fondata nel 1548 e chiusa a fine Ottocento, come si è visto, a favore di quella Tedesca. Quando però quest’ultima fu distrutta, si riaprì l’antico luogo di preghiera, che attualmente è anche l’unico ancora attivo per i duecento membri della comunità patavina. Nella sala di preghiera, a metà del lato lungo, si ammira l’aron, chiuso da ante in legno scolpito e dorato e incorniciato da una struttura a edicola con colonne marmoree. Lo fronteggia la tevah a baldacchino, che si dice essere stata costruita con il legno di un platano dell’orto botanico abbattuto cinque secoli fa da un fulmine. Così come per il cimitero di via Wiel, anche per visitare la Sinagoga Italiana si può fare riferimento al Museo, che mette a disposizione una guida su prenotazione.
Restando invece sulla via e dando le spalle all’ingresso del Tempio, è possibile individuare quanto resta del terzo luogo di preghiera del ghetto, la Sinagoga Spagnola. Per distinguerne le antiche finestre è necessario volgere lo sguardo in alto sulla sinistra, al terzo piano, dove è visibile un piccolo loggiato con sei colonnine bianche e sottili. Di rito sefardita, era stata fatta costruire dall’importante famiglia dei Marini per poi essere chiusa al culto nel 1892 e diventare quindi un’abitazione privata.
Il percorso su via San Martino e Solferino prosegue fino all’altezza di via dell’Arco. Prendendo questa stretta via si giunge velocemente al luogo di un’altra delle porte dell’ex ghetto, quella in prossimità di via Marsala. Restando invece sullo slargo dell’incrocio, si possono notare le quattro colonne dai capitelli tutti diversi del porticato, probabilmente costruito all’epoca dell’edificazione del ghetto con materiale di recupero. All’imbocco di via dell’Arco si trova un hotel, il Majestic Toscanelli, dove un tempo si ritiene avesse sede la prestigiosa Accademia Rabbinica.
Sempre sulla via principale, tra il civico 16 e il 20, si può provare ad accedere a un gioiello nascosto della città, la Corte Lenguazza o dei Lenguazzi. Bisogna avere un po’ di fortuna nel trovare il cancello aperto, ma nel caso meglio non perdere l’occasione di intrufolarsi dentro. All’epoca del ghetto, questo era uno dei punti principali della vita cittadina, sede tra gli altri del forno per le azzime e del macellaio. In un fascinoso pot-pourri di stili architettonici sovrapposti, vi si individua un antico portico sovrastato da una terrazza. Da una scritta appena leggibile su uno stemma posto su una porta ad arco risulta che qui vivesse Mosè Trieste, importante industriale della seta attivo nel Settecento. Davanti alla sua casa si trovava l’ingresso della Sinagoga Tedesca, la stessa riconosciuta all’inizio del percorso e che un tempo aveva l’entrata proprio qui, sul lato opposto. Sul portale si legge la stessa scritta già vista sulla via, ossia Casa della Preghiera. Sempre all’interno della corte si riconoscono in terra delle finestre con grate che pare dessero luce alle cantine. Qui sarebbero stati anche ritrovati i resti di una vasca rituale.
Tornando sulla strada principale e proseguendo fino al numero 38, si raggiunge Palazzo Palla Strozzi, nel Quattrocento di proprietà di un esule fiorentino i cui garzoni avevano il banco su piazza delle Erbe. Si dice che dal balconcino posto sopra una delle colonne del porticato, esattamente allineato con via dei Fabbri che sbuca appunto sulla piazza, l’uomo potesse agevolmente controllare i suoi dipendenti… Dopo questa nota di folclore non resta che concludere l’itinerario regalandosi una sosta nella attigua Piazzetta del Ghetto. Considerata una delle più belle del centro storico, offre la possibilità di sedersi a un tavolino circondati da portici, loggiati e palazzi con ancora tantissima storia da raccontare e complessi dialoghi da proseguire.
Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.