Pellicola tutta al femminile con Shira Haas e Alona Yiv, è il primo lungometraggio di Ruti Pribar. Protagonista, il rapporto tra genitori e figli in una Gerusalemme inconsueta
Sarà una pellicola tutta al femminile, Asia, a concludere le proiezioni in presenza della Rassegna di nuovo cinema ebraico e israeliano. E nessun’altra scelta avrebbe potuto essere migliore. Asia ha mietuto successi ovunque sia stato proiettato, sbancando in particolare il Tribeca Film Festival negli Stati Uniti e l’edizione 2020 dei premi Ofir, gli “oscar” israeliani. Qual è il segreto di questo straripante successo? Innanzitutto un lavoro straordinario da parte delle attrici protagoniste: Shira Haas (Vika) e Alona Yiv (Asia). Per la prima in particolare si tratta dell’ennesima conferma dopo la fortunata partecipazione a serie già diventate cult come Shtisel e Unorthodox. Un plauso però va riconosciuto anche alla regista Ruti Pribar, alla prima prova con un lungometraggio, la quale ha saputo costruire una narrazione emozionante e priva di pietismi su temi tutt’altro che facili: la grave malattia di un figlio, la sessualità di fronte alla morte. A ciò si aggiungono la malinconica colonna sonora di Karni Postel e la fotografia meticolosa di Daniela Nowitz, che ci restituisce l’immagine di una Gerusalemme meno conosciuta, tra palazzoni e piste di skateboard, ma non meno ricca di bellezza. Il risultato, insomma, è quello di un film carico di atmosfera.
La trama: Asia, un’immigrata russa, è la giovane madre di Vika, una diciassettenne alle prese con le prime esperienze amorose. Vivono insieme a Gerusalemme, dove Asia lavora come infermiera e gestisce (a fatica) la propria esistenza tra la casa, gli impegni professionali e una relazione complicata. Concentrata per lo più su stessa, Asia è una donna e una madre irrisolta, più simile a una sorella maggiore che a una figura genitoriale. Tuttavia, l’improvviso peggioramento delle condizioni di salute di Vika, affetta da una grave malattia degenerativa, la costringerà ad affrontare il rapporto con la figlia e, in maniera ancor più urgente, il proprio essere madre. Anche in questa situazione disperata, Vika si dimostrerà differente, forse addirittura provocatoria, eccessiva, ma questa – come apprendiamo nel corso della storia – è la sua natura, il suo modo di amare.
Benché la notizia dell’infermità di Vika sembri, per forza di cose, attirare tutta la nostra attenzione, l’obiettivo finale del film è un altro. Attraverso il prisma della malattia, scopriamo, infatti, come spesso siano i figli a “generare” i padri e le madri e non viceversa, con un tempo di gestazione rapidissimo, soprattutto se di fronte c’è l’abisso del male, l’impossibile.
Asia, 23 novembre ore 21, Rassegna nuovo cinema ebraico e israeliano, Cineteca Milano Meet