Il racconto personale da parte di una delle 200 persone che hanno partecipato alla performance del fotografo per sostenere il museo del “mare salato”
La sensazione di “nudità” è cominciata prima di andare a letto: scoprire segni inaspettati sul proprio corpo, come quelli lasciati dall’abbronzatura su un polso o sull’anulare, che non hanno visto il sole per anni.
Nella dettagliata mail ricevuta il giorno prima da tutti i partecipanti all’istallazione di Spencer Tunick sul Mar Morto, era scritto, infatti, di lasciare a casa ogni gioiello – dalla fede, alla catenina, all’orologio -perché per partecipare a questa opera d’arte era necessario essere tutti, interamente, nudi.
Il ricavato delle immagini scattate dal grande artista newyorkese verrà interamente devoluto alla costruzione del Museo Del Mar Morto, a cura di Ari Leon Fruchter e progettato dagli architetti israeliani Sharon Neuman e Iftah Hayner.
La location – sia per il museo che per gli scatti – sono le colline di Arad, piccola cittadina israeliana costruita ai piedi del deserto del Negev e con una splendida vista sul Mar Morto. Se non fosse che, la superficie del mare più profondo – e più salato – del mondo, non fa che diminuire di anno in anno.
Per questo Tunick, giunto per la prima volta in Israele dieci anni fa, proprio per una performance sul “mare salato” – come lo chiamano gli israeliani – ha deciso, a distanza di un decennio, di tornare sullo stesso posto per mostrare il delicato equilibrio di questo ecosistema in pericolo, cercando, attraverso la sua opera e la successiva costruzione del Museo, di portare l’attenzione internazionale su questo luogo davvero unico al mondo.
Domenica 17 ottobre alle 10.00 del mattino tre autobus sono partiti da Tel Aviv e due da Gerusalemme – oltre a chi è arrivato per conto suo proprio dal deserto – per un totale di 200 persone, di ogni età, genere e origine, disposti a posare, completamente nudi, per la nobile causa.
Giunti alla location verso le 13.00, Tunick ci aspettava, carico di entusiasmo, professionalità e senso dell’umorismo, per scattare nel pomeriggio quattro foto, in quattro punti diversi e con quattro esposizioni diverse alla luce del sole, poco prima che tramontasse.
Per farlo, lui e il suo staff ci hanno dato, per una buona ora, una serie di dettagliate – e cruciali – indicazioni tecniche: da come indossare – per poi nascondere – le ciabatte protettive con cui scalare le appuntite rocce desertiche, a come cospergerci la pelle – subito dopo esserci spogliati – con una speciale crema bianca in modo da trasformarci tutti in “statue di sale”, come il materiale che ha creato questo luogo magico.
E magicamente i nostri corpi bianchi sono diventati un corpo unico e la sensazione di pudore e’ completante svanita. Siamo diventati tutti, allo stesso tempo, opere d’arte e artisti, come ha dichiarato lo stesso Tunick: “Questo lavoro non sarebbe stato possibile senza la vostra collaborazione. Tutti voi, assieme, siete non solo l’opera d’arte, ma anche gli artisti. Il nostro sarà un lavoro di squadra”.
E così è stato. Grazie alla precisione del fotografo e di tutto il suo team, pronti a ridipingere il lobo di un orecchio lasciato scoperto e a spostarci anche solo di 5 cm – prima avanti, poi indietro, prima un po’ più a sinistra e poi un po’ più a destra – fino a raggiungere il perfetto equilibrio tra le statue umane e l’incredibile paesaggio alle nostre spalle.
Ogni scatto, per l’intera durata del processo, è stato un po’ come trovarsi a meditare, tutti assieme, nella cornice del deserto del Negev.
Fino al calar del sole, quando i nostri autobus sono ripartiti e tutti e 200, bianchi come il sale, siamo ritornati alle nostre destinazioni, alle nostre case, alle nostre docce, ai nostri letti, puliti e pronti a riindosare i cimeli di famiglia.
Ma per 24 ore, indimenticabili, ciascuno di noi è stato solo se stesso e un tassello – fondamentale – per rendere possibile questo progetto.
Grazie, Spencer!
Che meravigliosa iniziativa
Originale ..anzi unica.
Lodevole e credo pure divertente..