Il fascismo storico, e con esso i neofascismi, puntano alla cancellazione della politica come luogo di conflitto mediato, di confronto legittimo, sostituendo a tutto ciò l’imposizione, per via di fatto, della propria volontà
Un vecchio e diffuso adagio popolare afferma che la lingua batte laddove il dente duole. A giudicare dai fatti di questi ultimi giorni (assalto neofascista alla sede nazionale della Cgil a Roma, le frasi equivoche del candidato sindaco del centro-destra per la capitale, lo scambio polemico tra i partiti sulla permanenza o il ritorno delle ombre fasciste, l’enfasi complottista che attraversa una parte della società italiana e così via) parrebbe non solo che la lingua sia molto vivace ma che il dente faccia particolarmente male.
In genere, quando si parla di «fascismo», parola che in Italia ha una forte capacità di evocazione dei trascorsi storici – richiamando il ventennio di Mussolini, l’antisemitismo di Stato, la guerra, lo sfacelo istituzionale e sociale ma anche la reazione collettiva ad un tale stato di cose – si registrano due reazioni contrastanti. La prima è quella del rifiuto del termine in quanto tale, argomentato declinato sulla base del presupposto che il fascismo sarebbe una sorta di vestigia del passato, un rudere ideologico che viene citato a sproposito solo per coprire le inadempienze del presente. Una sorta di pretesto, quindi. La seconda rimanda invece ad una sorta di atteggiamento simmetricamente opposto, per il quale il fascismo sarebbe un po’ ovunque, costituendo non solo una concreta minaccia ma anche il vero ed esclusivo orizzonte del nostro Paese, destinato come tale a rimanere incatenato ad un passato che non passa.
Significativo che ad aderire alla prima reazione (il fascismo è trascorso una volta per sempre) siano soprattutto gli esponenti di una destra che invece non nasconde per nulla la sua irrisolta attrazione per l’illiberalismo di allora e di oggi, rivelando una congenita incapacità di riconoscersi appieno, quindi senza coni d’ombra, nella cultura politica, sociale e civile costituzionale. Su quanto la pregiudiziale filofascista pesi ai tempi nostri su una parte dello spettro politico, che non solo non è riuscito ma – soprattutto – non ha mai voluto fare i conti con quel passato, si potrebbero scrivere infiniti trattati. Poiché mentre la rilevanza delle organizzazioni dichiaratamente neofasciste è contenuta, invece per nulla residua è l’area che, attraverso l’ambiguità di fondo verso il deposito del passato, solletica gli elettori e i consensi, quasi a volere lasciare intendere che la democrazia medesima non sia per nulla un orizzonte tangibile incontrovertibile e, pertanto, indiscutibile.
A tale riguardo, una frase che è spesso ripetuta è quella per cui si sarebbe «dalla parte degli ebrei» (per capirci, quale? Ne esiste forse una e, in caso affermativo, richiederebbe una qualche manifestazione di filosemitismo? Se sì, di quale genere?) perché già si è espressa la propria solidarietà per Israele. Quanto possa essere invece equivoco un tale atteggiamento se ne incaricano di dimostrarlo i fatti. Che per essere compresi richiedono un minimo di verifica logica. In quanto se Israele è una creazione ebraica, gli ebraismi non si risolvono in essa. Non sussiste una correlazione auto-assolutoria tra manifestazioni di simpatia per Gerusalemme (il popolo israeliano, per capirci) e i molteplici atteggiamenti, ripetuti nel tempo, verso gli ebrei (il popolo d’Israele). Una collettività diasporica è comunque popolo: contempla quindi anche uno Stato (Israele, per l’appunto) ma non si risolve in quest’ultimo. Soprattutto, a tale riguardo continua ad inquietare l’ambigua coesistenza di condiscendenza verso Israele (una realtà molto più spesso immaginata e idealizzata, quindi fraintesa, che non concretamente compresa) e il riemergere, con un moto carsico, di irrisolti pregiudizi. I quali, beninteso, non necessitano di rimandare alle più becere credenze per manifestarsi nella loro deflagrante potenza.
Le strade del pregiudizio antisemita sono a volte lastricate di buone intenzioni. Se così le si intende chiamare. Le quali si nutrono prima di tutto dei luoghi comuni che una diffusa vulgata populista e identitaria alimenta a piè sospinto, pressoché ogni giorno. L’antisemitismo odierno si nutre ed avvalora assai di più dei cliché quotidiani, del «che male c’è a dire certe cose?» – quindi delle presuntuose sintesi storiche che si credono espressione di scienza e coscienza – che non delle dichiarazioni di principio. Il grigio pesa più del nero, per capirci. Oggi, in Italia ed in parte dell’Europa, dichiararsi «contro gli ebrei» implica infatti l’essere esclusi, almeno temporaneamente, da un qualche girone della politica. Mentre ripetere ossessivamente i tanti stereotipi che corroborano il pregiudizio (ebrei, denaro e banche; ebrei e potere; ebrei e tradimento; ebrei e cospirazione; ebrei e degenerazione oltre a molto altro, magari chiosando con un ambiguo «quanto sono forti!»), attraverso il maniacale accostamento di persone a situazioni e cose, è molto meno pericoloso. Anzi, può risultare premiante, soprattutto se ci si rivolge ad un uditorio, fatto anche e soprattutto di elettori, che vuole essere confortato nelle sue intime convinzioni, inscalfibili poiché basate sulla cristallizzazione di poco ed oscure idee. Sia chiaro una volta per sempre, al riguardo: non è pregiudizio solo un convincimento negativo rispetto ad un gruppo di persone ma il fatto stesso che qualsivoglia insieme di individui possa essere letto alla luce non dei concreti comportamenti dei singoli bensì solo sulla base di un giudizio di valore precostituito che, come tale, coinvolge tutti, prescindendo dagli individui.
Se qualcuno ha detto, non a torto, che in una parte della sinistra estrema gli unici ebrei che piacciono «senza se e senza ma» sono quelli già morti, i martiri, quindi coloro che si sono innocentemente sacrificati, santificando le ricorrenze come il Giorno della Memoria, salvo poi rigettare buona parte del resto, si può a ciò corredare il riscontro che in certa destra illiberale l’unico ebraismo che risulti convincente è quello che da essa stessa viene erroneamente letto come manifestazione di potenza, se non addirittura di prevaricazione. L’interpretazione di Israele è purtroppo spesso declinata in tale modo. Del tutto fuorviante. In una sorta di non troppo sorprendente adesione ai costrutti dei propri medesimi pregiudizi, poiché ciò che il razzista ed il pregiudizioso di ogni genere e risma nutrono per se stessi non è solo il rifiuto di quanto ritengono una minaccia esistenziale ma l’irrisarcibile invidia nei confronti di chi idealizzano come “superiore”, quindi come oggetto dei loro stessi desideri. Mentre l’«eterno ebreo» rimane per definizione sempre il medesimo parassita («si sa come sono fatti, non cambiano mai»: le banche, il denaro, l’apolidia, la potenza al servizio di un complotto, il potere come manipolazione), una certa immagine, del tutto falsificata, d’Israele capovolge invece i termini della questione, non per salvare gli ebrei e l’ebraismo ma per annullare gli uni e l’altro dentro una visione mistificata, quella che esalta la sopraffazione come una sorta di virtù. I «giudei» infidi e manipolatori vengono così sostituiti dagli israeliani «dominatori». Un simbologismo deleterio ma in linea con il comune sentire di quella parte delle nostre società che aborre le mediazioni, sostituendo ad esse il virilismo muscolare del sopruso sistematico.
Non apprezzano quindi Israele in quanto manifestazione storica dell’ebraismo ma l’estinzione della «questione ebraica» in ciò che leggono come una politica di potenza, tale poiché capace di imporsi contro qualcosa e su qualcuno. Se il becero antisionista – quindi – raglia come un asino beota sull’intercambiabilità tra nazismo e sionismo (poiché il secondo starebbe facendo ai palestinesi quanto il primo aveva per davvero fatto agli ebrei), l’idiota razzista conciona di come si possa essere al medesimo tempo ebrei e prevaricatori, riconoscendosi nel secondo termine di un tale binomio e risolvendo in esso il senso del primo. Non apprezza Israele come nazione tra le nazioni ma in quanto presunto manganello da dare in testa a qualcuno. Possibilmente agli «arabi», oggi sostituiti dai «musulmani», due categorie in questo caso astratte e irreali al pari di quella stessa che demanda agli «ebrei», come se da ciò derivasse un’unità sociologica, culturale e civile invece del tutto inesistente. Sono temi delicati e pieni di trappole, aperti ad infinti fraintendimenti e ad interessate manipolazioni. Tuttavia, in piena franchezza, tanto più dinanzi alla decadenza della capacità di un minimo di analisi critica alla quale stiamo assistendo, richiedono di essere affrontati. Posto anche il riscontro che una qualche tentazione fascista, in Italia come in Europa, mai è venuta meno. Benché le democrazie si siano manifestate come molto più forti.
Veniamo quindi ad un secondo corno del problema. Se si parla di fascismo, oggi, cercando di evitare bislacchi e anacronistici rimandi al passato, a cosa concretamente ci si riferisce? Facciamo un ragionamento politico, senza per questo avere paura dello stesso rimando alla «politica», come se invece fosse in sé cosa sporca a prescindere.
L’Italia è una Repubblica democratica, costituzionale e antifascista. Le tre cose si tengono insieme. Ma non ci restituiscono il reale quadro del nostro Paese. Come infatti rileva il filosofo del diritto Mario Ricciardi: «nonostante i crimini di cui si era macchiato, il fascismo aveva avuto fino alla fine una base di consenso che era fatta non solo di fanatici, ma anche di una “zona grigia” difficile da quantificare, fatta di persone che erano disposte a riconoscere qualche merito sia al regime sia alla classe dirigente che lo aveva guidato per un ventennio. Distinguo, tentativi di minimizzare e di scusare, anche se confutati dalla ricerca storiografica, emergono sin dai primi anni di vita della Repubblica, in parte alimentati anche dal nuovo clima della Guerra fredda. Esemplare, sotto questo profilo, l’atteggiamento di giornalisti e intellettuali che avevano un grande seguito come Leo Longanesi, Indro Montanelli e persino Ennio Flaiano. La Repubblica insomma nasce dall’antifascismo, ma sin dall’inizio tollera un anti-antifascismo che è tutt’altro che marginale nella cultura italiana, anche se è in qualche misura tenuto sotto controllo dalle forze politiche principali. In un contesto del genere, non è sorprendente che la disposizione XII [della Costituzione, che vieta la ricostituzione del partito fascista] sia convissuta, non sempre senza tensioni, con la presenza di forze politiche che si richiamavano in qualche modo all’eredità del fascismo. La più numerosa delle quali, il Movimento sociale italiano, aveva una significativa presenza in Parlamento».
Ed ancora: «la consapevolezza di questa intrinseca debolezza dell’antifascismo come cultura repubblicana era ben presente alla classe dirigente della Prima repubblica. […] Con il passare del tempo, e in modo più marcato dopo la fine della Guerra fredda, le tensioni che avevano accompagnato questa ambiguità di fondo della democrazia italiana si attenuano, anche per via dell’uscita di scena delle generazioni che del fascismo, della guerra e della ricostruzione avevano memoria diretta. […] Così arriviamo ad oggi. Più di dieci anni di crisi ci consegnano un Paese diviso, scontento, in cui tensioni e conflitti sociali che ci eravamo illusi di aver definitivamente consegnato al passato riemergono con forza sempre più preoccupante. In questo contesto la nuova-vecchia destra, che non ha mai sciolto del tutto il suo ambiguo legame col passato, trova un ambiente fertile, e prospera. Questioni identitarie, paura per il futuro, richiesta di protezione trovano espressione nel linguaggio del nazionalismo (che era stato culturalmente uno dei formanti del fascismo). Gli estremisti, che si sono organizzati in formazioni come Forza Nuova o Casa Pound […] diventano sempre più arroganti. Si compiacciono di una nuova popolarità e della benevola tolleranza di chi non vuol sentir parlare del passato, e cercano visibilità».
Bene, detto tutto questo, che cosa possiamo raccontarci di quei giorni, così tumultuosi, che sono appena trascorsi? Quale analisi possiamo quindi fare? Forse qualche punto fermo va pure messo nero su bianco. Il primo di essi, allora, è quello per cui non ha alcun fondamento storico, ed ancora meno politico, preconizzare e richiamarsi al «ritorno del fascismo» in quanto tale. Ciò almeno per due ordini di motivi: un fenomeno storico non si ripete mai nel medesimo modo; soprattutto, non si può parlare del ritorno di qualcosa che non se ne è mai andato via del tutto dalla società italiana, neanche con la frattura epocale del 1945. Infatti, non ritorna ciò che non si mai esaurito: piuttosto, si manifesta in nuove forme, che vanno indagate e identificate. Mussolini e i suoi hanno lasciato un lungo calco nella società italiana, una fenditura mai cicatrizzata, da dove i loro apologeti di oggi cercano di riconquistare spazio e forza.
Semmai, ed è il secondo passaggio critico, ha quindi senso parlare di rigenerazione di motivi e atteggiamenti fascistici. Non si tratta di ideologia ma di senso comune. La soglia più pericolosa, superata la quale il rischio collettivo si fa stringente, è quella dell’assimilazione e dell’utilizzo di tali motivi nell’azione di gruppi, partiti e organizzazioni che aspirano ad influenzare le istituzioni e le loro scelte di lungo periodo.
Peraltro, ed è il terzo elemento, i conflitti sociali del presente hanno una natura e delle dinamiche molte diverse da quelle di cent’anni fa. Oggi, la grande frattura che attraversa le nostre società, è tra quella parte della popolazione che gode delle garanzie offerte dal lavoro regolare, e quindi di un sistema di tutele collettive e, chi, invece, ne è escluso o se ne sente tale. L’azione del radicalismo di destra è volta a cercare di raccogliere questi ultimi, ancora una volta – come già era accaduto dopo la fine della Prima guerra mondiale – assumendo le false vesti di rappresentante del disagio dei tanti. Sovranismo, populismo, identitarismo come altri fenomeni politici, tra di loro anche molto diversi, non sempre riconducibili ad un’unica radice, condividono tuttavia una comune matrice antidemocratica, che cerca di avvantaggiarsi della difficile situazione corrente.
Questa matrice – quarto passaggio – è legata essenzialmente a pochi aspetti, come tali però fondamentali: la teorizzazione dell’idea di nazione come di un’identità etnica rigida e immodificabile; l’accusa, rivolta a chiunque non sia riconosciuto come parte di questa «identità» comune, di costituire una minaccia per il fatto stesso di esistere; la visione dei rapporti di potere come del risultato non delle diseguaglianze sociali ed economiche, contro le quali lottare, bensì del dispiegarsi di un complotto da parte di oscure élite che, dietro le quinte, si adopererebbero contro il «popolo»; uno stile di comunicazione demagogico che, fingendo di volere fare gli interessi collettivi, in realtà tutela solo piccoli gruppi di interesse; l’avversione per ogni forma di pluralismo – non solo politico ma anche sociale, culturale, civile, sessuale e di genere – e la diffidenza, che si fa quindi rifiuto, contro la democrazia rappresentativa, alla quale viene contrapposta una falsa «democrazia diretta». Più in generale, la sintesi di tutti questi motivi si trova nella rivendicazione della legittimità dell’essere disumani, ossia ferocemente intolleranti, contro coloro e quanto, di volta in volta, sono additati come un pericolo per la sopravvivenza del proprio gruppo. L’antisemitismo di ritorno si inserisce in una tale novero. Parla di «nazione» ma, al pari di ogni fondamentalismo, richiama quell’emozione basica che è la paura.
Anche da ciò deriva quindi, ed è la quinta riflessione, che la funzione principale dei gruppi neofascisti, oltre a fidelizzare, mobilitare e motivare i propri militanti ed aderenti, è quella di legittimare, nel linguaggio di senso comune così come nella condotta dei molti, atteggiamenti, pensieri, parole e gesti che altrimenti rimarrebbero censurabili o comunque consegnati a piccoli ed ininfluenti gruppi di nicchia. Si tratta del cosiddetto «sdoganamento» dell’impensabile. Il ricorso al razzismo ha quindi questa funzione: attaccare le minoranze, additandole come una minaccia integrale verso la collettività, per rendere quest’ultima più disponibile e malleabile nell’accettare le imposizioni che, di volta in volta, potrebbero esserle dettate. Parlare di “sicurezza”, così come avviene nella destra populista e sovranista, ha come posta la secca limitazione delle libertà collettive, imponendo la paura come strumento di governo delle società.
Peraltro, il vero conflitto, al giorno d’oggi, non si gioca tanto (o solo) sul piano politico: lo scontro è semmai tra una concezione della società che sia e rimanga aperta e pluralista, come tale in grado di soddisfare concretamente i bisogni di tutti i suoi componenti – tornando a porre in discussione le crescenti diseguaglianze materiali e culturali – e una pratica destinata a ridurre sempre di più gli spazi di autonomia, di emancipazione, di giustizia e quindi di liberazione delle persone.
Ne consegue, infine che il fascismo storico, e con esso i neofascismi, condividono con ogni forma di autoritarismo la cancellazione della politica come luogo e sfera di conflitto mediato, di dibattito articolato, di confronto legittimo, sostituendo a tutto ciò l’imposizione, per via di fatto (ossia per rapporto di forza), della propria volontà. Storicamente, i fascismi del passato, al pari di quelli del presente, si manifestano come espressione di una non meglio identificata «volontà popolare»; parlano di «rivoluzione», richiamando improbabili se non impossibili rivolgimenti; stuzzicano il bisogno di protezione dinanzi a quelle stesse angosce che hanno alimentato. I fascismi di sempre, tuttavia, non sono un “di più di politica” bensì la sua cancellazione davanti alla potente violenza dell’imposizione di alcuni interessi di gruppo, mascherati come bisogni collettivi. Il loro appello è sempre ad un “senso comune”, ovvero ad un identico sentire fondato sull’inquietudine da “invasione”, ossia sul timore di essere espropriati di qualcosa, che è anche e soprattutto paura di essere liberi, laddove ciò comporta anche e soprattutto il senso della responsabilità che ognuno di noi dovrebbe nutrire nei confronti dei suoi simili.
Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.