Dieci titoli tra film e serie tv da rivedere (incluso un grande classico)
Mese di liste e resoconti dicembre. Basta consultare i siti di informazione di tutto il mondo per trovare i best of dell’anno declinati in ogni modo, dalla musica alla politica. Bisogna prendere atto che sono riassunti interessanti, come un piccolo, rapido colpo d’occhio sull’anno civile che va a concludersi, come se per accedere a quello successivo occorresse un ripasso su quel che è stato.
Filosofie a parte, anche Joi propone le proprie liste. E comincia dal cinema: i nostri migliori articoli dedicati al grande schermo (ma provate a cercare sulle varie piattaforme online…) e alle serie tv, con una chicca ormai grande classico della cinematografia dei fratelli Coen.
- “Shiva baby”, racconto di formazione ne mondo ebraico contemporaneo.
Una giovane ebrea bisessuale, studentessa e sugar baby al tempo perso. Ci sono un sacco di elementi in gioco nei 77 minuti di Shiva Baby, il film diretto dall’esordiente ventiseienne Emma Seligman. La ragazza in questione è Danielle (interpretata da Rachel Sennott), la protagonista del film, letteralmente stritolata dagli eventi nel corso di una giornata in cui non accade nulla di particolare, ma che in qualche modo le cambia la vita. La scena si svolge in una cittadina statunitense, in un ambiente ebraico borghese, con parenti e conoscenti reduci dal funerale di una zia o uno zio, non si capisce. Lei ne sa poco e niente, e raggiunge gli altri già affannata e in ritardo perché impegnata fino a un attimo prima con il proprio amante. Riuniti per il rituale funebre della shivah, gli ospiti mangiano e parlano chiusi in una casa che via via che passano le ore diventa sempre più una prigione per la protagonista. O, meglio, un percorso a ostacoli. Il primo è l’arrivo di Maya (Molly Gordon), sua ex brillante compagna di scuola, nonché ex fidanzata, l’altro è il ritrovarsi a sorpresa faccia a faccia con Max (Danny Deferrari), l’uomo che ha da poco salutato e che ora dovrebbe avvicinare, spinta dal padre, in cerca di un lavoro. Affascinante e più maturo, Max soddisfa gli sfizi materiali di Danielle in cambio di sesso e di qualche ora di spensieratezza. In gergo, è il suo sugar daddy. Vero protagonista del film, che pure si presenta come una commedia, il malessere crescente di Danielle, stretta tra la curiosità sulla sua vita dei più anziani e l’impossibilità di sfuggire da ex fidanzata e amante, ha la virtù, per lo spettatore, di essere insieme particolare e generale. La ricerca di una identità, a cominciare dal sapere “che cosa fare da grandi” fino al capire quale sia il proprio ruolo nel mondo, viene infine messo in luce in un articolo uscito su Times of Israel. Esaltando il lungometraggio come “un grande film ebraico”, Jordan Hoffman interpreta la conclusione di questa indagine in chiave religiosa. - “Blackspace”, una radiografia della meglio gioventù israeliana
La serie israeliana Blackspace, da poco su Netflix, merita una riflessione a parte. Intanto perché non è una serie su donne religiose o sul conflitto con Hamas e già questo è un punto a favore per originalità. Apre una finestra su un aspetto poco conosciuto del paese, prendendo in considerazione una fascia di età che non è spesso protagonista di una serie poliziesca: i giovani tra i 15 e i 18 anni. Sulla scia di Elephant, il film di Gus Van Sant del 2003 e di altri film americani a cui il format chiaramente ammicca, il plot ruota intorno a una sparatoria in un liceo. I killer che indossano maschere da unicorno aprono il fuoco sugli studenti durante il Giorno dell’indipendenza, uccidendone diversi. All’inizio vengono sospettati ingiustamente tre lavoranti palestinesi. Ma il detective che segue il caso non ci vede chiaro e li fa rilasciare, opponendosi alla facile soluzione del capro espiatorio: e se fossero proprio degli studenti i responsabili, se la macchina della strage fosse stata organizzata dall’interno? Non ci vede chiaro – diciamolo – anche perché Rami Davidi (Zuri Alfi Aharon), chiamato solo con il cognome, il poliziotto scettico, ha un inquietante occhio di vetro che mette e toglie come un paio di occhiali. Il tema della violenza giovanile serpeggia da tempo nella fiction israeliana. Uno dei testi teatrali più noti e premiati, Games in the backyard di Edna Mazya, portava in scena un fatto di cronaca realmente accaduto, lo stupro di una ragazza quattordicenne, avvenuto nell’estate del 1988 nel Kibbutz Shomrat nel nord di Israele ad opera di sette ragazzi diciassettenni. Un’opera coraggiosa che più che puntare il dito sulla condanna e sul giudizio, andava a illuminare alcune zone grigie della società, il cui pilastro morale, la famiglia, veniva messo in discussione e demolito come responsabile del disagio e del vuoto etico. Blackspace ha il merito di farci fare delle domande su quello che sta sotto la liscia copertura sociale israeliana, il paese civile e democratico che conosciamo. E’ una serie che inquieta, che infastidisce, che ci infetta lo sguardo e ci restituisce nuove prospettive, come accade a Davidi con il suo occhio di vetro. - “Isaac”, film rivelazione dalla Lituania
L’appuntamento romano con i Lithuanian Film Days in cartellone mercoledì 21 luglio sembra essere piuttoato importante. Va in scena ‘Isaac‘, esordio nel lungometraggio di Jurgis Matulevičius basato sul famigerato massacro del garage di Lietūkis nel 1941, una storia terribile di violenza antisemita dove morirono circa settanta ebrei. Acclamato alle Black Nights di Tallin, il film viene paragonato in qualche modo a Ida, meraviglia del polacco Pawel Pawlikowski uscita nel 2013, per l’uso magistrale del bianco e nero e per l’epoca in cui si svolgono i fatti, pare però rivelarsi inaspettato, anzi, addiruttura niente di già visto, semmai quel film che avremmo voluto vedere (ma non era ancora stato girato). Insomma, Isaac sembra rientrare nella categoria degli imperdibili. Il film si basa su un racconto dello scrittore lituano Antanas Škėma (il primo adattamento della sua opera in assoluto) e si occupa di un trauma profondo che coinvolge il passato di un intero paese, ben rappresentato dal personaggio di Gediminas (Dainius Gavenonis), un regista che è appena tornato da un viaggio negli Stati Uniti e che cerca di catturare il passato nella vita degli anni ’60, ma finisce sempre per tornare sullo stesso argomento: il massacro del garage Lietūkis nel 1941, che diventa l’amara madeleine del film. C’è l’uomo in questo racconto, c’è la storia, quella della Lituania, quella dell’Unione Sovietica, quella del nazismo, quella dell’antisemitismo. “Non ho provato a fare un dramma storico qui, né a dire a tutti la verità su come sia stato davvero. È finzione”, ha spiegato il regista che ha definito il suo lavoro puttosto come una spy-story, “Spero però che tutti possano riconoscersi in quella situazione”. - “Tre piani”, ovvero la distanza siderale tra Roma e Tel Aviv
Tre piani. Tre famiglie i cui destini si incrociano attorno allo stabile in cui vivono, separatamente, le proprie vite. Tre storie diverse, ma dalla portata universale, tanto da aver conquistato il cuore di Nanni Moretti che, per la prima volta nella sua carriera, ha scelto di adattare cinematograficamente un’opera letteraria, Tre Piani, romanzo di Eskhol Nevo, e di trasferirla da un sobborgo di Tel Aviv al centro di Roma.
Come dichiarato dallo scrittore, le due opere, per suo stesso volere, godono di una totale autonomia, ragion per cui l’autore israeliano ha deciso di non avere alcun coinvolgimento nella sceneggiatura – scritta insieme a Federica Pontremoli e Valia Santella.
Una distanza non solo geografica ma anche culturale. Uno dei fili conduttore di Tre piani – il libro – è proprio l’israelianitá. Non quella della Gerusalemme di Amos Oz o della Tel Aviv di Etgar Keret, bensì la provincia: un sobborgo “bene” e, volutamente, non identificato. Forse, volendo tentare una trasposizione adeguata, questo film, nella sua versione italiana, avrebbe potuto aver luogo a Monza o in una ricca cittadina della Brianza, dove, come nel romanzo, i personaggi principali e le loro storie, più che incontrarsi si scontrano, semplicemente a causa della geografia che li lega: un condominio dove, pur essendo vicinissimi, ognuno, di fatto, si trova rinchiuso tra le proprie mura e nella propria solitudine. Nella versione di Moretti, invece, le tre storie si amalgamano e, nel farlo, in parte, sembrano forzare quell’equilibrio – tanto precario quanto stabile – raccontato nell’Israele di Nevo. Un’Israele insolita, bisogna però riconoscere, rispetto alle sue precedenti opere, in cui l’autore costruisce una narrazione che, in teoria, potrebbe avvenire in qualunque altro luogo nel mondo. - “Asia”: una madre e una figlia di fronte all’impossibile
Sarà una pellicola tutta al femminile, Asia, a concludere le proiezioni in presenza della Rassegna di nuovo cinema ebraico e israeliano. E nessun’altra scelta avrebbe potuto essere migliore. Asia ha mietuto successi ovunque sia stato proiettato, sbancando in particolare il Tribeca Film Festival negli Stati Uniti e l’edizione 2020 dei premi Ofir, gli “oscar” israeliani. Qual è il segreto di questo straripante successo? Innanzitutto un lavoro straordinario da parte delle attrici protagoniste: Shira Haas (Vika) e Alona Yiv (Asia). La trama: Asia, un’immigrata russa, è la giovane madre di Vika, una diciassettenne alle prese con le prime esperienze amorose. Vivono insieme a Gerusalemme, dove Asia lavora come infermiera e gestisce (a fatica) la propria esistenza tra la casa, gli impegni professionali e una relazione complicata. Concentrata per lo più su stessa, Asia è una donna e una madre irrisolta, più simile a una sorella maggiore che a una figura genitoriale. Tuttavia, l’improvviso peggioramento delle condizioni di salute di Vika, affetta da una grave malattia degenerativa, la costringerà ad affrontare il rapporto con la figlia e, in maniera ancor più urgente, il proprio essere madre. E scopriamo, infatti, come spesso siano i figli a “generare” i padri e le madri, con un tempo di gestazione rapidissimo, soprattutto se di fronte c’è l’abisso del male, l’impossibile. - La coscienza di Zero e l’(in)aspettato successo in Israele
Un giorno di vita raccontato in sei puntate a scatole cinesi, in cui solo al termine dell’ultimo episodio si realizza che è da lì che tutto ha inizio. Una voce narrante, quella di Michele Rech, in arte Zero Calcare (autore, scrittore, disegnatore e doppiatore della serie) che interpreta le voci di tutti personaggi che lo accompagnano dalla sua infanzia al fatidico giorno in cui tutto cambia.
Una storia molto local, dal linguaggio vernacolare, ambientata nella periferia romana di Rebibbia, ma dalla portata universale, come quella di ogni millenial del pianeta alle prese con la propria crisi di identità “nel mezzo del cammin di nostra vita” (nella serie viene citato anche Dante): classe 1983, Rech compie oggi trentotto anni e ci trasporta nella nostalgia degli anni Ottanta con minuziosi dettagli come il gioco in scatola Indovina chi?, passando da Billy Idol a Bronski Beat, parte integrante della colonna sonora.
Il successo internazionale di Strappare lungo i bordi, trasmessa dalla piattaforma Netflix, ha raggiunto anche Israele, il cui quotidiano Haaretz gli ha dedicato un intero articolo – firmato da Chen Hadad – spiegando alcune delle ragioni per cui questa piccola (grande) serie animata italiana, dallo spiccato accento romano, debba essere assolutamente guardata, preferibilmente tutta d’un fiato o, come si direbbe nel gergo tecnico, facendo binge-watching. Le ragioni che affascinano il pubblico israeliano sono molte, a partire dai più riferimenti al nazismo e al suo negazionismo – quattro nel corso dei sei episodi, se si include anche un omaggio a Bastardi senza gloria – passando per le numerose citazioni transmediatiche e transgenerazionali che vanno da Platone e Mao Zedong, dall’Attimo Fuggente a Guerre Stellari – passando per Full Metal Jacket e Arancia Meccanica – dai Velvet Underground ai Pink Floyd.
Così non solo i millenials, ma ogni tipo di pubblico, finisce con l’immedesimarsi con la nostalgia di un tempo che fu e con il costante senso di colpa che attanaglia Zero fin dall’infanzia, tema centrale di tutta la letteratura e cinematografia ebraica, da Philip Roth a Woody Allen.
Il rapporto con l’Io in questa serie televisiva risulta cruciale non soltanto dal punto di vista del contenuto, ma anche della forma, a partire dall’utilizzo della tecnica del flusso di coscienza, attraverso un processo circolare che ricorda la Ricerca di Proust, ma dal ritmo incalzante di Joyce... La loista è lunga… E come in ogni grande capolavoro, occorre arrivare fino alla fine per comprenderne che è necessario riimmergersi una seconda volta per addentrarsi, oltre che nel testo, anche nel sottotesto che, con tutte le sue sfumature, fa di questa serie televisiva un piccolo (grande) capolavoro, da guardare – almeno – due volte. - “Golden Voices”, cosa significa veramente parlare?
Quello dell’immigrato della Russia post-sovietica è una degli stereotipi socio-culturali più rappresentati dal cinema e dalle serie TV israeliane. Vagamente buffi, disorientati nel loro “nuovo mondo” e decisamente sovraeducati rispetto alle professioni rese loro accessibili in Israele, questi personaggi si muovono a fatica, per lo più su un filo sottile che divide crimine e legalità. Gli uomini sono outsider malinconici il cui ebraico è impastato di vodka e delle tracce di un’esistenza ormai perduta. Le donne sono dotate di una sensualità spiccata, esotica, conturbante, cui i giovani sabra difficilmente possono resistere. In altre parole: sesso, droga e mafia russa. L’ultimo tassello di questo grande mosaico narrativo è senza dubbio Golden Voices (2019, titolo originale Qolot reqa, “Voci ‒ o rumori ‒ di sottofondo”) L’anno è il 1990: l’Urss si è ormai dissolta, la prima guerra del Golfo è alle porte e Victor e Raya ‒ una coppia di mezza età, senza figli, entrambi acclamati doppiatori cinematografici in patria ‒ giungono in Israele per tentare “un nuovo inizio”, non senza dolore. Com’è accaduto a molti immigrati di cui condividono il percorso, quello di Victor e Raya è un sionismo “obbligato”, giacché le condizioni di vita nella madrepatria sono ormai diventate insostenibili. Poco dopo il loro arrivo, però, i due protagonisti realizzano con costernazione che il loro talento ‒ e così pure la loro voce ‒ non ha più alcun valore. Nessuno nella Tel Aviv degli anni ’90 richiede doppiatori in lingua russa, pertanto finiscono per arrabattarsi con occupazioni umili e inadeguate ai loro standard professionali. La frustrazione e la malinconia sono in agguato, ma è proprio in questo momento che avviene il miracolo. Se è vero che ogni esilio racchiude la possibilità di un disvelamento del sé, Victor e Raya, espulsi dalla loro esistenza dorata in patria, si troveranno ad affrontare prove che li costringeranno a guardare prima dentro se stessi e poi al loro rapporto, con conseguenze difficili da immaginare. - “Charlotte” un film d’animazione su Charlotte Salomon
Una bella sfida. Quasi impossibile da vincere. Ma valeva la pena di provarci. Si potrebbe valutare così Charlotte, il film di animazione diretto da Tahir Rana ed Éric Warin che nei prossimi giorni sarà presentato al Jerusalem Jewish Film Festival dopo il passaggio romano dello scorso ottobre alla Festa del Cinema e le premiazioni ricevute ai festival di Toronto, Vancouver, Guadalajara e Calgary.
Ispirato alla vita di Charlotte Salomon, l’artista ebrea di origini berlinesi morta ad Auschwitz, il lungometraggio si misura con diverse difficoltà. Una di queste potrebbe sembrare un vantaggio, ma rappresenta forse lo scoglio più grande. Si tratta cioè di misurarsi su un campo per certi versi simile a quello in cui giocava la sua stessa protagonista. Charlotte è stata infatti da più parti definita la prima graphic novelist della storia, avendo raccontato la sua breve vita in una lunghissima serie di immagini, quasi due migliaia, riassumibili in un unico storyboard, corredato da testi assimilabili a didascalie, fumetti e perfino musiche. Da qui la prima sfida, ossia quello di aggiungere dettagli a una storia già narrata magistralmente, probabilmente senza bisogno di molte altre spiegazioni. E che oggi può essere ammirata sfogliando il monumentale volume Vita? O Teatro? edito da Castelvecchi o connettendosi al sito del museo ebraico di Amsterdam, che custodisce l’intero corpus delle opere giunte a noi dell’artista. Composta da quasi ottocento gouache corredate da testi, l’autobiografia di Charlotte era stata definita da Primo Levi “un’opera d’arte, un’affermazione di vita, un documento, un romanzo di sentimenti di fronte al destino”. Dal canto suo, Jonathan Safran Foer lo cosidera “forse il più grande libro del Ventesimo secolo. Come opera d’arte visiva, è un trionfo. Come romanzo, è un trionfo». - L’uomo che non c’era: il barbiere che sfida il fato e perde tutto
Venticinque secoli prima di Ed Crane, “l’essere è e non può non essere […] il non essere non è e non può essere”, scriveva Parmenide aprendo alla scoperta del limpido mondo dell’identità e della non contraddizione. Ma stabilire se Ed è o non è non sembra così facile. Il protagonista di uno dei film più importanti dei fratelli Coen, che compie oggi venti anni, è un uomo, certo, un uomo che però non c’era, come i registi dichiarano fin dal titolo: The Man Who Wasn’t There. A narrare la storia in prima persona, con parole circondate da tanto silenzio, non può che essere l’uomo Ed Crane, the barber.
Santa Rosa, California, 1949. Ed Crane (Billy Bob Thornton) è barbiere nel negozio del cognato Frank. Second chair, per la precisione. La sua è la storia di un uomo qualunque, un volto nella folla, la storia di una presenza assente o di un’assenza presente. Ed, la sigaretta eternamente pendente dalle labbra, preferisce il silenzio alle parole. Lui è il barbiere, the barber, e taglia i capelli. Punto. Un giorno però decide di provare a uscire dal silenzio e dall’anonimato per diventare qualcuno e così facendo scatena un tragico domino di cui è lui stesso la vittima sacrificale. Nel giorno in cui Ed Crane non si accontenta più di tagliare capelli, fumare e tacere comincia la tragedia greca raccontata dai fratelli Coen con humour nero e senza traccia di melensaggini. Ed Crane, come i protagonisti-vittime delle tragedie di Eschilo, Sofocle e Euripide, è colpevole di hubris, di tentare cioè di travalicare i propri limiti, di uscire dal negozio di barbiere per esempio. Ma nel preciso istante in cui muove una tessera, nel tentativo di migliorare la propria esistenza, scatena un domino che sfugge totalmente al suo controllo, un po’ come accade ai crudeli delinquenti da strapazzo di Fargo o a The Dude nel Grande Lebowski. Non c’è spazio, per il barbiere, per una seconda possibilità. A ben vedere, non c’è mai stato spazio neanche per una prima. Infine, è il film nella propria forma a giocare sul binomio determinato/indeterminato, attribuendo al primo termine carattere illusorio. Il noir non è infatti bianco e nero, ma una sfumatura intermedia impossibile da definire, pena la perdita del film stesso. È teoria delle ombre, chiaroscuro, indeterminatezza. La tinta di un mondo caotico e senza senso. - “Chazarot”, la serie più seguita in Israele nell’anno della pandemia
Fauda, Shtisel, Teheran. Sono solo alcune delle serie televisive israeliane che, grazie a piattaforme come Netflix, negli ultimi anni hanno catturato sempre più attenzione da parte di un pubblico internazionale, affascinato da una realtà complessa come Israele. Che non è un Paese solo di soldati, spie e ultraortodossi, ma anche di persone che, come nel resto del mondo, si amano, si lasciano, e a volte si riincontrano.
Come succede in Chazarot, vincitrice nel 2020 di otto premi assegnati dall’Israeli Academy of Film and TV. Nell’anno della pandemia, è stata in assoluto la più seguita dal pubblico israeliano che, chiuso nelle proprie case, sognava, attraverso i dieci episodi di questa serie tanto divertente quanto dolceamara, di poter tornare a teatro.
“Chazarot”, infatti, in ebraico significa “prove” e racconta la storia, vera, di due attori, Noa Koler e Erez Drigues, ex coppia nella vita reale, che, proprio nel momento in cui decidono di lasciarsi ottengono l’approvazione, da parte di uno dei teatri più prestigiosi di Tel Aviv, di portare in scena la pièce a cui hanno dedicato anni di duro lavoro. Classe 1981, vincitrice dei premi più illustri, tra cui il Premio Ofir come migliore attrice israeliana, Noa Koler ci racconta come è cominciato questo progetto e come si è trasformato nel corso degli anni, adattandosi anche al mercato di produzione cinematografica israeliana, oggi sempre più al centro del mirino, anche delle grandi produzioni internazionali.