La prova della diffusione di questa pietanza presso le comunità ebraiche ashkenazite dell’epoca è la menzione che ne fa il rabbino Meir ben Baruch di Rothenburg, vissuto in Baviera tra il 1215 e il 1293.
Così come intorno a un tavolo imbandito si possono riunire commensali dalle idee e le esperienze più diverse, in uno scambio reciproco che delizia lo spirito insieme al palato, così anche la cucina si nutre di influenze spesso lontane e differenti. A volte così distanti nello spazio e nel tempo che è quasi impossibile identificarne le origini.
Nella storia di alcuni piatti iconici non può che essere andata così. Uno dei casi più eclatanti è quello degli gnocchi. Chi li ha inventati? E soprattutto, che cosa intendiamo per gnocchi? Con questo termine, traducibile in inglese con dumpling che lo priva però della connotazione caratteristica italiana (un po’ come avviene quando si contrappone il riso al risotto…), si indicano genericamente tocchetti di impasto bolliti in acqua o brodo. Dalla forma arrotondata e schiacciata al centro, sono preparati prevalentemente con patate lessate e mescolate con farina, uova ed eventualmente formaggi. In alcuni casi, i latticini diventano protagonisti a spese dei tuberi, in certi altri a farla da padrona è la farina. In questo modo, ci si ricongiunge da una parte alle origini e dall’altra ci si proietta verso la tappa successiva, quella della pasta. Che confusione! Se poi volessimo completare e insieme complicare le cose, perché non parlare degli gnocchi di pane? In fondo anche loro hanno diritto a questo nome, così come quelli di semolino o di mais…
Meglio cercare un ordine nella linea del tempo. Si scopre così che gli gnocchi sono citati in Italia per la prima volta in testi del XIII secolo, che vi sono giunti grazie ai contatti con i popoli mediorientali e che inizialmente hanno la nobilissima funzione di riutilizzare gli avanzi in un composto a base di pane. Gli stessi maccheroni dell’epoca medievale altro non sarebbero che gnocchi di pane bolliti in stufati e minestre. Con il Rinascimento il pane sarà sostituito con la semola, dando vita in seguito alla pasta come la conosciamo oggi (o quasi), unico significato ormai attribuito alla parola maccherone.
Tornando agli gnocchi propriamente detti, il loro composto di base comprenderà presto gli ingredienti più diversi. E se da una parte la scoperta dell’America regalerà secoli dopo quella meraviglia che è la patata, dall’altra la presenza di vivaci comunità ebraiche in Italia arricchirà anche la cucina locale di nuove idee. Gli gnocchi di patate cominciano infatti a diffondersi solo nell’Ottocento, mentre quelli di ricotta si sviluppano ben prima. Parliamo di quelli che ancora oggi sono noti in Toscana come gnudi, in Lombardia come malfatti o in Trentino, con l’aggiunta del pangrattato, come strangolapreti. Si tratta di gnocchi dalla forma rotonda o allungata, preparati con ricotta, uova, poca farina e biete o spinaci bolliti e tritati. Nel caso degli gnudi la loro paternità viene reclamata da diversi luoghi della Toscana, da Firenze alla Maremma. Secondo lo storico del cibo statunitense Gill Marks piatti simili si sarebbero affermati nei ricettari regionali italiani anche grazie all’influenza degli ebrei, una teoria più che plausibile, vista l’importanza ricoperta delle comunità ebraiche toscane in epoca rinascimentale, in particolare nella zona di Pitigliano.
Lasciando da parte la ricotta e tornando alla semola, ci sarebbe un’altra preparazione, sempre ascrivibile alla grande famiglia degli gnocchi, che mostra quanto fossero fertili i contatti tra italiani ed ebrei nel Rinascimento, in questo caso nell’Italia settentrionale. Si entra qui nel campo delle preparazioni in brodo. Siamo in Lombardia e in un manoscritto del XV secolo di Maestro Martino da Como, considerato il Leonardo da Vinci della cucina, si parla di un piatto chiamato minestra di bocconcini o di zanzarelli. Diffuso inizialmente nei banchetti delle corti rinascimentali, da un lato ricorda nel procedimento i passatelli, dall’altra impiega il pane grattugiato impastato con latte, uova e farina di mandorle. Questi ultimi due ingredienti sono anche i protagonisti della minestra di kneidelach, preparazione di chiara origine ashkenazita che richiama a sua volta i knodel (o canederli). Il dettaglio che dimostra una volta di più i legami tra le cucine è la presenza nell’impasto delle mandorle, ancora oggi presenti in diverse versioni degli gnocchi di azzime ebraici, e dello zafferano. Usata per impreziosire il brodo di pollo, questa spezia era impiegata nello stesso periodo anche nell’alta cucina rinascimentale dei gentili, che a quanto pare condividevano con le cucine ebraiche anche piccole astuzie come questa.
Passando agli altri paesi, e quindi abbracciando nel discorso tutto quello che può essere definito una pallina di impasto cotto a fuoco lento o a vapore, di gnocchi, knodel, dumpling o quenelle sono piene le cucine di mezzo se non tutto il mondo. Nati si pensa in Cina come molti dei cibi oggi diffusi in Occidente, quelli che per comodità continueremo a chiamare gnocchi hanno diviso per gran parte della storia i sefarditi dai mizrahim e, soprattutto, dagli ashkenaziti. Mentre infatti presso le comunità ebraiche persiane, curde e georgiane questa pietanza era molto nota e apprezzata anche se riservata alle sole occasioni di festa, tra spagnoli e portoghesi essa non conosceva quasi nessuna diffusione. La spiegazione si troverebbe nella disponibilità di grano duro e olio, che spingeva verso preparazioni fritte piuttosto che su quelle bollite.
Se guardiamo invece all’Europa centrale e orientale, si apre un mondo in cui gli gnocchi sono i protagonisti delle occasioni più diverse, dai pranzi della festa a quelli dei giorni feriali. Perché la pratica apparentemente banale di bollire pezzetti di impasto si affermasse un po’ ovunque, però, avevano dovuto succedere un po’ di cose. E per vedere i primi gnocchi in Europa si era dovuto aspettare le Crociate. È a seguito di queste, infatti, che si è diffuso l’allevamento dei polli che, oltre a trasformarsi nella base di ottimi brodi, forniscono anche il collante indispensabile affinché gli impasti non si disintegrino in cottura: le uova.
Dal XII secolo, dunque, anche i più comuni composti a base di grano tenero o di pane raffermo hanno la compattezza e la resistenza necessarie a reggere la bollitura in minestre e stufati. L’Italia, come si è visto, seguirà una sua strada autonoma e parallela, vuoi grazie ai precoci contatti con il Medio Oriente, vuoi per la disponibilità, come per la Spagna, di grano duro, più resistente e adatto a trasformarsi in pasta anche senza l’aggiunta di tuorli e albume. Nello stesso periodo, le palline a base di pane raffermo si stanno diffondendo anche nella Germania meridionale e in Austria, prendendo il nome con cui ancora oggi sono conosciuti, ossia knodel. Prova della diffusione di questa pietanza presso le comunità ebraiche ashkenazite dell’epoca è la menzione che ne fa il rabbino Meir ben Baruch di Rothenburg, vissuto in Baviera tra il 1215 e il 1293. Tale diffusione diventerà presto una sorta di ossessione, tanto da trasformare gli gnocchi di pane nella base della dieta ashkenazita, almeno fino alla diffusione delle patate nel XIX secolo.
Con l’inizio del Trecento, però, in Italia come in Germania, in Austria e in Ungheria al pane si sostituirà via via sempre più di frequente la farina o la semola. Il risultato non è ancora la pasta come oggi la conosciamo, ma qualcosa di molto simile a quella minestra di bocconcini in brodo citata da Mastro Martino. Da una parte, però, non si usa più il pangrattato, mentre dall’altra la pastella, dalla consistenza troppo liquida per essere modellata, viene fatta cadere nel brodo o nell’acqua in ebollizione, dando origine a quei gnocchetti che ancora oggi conosciamo come spatzle.
Presso le comunità ebraiche dell’Europa orientale il successo degli gnocchi continua intanto a crescere, anche per la possibilità di recuperare gli avanzi di cucine spesso povere e con poca varietà di cibi. Formaggi e verdure fanno spesso la comparsa nella composizione degli gnocchi, che sono prevalentemente a base di latticini in occasione della festa di Shavuot e Hanukkah, mentre negli otto giorni di Pesach sono preparati con la farina di matzah, ricetta rimasta tra i classici intoccabili della cucina tradizionale ashkenazita. Anche il sabato ha i suoi gnocchi, che anzi proprio dalla pratica di cuocerli immersi nello cholent prendono il curioso nome di “ladro del sabato”, Shabbos ganif, visto che rubano il gusto alla zuppa.
Da quanto visto si possono a questo punto individuare due direzioni principali nello sviluppo degli gnocchi. Da una parte la sostituzione del pane con la farina di grano ha portato alla creazione di quelli che oggi chiamiamo passatelli e che in Germania sono noti come spatzle. Complice anche il clima secco, ma soprattutto la disponibilità del più tenace grano duro, alle nostre latitudini si giungerà invece a impasti più asciutti, da stendere in sfoglie e tagliare in tagliatelle e affini. Con il termine gnocchi, affiancato a quello di malfatti, di gnudi o di stangolapreti, si continuerà a riferirsi a quelli di formaggi e verdure, soprattutto spinaci e biete, di pane, di semola e, con la loro diffusione nell’Ottocento, di patate. A proposito di equivoci linguistici, va ricordato che ancora alla fine XIX secolo Pellegrino Artusi parlava di questa preparazione anche in termini di ravioli, distinguendoli dai tortelli per il fatto di non prevedere una sfoglia intorno. Finendo con l’essere, in definitiva, “gnudi”, ossia nudi: un semplice ripieno senza alcun vestito di pasta intorno.
L’altra direzione presa dagli gnocchi è quella diretta a nord, dove il pane continuerà a farla da padrone. Qui, dove la farina di grano è meno diffusa e le patate devono ancora diffondersi, la mollica rafferma diventa la protagonista dei canederli, mentre le azzime costituiscono la base della loro controparte ebraica, denominata in yiddish matza knaidel. Per molto tempo la loro composizione a base di azzime macinate, acqua o brodo, uova ed eventualmente grasso di oca o di manzo resterà esclusiva del seder di Pesach, mentre nel resto dell’anno si continuerà a usare pane, farina e formaggi.
Per comparire sulla tavola di tutta la settimana e diventare uno dei piatti iconici della cucina ebraica ashkenazita soprattutto negli Stati Uniti si dovrà aspettare l’inizio del XX secolo. Due gli elementi decisivi: da una parte la disponibilità casalinga dei mixer tritatutto, in grado di polverizzare con facilità la matzah non limitandosi invece a sbriciolarla, dall’altra la diffusione dei preparati industriali, come quelli prodotti da Manischewitz, marchio americano leader nei prodotti kasher. Oggi le matzah balls sono considerate un comfort food perfetto non solo per le feste ma anche per tutte le occasioni in cui si sente il bisogno di un cibo che coccoli e riscaldi come solo i piatti tradizionali sanno fare. Alla ricetta originale sono andati via via aggiungendosi ingredienti come pezzetti di carne, midollo di bue e spezie. Tra queste, si va dal pepe al peperoncino, dalla noce moscata allo zenzero. Le mandorle, invece, già riscontrate nelle ricette rinascimentali, si sono perse lungo la traversata transoceanica, restando appannaggio della tradizione originaria dell’Europa orientale.
Knaidlach – Matzah ball
Ingredienti per 4
240 g di farina di matzah
4 uova
1 ciuffo di prezzemolo o di aneto
noce moscata
2-4 cucchiai di olio di oliva o schmaltz
acqua minerale gassata
brodo di pollo
sale
pepe in grani
Mescolare in un larga ciotola le uova con l’olio (o lo schmaltz), l’acqua minerale, una presa di sale, una macinata di pepe e una spolverizzata di prezzemolo o di aneto tritato. Aggiungere la farina di matzah e mescolare con cura per amalgamare, poi coprire e far riposare in frigo per almeno un’ora.
Poco prima di cuocerlo, aggiungere all’impasto l’acqua necessaria a ottenere un composto morbido ma abbastanza sodo da essere modellabile. Portare a ebollizione una casseruola di acqua leggermente salata, modellare l’impasto con le mani umide in modo da formare 8 o 12 palline della stessa grandezza.
Cuocere i knaidlach per circa 30 minuti nell’acqua bollente, a fiamma bassa e con il coperchio per i primi 20 minuti, poi scolarli con un mestolo forato e servirli a piacere con brodo bollente di pollo o vegetale.
Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.
Magnifico! Io aggiungevo pezzettini minuscoli di salumi d’oca!